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di Walter De Stradis

 

 

 

Due persone, due lucani, diversi per sesso, età, provenienza, istruzione, formazione e linguaggio, ma che sono accomunati dalla scelta della musica “folk” (seppur in due accezioni, anche qui, differenti) come mezzo per raccontare il loro paese e la loro regione. Li abbiamo incontrati lo stesso giorno, il 14 settembre scorso, mentre a Sasso di Castalda le campane suonavano, perché c’era la festa del Crocifisso, e a Tito (a pochi chilometri, sempre in provincia di Potenza) suonavano e basta.

La giovane è Chiara D’Auria, trentenne lucana che negli ultimi anni ha insegnato Lettere a Milano, ma che a un certo punto ha deciso di tornare nella su Tito, anche per “spingere” il suo cd d’esordio, il primo mai registrato in dialetto titese, intitolato significativamente “Fèssë a cchi muórë” (Liburia).

Il veterano è il settantenne Michele Doti, di Sasso di Castalda, muratore per una vita, e musicista “da piazza” da oltre cinquant’anni. Anche lui ebbe una, più breve, esperienza al Nord (in Piemonte), ma la decisione cruciale fu la stessa di Chiara: tornarsene al proprio paese, perché, può sembrare anche strano, ma si vive meglio.

CHIARA D’AURIA: «Il lucano tutta questa voce non ce l'ha»

d - TITO (Pz) - Come mai, tra Rap, Trap, Maneskin e quant’altro, una giovane come lei -oggi come oggi- decide di fare un disco folk in dialetto locale?

La domanda è legittima. La mia non è mai stata una scelta fatta a tavolino. Semplicemente, quello che avevo da raccontare, ha spinto affinché prendesse questo tipo di forma. E questo perché il dialetto è la lingua dell’anima: è la prima lingua che ho ascoltato in casa, nei momenti più intimi della mia famiglia, la lingua che parlo quando sono a mio agio, con gli amici storici. E’ la maniera più genuina con la quale ho potuto esprimere le mie storie, che poi sono quelle del popolo, che narrano della mia terra, della mia gente, guardandone la storia dal basso. E non potevo raccontare diversamente.

d - Il disco s’intitola “Fèssë a cchi muórë” e cioè “Fesso chi muore”. Perché?

E’ “fèssë” chi muore da rassegnato spiritualmente, chi muore spiritualmente, senza aver mai provato a cambiare le cose (per quel che si può). Qui nelle nostre zone spesso ci lamentiamo, senza pensare che tutti dovremmo assumerci una responsabilità e fare qualcosa.

d - Spesso leggiamo intellettuali affermare che i Lucani sono un popolo di rassegnati: è davvero così?

A me fa molto male quando incontro dell’immobilismo, che c’è, ed è altrettanto vero che c’è rassegnazione perché da qui si scappa, c’è la fuga di noi giovani. Tuttavia io non critico, in quanto io per prima sono andata via per studiare e lavorare fuori, tra Napoli e Milano. So dunque che è facile parlare, ma è pur vero che in questo modo lasciamo la nostra terra in mano agli altri, non difendiamo determinati valori e non c’è evoluzione.

d - E quali sono i valori che un lucano dovrebbe difendere con le unghie e con i denti?

Si tratta di portare in giro, con orgoglio, la nostra tradizione, ma non atteggiandosi a “conservatori”, bensì proiettandola in un’evoluzione. E’ importante conoscere la propria storia, ascoltando gli anziani, i portatori di questo patrimonio culturale dal quale io ho attinto molto. Quando stavo a Milano, e di tanto in tanto tornavo qui a Tito per vedere i miei cari, avvertivo la necessità di parlare con mio nonno. Vivendo in una metropoli iniziavo a sentirmi smarrita, sentivo disperdere la mia identità. Volevo dunque riappropriarmi delle mie radici, ma non volevo che il tutto si limitasse all’oretta del pranzo domenicale. E così iniziai proprio ad uscirci, con mio nonno, a parlare con i suoi amici in piazza, a registrare le loro storie, a prendere appunti. Insomma, sono andata alla ricerca di chi aveva memoria, un po’ come facevano alcune artiste degli anni Cinquanta e Sessanta, non solo in Italia (Caterina Bueno e Rosa Balistreri), ma anche all’estero, donne come Violeta Parra e Mercedes Sosa. Sono questi i miei modelli, subisco molto il fascino di queste “guerrigliere culturali”, che danno voce a chi non ce l’ha. E in effetti, i Lucani non hanno tutta questa voce: sono ovunque nel mondo, abbassano la testa, fanno sacrifici (e sono noti per questo), ma sono molto silenziosi. Lo diceva anche Sinisgalli. Oddio, non è un problema, questo, ma come dicevo, la mia paura è disperderci, dimenticare, perdere la memoria di ciò che siamo.

d - Le canzoni del disco sono scritte da lei, ma vi sono anche echi di canti popolari, di filastrocche?

Sì. Una cosa del genere la ritroviamo nel brano “Pigliada d’uógghi”. Il titolo fa riferimento a una formula per scacciare il malocchio. La faceva mia nonna a mia madre, ma allora io ero piccola e quindi non la ricordavo. E così, per riappropriarmene, facendo finta di avere il mal di testa a seguito di una “pigliata ad occhio”, mi sono recata da una signora che ancora pratica il rito. E così quella formula, che calzava a pennello, è diventata proprio il ritornello della mia canzone.

d - Parliamo degli altri temi del disco, che all’ascolto appare caratterizzato da una certa valenza “sociale”.

Mi interessava immortalare l’anima della gente lucana, raccontandoci per quello che siamo, miserie e storture comprese, senza abbellire. I temi riguardano il territorio lucano, ma sono estendibili al Meridione. Vi troviamo la “zitella” del paese che oggi (ed ecco l’evoluzione), dal punto di vista di una ragazza lucana del 2023, quale io sono, diventa un uccello di bosco che non si è lasciato acchiappare dalla prima mano gelida che voleva ghermirla. C’è poi l’emigrante, un uomo di nome Nicola, che se n’è andato in America per aiutare la famiglia; il suo è un dissidio interiore, e la sera, ballando nelle quadriglie organizzate dai compaesani, si sente in colpa per moglie e figli rimasti a casa. Ecco, questo è un altro atteggiamento tipico nostro: il Lucano lavora, lavora, lavora, e poi poco sa godersi la vita. Intanto, la moglie di Nicola, rimasta sola in paese, diventa la “cleptomane”, perché non le sono rimasti nemmeno gli occhi per piangere.

d - Il suo è stato un ritorno, volontario, in Basilicata: ha mai pensato che qui sarebbe stato più difficile promuovere un disco? E’ difficile fare musica in Basilicata? Le istituzioni aiutano?

E’ difficile fare musica qui, ma ci ho pensato dopo. Questo non è un disco fatto per avere successo o per diventare famosa. L’ho fatto per diventare parte attiva, e questo mi fa sentire bene, perché sto facendo qualcosa per il territorio, poi quel che succede succede. Sì, è difficile fare musica in Basilicata e trovare spazio. Mi fa tanta rabbia questa cosa, ma questa rabbia è solo carburante per abbattere dei muri.

MICHELE DOTI: «Vivere felici anche senza un soldo»

SASSO DI CASTALDA (Pz) - Michele, le iqui a Sasso di Castalda è il cantante folk “storico”.

Sì, da cinquant’anni ho ancora la fortuna di cimentarmi nelle piazze. E anche questa sera eccomi qui a cimentarmi nel mio bellissimo paese. Questa sera (14 settembre – ndr) qui si celebra la Festa del Santo Crocifisso, l’ultima della stagione...

d - Il suo gruppo, “I ragazzi del Melandro”, esiste dunque dagli anni Settanta.

Sì, dal maggio del 1971. Sono stati cinquantadue anni gloriosi, ricchi di soddisfazioni. Stasera siamo al gran completo. Siamo da sempre un gruppo amatoriale, non prendiamo niente, e chi ci vuol chiamare ci pagherà soltanto le spese di viaggio e ci offrirà il pranzo. Siamo tutti in pensione e lo facciamo con piacere.

d - Il gruppo “storico” è rimasto sempre lo stesso?

Eravamo i “Ragazzi” del Melandro e oggi, se ci guarda a uno a uno, abbiamo tutti la testa bianca, ma siamo rimasti esattamente gli stessi.

d - Come nacque il gruppo?

Da una mia pazza idea, con la voglia della fisarmonica, e poi pian piano nacque il gruppo, un po’ per gioco. In partenza eravamo in tre, in quattro col professore Aguglia, che non c’è più: un siciliano bravissimo al clarinetto, che viveva a Brienza. Fui suo allievo per sette lunghi anni, ma nel 1978 Gesù se lo chiamò in Cielo. E io presi in mano la situazione.

d - Perchè lei definisce la sua musica “Folk di pastasciutta”?

Perchè in casa discografica mi dissero che gli artisti di solito si mettevano un altro nome, e siccome il soprannome di famiglia, da secoli, era “asciutto”...

d - Lei ci ha aggiunto la pasta.

Esatto! (sorride)

d - I vostri brani sono tradizionali o sono stati scritti da voi?

Personalmente curo il genere folk, ho scritto una trentina di pezzi, pubblicati in tre cd. Sono tutti cantati, organetto e fisarmonica. Quelli del gruppo, invece, sono specializzati nelle più belle canzoni del ‘900, da “Generale” a “Tanta voglia di lei” a “Io vagabondo”.

d - E le canzoni dei contadini, quelle dei vostri nonni...?

Quelle le curo io. Con il mio “quattro bassi”, faccio le canzoni più belle (risalenti agli anni Cinquanta e Sessanta) della buonanima Donato Beneventano, un grande della musica folk, per Sasso, la Lucania, e in tutto il mondo.

d - Di cosa parlano queste canzoni? Di amore? Di lavoro?

Sono tutte belle. Si parla anche di come si viveva ai tempi di Mussolini, c’è la tradizionale tarantella, quella dei “Zitielli”, c’è la polka lucana, che è sempre la più bella e tutti la suonano, c’è “Lu pastore” (che viveva sulle montagne e trascurava la moglie), e tante altre. Le canto tutte, e sono una più bella dell’altra.

d - Se non sbaglio lei era muratore.

Esatto, muratore nato. L’ho fatto sin da piccolo. Con la fisarmonica cominciai a cimentarmi nel lontano 1966, e poi, a furia di insistere, fondai il gruppo che suonerà questa sera.

d - Ha sempre vissuto qui a Sasso?

Il primo anno da sposato me ne andai nel Piemonte, ma dopo un solo anno, capii che non era necessario stare lontano, e che si poteva vivere bene anche qui, se mi fossi organizzato. E così è stato.

d - Quindi diciamolo: è bello vivere in questi paesi.

E’ bello, sì, soprattutto se sei un autodidatta...io cominciai a scrivere le mie canzoni e poi ho fatto migliaia di serate, matrimoni etc. Mi diverto da morire e insieme a me si divertono anche gli altri. La vita in questi piccoli borghi? Bisogna anche saperla prendere, accontentarsi, perché non si può avere tutto. Certo, anche a me è mancato qualcosa...

d - …ma ci può essere un vantaggio nello scegliere di vivere qui, piuttosto che a Potenza, Matera, Salerno...

Il vantaggio c’è sicuramente. Qui ho fondato le mie radici, basta che mi guardi attorno e mi accorgo che tutti mi vogliono bene, come io ne voglio a loro. Anche non avendo un euro in tasca, come può capitare tante volte, non ci sono problemi, vivi contento comunque.

 

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Domani venerdì 22 Settembre, dalle ore 9, avrà luogo presso la “Fondazione Stelline”, Corso Magenta 61, Milano, l’evento “L’opportunità delle pari opportunità”, un’importante occasione per ricordare a tutte le aziende, PA e non, l’opportunità delle Pari Opportunità.

Interverranno le istituzioni con Ivana Pipponzi, consigliera regionale per la Parità della regione Basilicata, Sonia Alvisi, consigliera regionale per la Parità della settimana regione Emilia Romagna, Marco Barbieri, segretario generale Confcommercio Milano, Lodi, Brianza, Anna Maria Gandolfi, consigliera regionale per la Parità della regione Lombardia, Anna Limpido, consigliera regionale per la Parità della regione Friuli Venezia Giulia, e Luisa Quarta, coordinatrice Gruppo Donne Manager Manageritalia.

A seguire gli interventi dell’ente di certificazione IMQ con la Dott.sa Francesca Valenti (Head of Sales – BU Management Systems ) e la società di formazione DTHINS con il Dott. Ciccione. Organizzazione, presentazione e coordinamento a cura del Dott. Stefano De Martin e del Dott. Fabrizio Fiorini della società 4SHIVA.

Così la nostra Consigliera regionale di Parità, avv. Pipponzi: «Affronterò il tema del Rapporto biennale sulla situazione del personale, come disciplinato dal neo articolo 46 del Codice sulle Pari opportunità. Si tratta di un documento prezioso che sono tenuti a redigere, obbligatoriamente, le aziende, pubbliche e private, con oltre cinquanta dipendenti. La compilazione e la pubblicazione di questo Rapporto ha come obiettivo sensibilizzare e consolidare una cultura della parità, vista non solo sotto l'aspetto della equità sociale, ma anche quale motore di crescita e di sviluppo. Serve altresì a far emergere situazioni di discriminazione sul posto di lavoro, ma anche a indurre le imprese a riconsiderare le proprie politiche aziendali in chiave sempre più “gender and family friendly”, e in questo modo a migliorare la propria reputazione e immagine aziendale».

L’iscrizione è gratuita, con possibilità di partecipazione in presenza o da remoto.

Per iscriversi: https://lnkd.in/ddF28634

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

«Elisa era una creatura di luce, l’amica che tutti vorrebbero. Aveva grandi sogni, grandi ideali, s’indignava di fronte alle ingiustizie sociali».

Lo scopo, dichiarato, del libro della giornalista lucana Mariagrazia Zaccagnino, “Sono io Elisa Claps” (Edigrafema) è proprio quello di restituire una dimensione, quella più importante, quella umana, a chi per trent’anni è stato solo un nome, vergato nei rapporti di polizia, negli atti d’indagine su un omicidio, negli articoli di stampa o nei romanzi.

d: Avendo a lungo militato in “Libera”, ed essendo molto vicina alla famiglia, lei conosce molto bene il caso Claps, ma qual è la genesi di questo libro molto particolare? Trattandosi di un testo che riporta i passaggi di un diario personale, ritengo che l’iniziativa venga anche dai familiari.

r: Certo. Conosco la famiglia Claps da quindici/sedici anni, e ciò in virtù del mio lavoro, ma anche della mia militanza in “Libera”, associazione che li ha sempre supportati nella ricerca della verità. E della giustizia. Ma quando conosci Filomena, Gildo e tutti gli altri, non puoi non affezionarti, perché sono persone splendide. Nonostante ciò che hanno vissuto, o forse proprio in virtù di quello, non hanno perso quell’animo buono, che poche persone hanno. Il rapporto, dunque, è andato molto oltre il lavoro, tramutandosi in una grandissima amicizia, soprattutto con Filomena che -da quando sono madre anch’io- è diventata il mio modello. Nel corso delle visite di questi anni, lei mi raccontava cose di Elisa “inedite”, ovvero l’aspetto intimo e familiare. Mi parlava, insomma, di Elisa viva, perché di Elisa viva si è parlato davvero poco: noi l’abbiamo conosciuta sempre dal 12 settembre 1993 in poi. Tutto ciò che è stato raccontato (articoli di giornale, inchieste, libri e ora anche fiction) parla di Elisa da morta. Elisa ha vissuto nella luce per sedici anni, ed è stata nel buio -di un sottotetto- per diciassette. In questo libro cerchiamo di riportarla alla luce.

d: L’idea del libro è stata sua o di mamma Filomena?

r: Io credo che lei avesse questo desiderio, ma non aveva il coraggio di chiedermelo, sapendo che sono una madre lavoratrice. E’ fatta così: si preoccupa prima degli altri, e poi –forse- di se stessa. Però mi diceva sempre: “«Prima o poi ti farò leggere i diari di Elisa». Soltanto lei, che li aveva custoditi gelosamente, aveva letto quelle pagine. Nemmeno i fratelli...

d:...quindi le hanno lette tramite il suo libro?

r: Sì. Rispettando la privacy della sorella, non avevano mai sfogliato quei quaderni. Io lo capisco, perché in quelle pagine, come tutte le adolescenti, Elisa raccontava i suoi pensieri, la sua quotidianità, le sue paure, i turbamenti e anche i primi interessi per amiche e amici. Ci sono dunque alcune emozioni che è giusto che rimangano tra lei e la mamma.

d: Quindi non ha pubblicato tutto?

r: Assolutamente no. Ho fatto una selezione. Quando Filomena mi ha consegnato i diari, sono stata un tantino timorosa, e infatti li ho lasciati in un armadio per qualche giorno. Ogni tanto aprivo e li guardavo, ma non avevo il coraggio di sfogliarli, proprio perché mi sembrava di entrare troppo nella privacy di una persona, che tra l’altro non c’è più e che quindi non mi ha autorizzata a leggere. Però l’ha fatto la madre e quindi ho capito che era una cosa che potevo fare. Leggendo, ho scoperto una ragazza incredibile. E pertanto ho capito subito perché la famiglia ha sempre sostenuto che Elisa non sarebbe MAI andata via di sua volontà. Un’ipotesi, quella dell’allontanamento volontario, che era l’unica che NON andava seguita.

d: E perché l’ha capito leggendo il diario di Elisa?

r: Perché Elisa era INNAMORATA della famiglia. Era una ragazza solare, entusiasta, felice, serena. Non era un’adolescente con problematiche tali da spingerla ad allontanarsi per cercare una propria dimensione. Lei non desiderava evadere. Certo, voleva la sua libertà, ma da adulta. Aveva infatti molti sogni, studiare, diventare medico, realizzarsi nella vita professionale. Ma non aveva alcun desiderio, né bisogno, di allontanarsi. Oltre che della famiglia, Elisa era innamorata anche della città, vi si trovava benissimo.

d: Cosa le piaceva di Potenza?

r: Si sentiva...protetta, stranamente, nella sua dimensione. Quando Gildo suggeriva di andare via e cercare altro, Elisa diceva «Ma no, si sta così bene a Potenza».

d: Elisa si sentiva “protetta” da Potenza; ritiene che la città a un certo punto l’abbia tradita?

r: La città L’HA tradita. Quando è scomparsa, soltanto la famiglia e le amiche d’infanzia non hanno creduto alla tesi dell’allontanamento volontario. Come spesso accade, Elisa è stata ri-vittimizzata dopo la sua scomparsa. Nel libro c’è un capitolo che s’intitola “Quante volte ti hanno ucciso”, perché Elisa non è stata uccisa solo nel 1993. Non soltanto le forze dell’ordine, quelle della prima fase, non hanno battuto la pista investigativa più consona, ma anche la città, dal canto suo, ha cercato di “giustificare” la scomparsa, affermando cose non vere, ovvero che Elisa un po’ se l’era cercata, che se la faceva coi militari, che era incinta etc. Addirittura, un ex capo della squadra mobile, in una intercettazione telefonica disse: «Da quella famiglia sarei scappata anch’io». E quindi quale fiducia potevano avere i Claps nelle forze dell’ordine, se chi è deputato alle indagini parte con un pregiudizio del genere?

d: Il libro raccoglie passaggi dei diari di Elisa, ma l’autrice è lei. Cosa c’è di Mariagrazia Zaccagnino in questo testo?

r: Amo dire che è un libro scritto a sei mani: ci sono quelle di Elisa (i diari), quelle di Mamma Filomena (i suoi ricordi) e poi le mie. Cerco di fare un po’ da collante tra queste due anime che si rincorrono e dialogano. Faccio poi alcuni necessari cenni al contesto storico e giudiziario.

d: Vorrei che commentasse alcuni titoli di giornale risalenti a ieri (12 settembre – ndr). Alcuni sono dei virgolettati. Il primo: “La comunità ha lasciato sola la famiglia Claps”. Un po’ ha già risposto.

r: Sì, in un primo momento è stato così, ma oggi la famiglia Claps sente forte l’abbraccio della città, che esce fuori anche dai confini regionali.

d: La comunità ha forse avuto bisogno, anch’essa, di tempo per capire?

r: Sicuramente sì. Il trascorrere del tempo sicuramente ha aiutato: a volte, per capire bene qualcosa, bisogna allontanarsi e mettere a fuoco. In questo ha aiutato anche la ricostruzione di Pablo Trincia col suo podcast, perché ha aiutato a riannodare i fili. Tanta gente che magari prima ignorava molti aspetti, adesso non potrà più dire di non conoscere. E’ come se la città avesse preso piena consapevolezza di ciò che è accaduto, e anche del fatto che la famiglia Claps era stata lasciata effettivamente sola. Nelle manifestazioni come quella di ieri (la marcia organizzata da Ulderico Pesce ndr), all’inizio c’erano solo i Claps, don Cozzi e qualche altro vicino di casa. Oggi le sale sono piene.

d: Altro titolo: “Una città mafiosa che ancora giudica i Claps”.

r: Più che di “mafia”, vera e propria, io parlerei di “atteggiamento mafioso”, che si concretizza nell’omertà, in un atteggiamento omertoso. Si tratta di un girarsi dall’altra parte, un “questa cosa non mi riguarda”. Tuttora, c’è ancora uno “zoccolo duro” che resiste nel non prendere consapevolezza e nel non immedesimarsi nel dolore di questa famiglia. C’è anche chi ha pensato che la famiglia abbia potuto lucrare su questa storia. Fandonie. Pensi che Gildo -poichè Elisa voleva fare il medico- aprirà un laboratorio di analisi a suo nome, in Africa (e vi contribuirò anch’io coi diritti d’autore di questo libro). Le malelingue ci sono sempre, dunque, ma sicuramente si sono ridotte.

d: Uno degli ultimi sviluppi di questa vicenda è stata la riapertura al culto della Trinità. Qual è la sua posizione in merito?

r: La famiglia Claps non era contraria alla riapertura in sé e neanche io. Il fatto è che c’era un’attività di mediazione che andava avanti da tempo e che a un certo punto ha conosciuto una battuta di arresto. La curia potentina ha deciso di riaprire. Se la decisione fosse spettata a me, io avrei riconvertito lo stabile, o l’avrei riaperto dopo un’ammissione di responsabilità. Non parliamo di “colpe”, necessariamente, ma di “responsabilità” sì. Faccio un esempio: Papa Francesco ha chiesto scusa per i preti pedofili. Non è certo lui sul banco degli imputati, ma è lui che ha la responsabilità della Chiesa. La dottoressa Barbara Strappato, capo della mobile di Potenza all’epoca del ritrovamento del corpo di Elisa, prendendo le mani di Filomena tra le sue, chiese scusa alla famiglia Claps in quanto rappresentante dello Stato e delle forze dell’ordine (e anche qui, come vede, c’era stato un cambio di atteggiamento, rispetto a quando quell'altro capo della mobile aveva detto «da quella famiglia sarei scappata anch’io»). La chiesa dunque poteva essere riaperta? Sicuramente, ma tutto doveva passare da un atto di riconciliazione. La riconciliazione, per come la vedo io -da credente- passa attraverso l’ammissione della colpa, la remissione dei peccati passa attraverso l’ammissione delle responsabilità.

d: Sempre a proposito di “riconciliazione”, spesso -in alcuni editoriali- si è letta la frase “ricucire lo strappo” (nella comunità potentina). Cosa ne pensa.

r: Io credo sia possibile, anche perché ho visto l’abbraccio e il coinvolgimento, addirittura un “mea culpa” per non aver compreso prima la gravità della situazione, il non essere entrati nella carne viva del dolore di questa famiglia. La città si può “ricucire”, ma non servono i “punti di vista”.

d: E cosa, allora?

r: Una responsabilità, il non avere più un atteggiamento omertoso. Ci vuole consapevolezza.

d: Da tutta questa storia, cosa deve imparare la nostra città, una volta per tutte?

r: Non ho da insegnare nulla, ma a me questa storia ha insegnato a non mollare mai. La famiglia Claps, in questi anni, ha “congelato” la sua vita. Gildo si è improvvisato investigatore privato, e se Danilo Restivo è stato processato e condannato, si deve anche a questo. Fu infatti Gildo a scoprire che in Inghilterra c’era stato un omicidio che aveva delle similitudini col caso Claps...

d: Cosa ne pensa di coloro che comunque hanno deciso di tornare a frequentare la Trinità?

r: Io penso che ci sono tanti modi per dialogare con Dio. Non credo sia necessario andare in un tempio piuttosto che in un altro. Non condanno chi in quella chiesa ci va, ma ritengo che poi debba avere anche il coraggio di guardare i Claps negli occhi. Io, personalmente, in quella chiesa non ci entrerò

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

“La Signora del Lago” a Nemoli, “La Città dell’Utopia” a Campomaggiore, e attualmente “La Storia Bandita” al Parco della Grancia (in programmazione fino al 23 settembre): ormai il nome del regista e autore teatrale melfitano Gianpiero Francese qui in Basilicata è sinonimo di grandi attrattori in cui (parole sue) la tecnologia è al servizio della poesia e non il contrario.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r - Quello della vita è un viaggio meraviglioso, anche se bisogna essere consapevoli che ha un finale “triste”. Però il segreto della riuscita nelle cose che facciamo risiede nel mantenimento di relazioni sane. Mi piace avere una buona “ecologia” dei rapporti.

d - Ho letto da qualche parte che lei in realtà nasce come musicista e autore di canzoni.

r - Sì, ho sempre avuto questa passione segreta, sono nato con la musica e anche il teatro si può dire che sia stata una sua emanazione. Tant’è vero che una delle prime cose che facemmo a teatro fu una versione in chiave musical del romanzo “La fattoria degli animali”, con musiche originali, appunto. Fino ai vent’anni si suonava anche ai matrimoni, si faceva di tutto di più, ma poi il teatro ha preso il sopravvento.

d - Recentemente lei ha fatto anche un disco (“Già”).

r - Un disco, sì, ma già a trent’anni registravo spesso le mie canzoni al Little Italy di Campomaggiore. Un giorno, dopo una sessione, me ne stavo tornando a Melfi, e mi chiamarono al telefono: mi dissero che a Mango erano piaciute le mie canzoni. All’inizio credetti a uno scherzo, ma poi feci inversione e tornai subito a Campomaggiore. E così lo conobbi.

d - Poi avete collaborato per diverso tempo.

r - Sono stato quattro anni insieme a lui. Mi diceva: «Sei un cantautore che canta bene».

d - Che ruolo aveva nell’entourage di Mango?

r - Col fratello Armando cercavo di produrre un disco che poi non c’è stato. Però scrissi una canzone che Pino amava tantissimo, “Io che non ho”, e dopo averla ascoltata lui mi invitò come ospite in una sua tournée. Si fermava a metà concerto e mi dava la possibilità, con la SUA band, di cantare canzoni mie; dovevo fare poche date, ma alla fine furono un’ottantina, partendo dalla Svizzera, girando tutta l’Italia, e toccando anche il teatro Ariston di Sanremo. Mango mi invitò anche a partecipare a molte puntate del Festivalbar: suonavo la chitarra acustica in “Goccia a goccia” (la chitarra solista era quella di Graziano Accinni).  

d - Una cosa che si è detta poco su Mango qual è?

r - Che era un grandissimo lavoratore. Andava in studio di registrazione anche alle nove di mattina, a lavorare. Gli piaceva tantissimo cucinare, anche per gli altri, ma poi tornava sempre al lavoro.

d - Per lei invece qual è stato il momento dell’epifania definitiva sul teatro?

r - Beh... proprio mentre suonavo con Pino, mi rendevo man mano conto che quella vita, fare il cantautore, suonare nelle piazze, trovarsi il 15 agosto a Marcianise, sempre “splendido”...beh, non faceva per me. Una volta Pino mi rimproverò sonoramente, perché sgattaiolavo e non firmavo gli autografi: “Un giorno anche questo sarà il tuo lavoro!”. Ma io già capivo che la mia natura non era quella del frontman, ma di uno dietro le quinte, a cui piace studiare. E piano piano mi sono allontanato dal mondo della musica, dedicandomi a cose che comunque facevo già in contemporanea.

d - In effetti immagino che gran parte del suo lavoro sia proprio lo studio, visto che molti dei suoi spettacoli sono parecchio radicati nella storia lucana.

r - E infatti il lavoro del regista è anche e soprattutto quello: stare sui libri, cercare aneddoti ed episodi strani, magari.

d - Lei, dopo aver partecipato attivamente già all’istallazione originaria, attualmente è tornato a “La Storia Bandita”, nelle vesti di regista. Però proprio sui briganti (argomento sul quale in Basilicata sembra che prima o poi scrivano tutti), c’è anche tanta retorica e approssimazione. Non so se è d’accordo.

r - Sì, come a volte capita. Si tratta di una storia controversa e a me piace approfondire: pertanto non mi piacciono i briganti dipinti come eroi, ma neanche quelli tratteggiati come mascalzoni. Mi piace invece l’idea di raccontare la storia di un popolo che è stato sempre vessato, questa è la verità. Se dobbiamo raccontare una storia, questa deve essere utile, portandoci a dire “Questa cosa non deve più succedere”. Come ben sa, si tratta di un discorso che è anche strumentalizzato politicamente: ci sono i neo-borbonici, c’è un mondo della sinistra che lo racconta alla propria maniera, ma me tutto questo non interessa. A me interessa la storia di un popolo che ha vissuto una storia molto triste, e anche violenta, e che adesso deve trovare la forza per rialzarsi.

d - Perché dice “adesso”? Secondo lei i Lucani sono ancora un popolo di sfruttati?

r - Guardi, ci sono nuove forme di sfruttamento. Dopo un po’ di tempo, sono di nuovo al lavoro su un testo teatrale, sono a metà dell’opera, e l’ho dedicato...si può dire alla “morte della classe operaia”?

d - Come no.

r - Ecco. Certo, è un work in progress, ma ciò che mi sta ispirando maggiormente è il lavoro di questi ragazzi alla Stellantis. L’idea è quella di un turno di notte in cui, mentre c’è una scossa di terremoto, gli operai restano chiusi e hanno la possibilità di fare un confronto. Ci saranno i ragazzi de La Ricotta, Dino Paradiso, per cui c’è anche satira, ma è un lavoro agrodolce, semiserio. Tuttavia, lavorandoci su, mi accorgo che al di sopra di certe cose c’è una macchina complessa, che io non riesco magari a decifrare nei suoi meccanismi perversi, mentre noi siamo solo dei piccoli anelli che pensano di muoversi in assoluta libertà. E non è così.

d - Lei ha detto che uno dei suoi primi lavori è stato “La fattoria degli animali di Orwell”...

r -...oggi sarebbe attualissimo! Spesso ci chiediamo se non sia il caso di riprenderla.

d - In quel libro c’è la famosa frase: “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri” (riferita agli uomini). Vale anche per i Lucani? Ci sono dei Lucani “più uguali” degli altri?

r - E’ quasi sempre stato così. Bisogna farsi spazio all’interno della meritocrazia.

d - E c’è la meritocrazia in Basilicata?

r - Io posso parlare di me: non sono mai stato aiutato, anzi, a volte i politici hanno loro chiamato me, per farsi aiutare in qualche progetto (lo dico con un pizzico di presunzione).

d - Non ha mai avuto “sponsor”.

r - No, non ho mai avuto “sponsor”, eppure ho fatto il mio e sono felice che la mia passione sia diventata un lavoro. Secondo me, dunque, si può fare, altrimenti sarebbe una gabbia insopportabile, la vita.

d - Qual è lo spettacolo per il quale vorrebbe essere maggiormente ricordato?

r - (Ci pensa). Sono molto legato alla Città dell’Utopia, un esperimento complicato: un attrattore, sì, ma teatrale, con degli attori bravissimi che recitano dal vivo, mentre attorno a loro ci sono delle modalità di attrazione modernissime, come la danza aerea e vari escamotage tecnici. Mi sono sempre sforzato di mettere la tecnologia al servizio della poesia, e non il contrario.

d - La canzone che la rappresenta?

r - “E ti vengo a cercare” di Battiato. Perché la mia vita è sempre stata una ricerca.

d - Il libro?

r - “Le memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar: c’è un momento in cui il protagonista è affrancato sia dalla religione sia dallo Stato, e questa libertà assoluta mi ha sempre affascinato. E’ un libro anarchico.

d - Il film?

r - Guardi, il cinema mi piace, ma non sono un appassionatissimo. Ho provato anche a farlo, ma è un linguaggio “pazzo” che io non prediligo. Il film che però mi ha segnato è senz’altro “I ragazzi della via Pal”. Mi fece conoscere le potenzialità di quella macchina infernale, perché da bambino, nel vederlo, piangevo come un vitello.

d - Fra cent’anni cosa vorrebbe fosse scritto sulla sua lapide?

r - Ma io non ci sono, a quel punto sono già altro. I cimiteri sono posti vuoti, sono già andati tutti via. Ecco, si potrebbe scrivere “Sono già andato via”.  

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

E’ il primo pomeriggio di martedì, al Viviani, e da un paio di giorni a Potenza è tornato il clima che gli è più consono, con un vento dispettoso e non senza qualche goccia d’acqua. Ma per il patron del Potenza Calcio, Donato Macchia, all’antivigilia della (seconda, per lui) presentazione della squadra, non ci sono nuvole che incombono sulla società rossoblu.

d - Presidente, per lei questa è la seconda presentazione del Potenza. Cosa c’è di diverso in lei rispetto all’anno scorso? Maggiore consapevolezza? Minore “ingenuità”? Maggiori/minori aspettative?

r - La cosa che più mi tranquillizza è l’aver preso le misure ai meccanismi di iscrizione al campionato. Sono a dir poco “diabolici”: a causa della loro complessità, se sbagli una virgola, sei fuori, e di cose del genere se ne vedono e ne abbiamo viste. E questo posso dirlo con tranquillità dopo un anno di gestione, partita con una macchina azzerata (perché noi qui non abbiamo trovato nulla, e sottolineo nulla; abbiamo dovuto ripristinare tutto il meccanismo organizzativo, dalle competenze più semplici a quelle più strutturate). Pertanto, sì, abbiamo un anno di esperienza, che non è poco, poiché abbiamo approcciato tutto con delle competenze puntuali, con delle rigorosità, con un piano di lavoro che -devo dire- ci ha dato grandi soddisfazioni.

d - E ritiene di aver “preso le misure” anche alla tifoseria? Non sarebbe poco neanche questo, considerata la piazza.

r - Non esiste “prendere le misure” a una tifoseria. Come si fa? La cosa davvero importante, nei rapporti con i tifosi, è essere “a parte civile”. Mi spiego: si tratta di garantire ai supporter l’iscrizione della squadra; gestire in maniera sana, e non far nascere problemi come quelli verificatisi in passato, quando non s’erano potuti garantire nemmeno i servizi essenziali. Poi, certo, è normale, la tifoseria vorrebbe la Champions, ma è anche giusto da parte sua comprendere gli sforzi. Fare una società di calcio, tenerla pulita e ordinata, è una cosa complessa; lo è parimenti la programmazione tecnica. Ma ci vuole il tempo. E se si fanno le cose non avendo del tempo a disposizione, si ripete quanto è più volte accaduto (leggi fallimenti): a un certo punto, infatti, il Potenza Calcio non esisteva più nelle dinamiche, nelle considerazioni, in pratica, il “brand” era sotto la sabbia. Non c’era più nulla. Nulla!

d - Adesso dunque la società è in salute.

r - Di più: avendo fatto un lavoro forse mai svolto prima, in un anno, il brand “Potenza Calcio” è diventato un modello nella Lega Pro. E non lo diciamo noi, ma lo dicono la Lega stessa e anche i club degli altri gironi. Hanno un gran rispetto per noi.

d - In sostanza, lei dice, il Potenza ha riacquisito credibilità.

r - Sì, e anche tanta.

d - A questo punto però un tifoso potrebbe chiederle: “Presidente, all’atto pratico, in cosa si traduce per il Potenza tutta questa credibilità?”

r - In primis, nell’aver recuperato dignità. E’ accaduto che in passato, coloro che affermavano in giro di avere nel cuore il Potenza Calcio, rappresentavano una società che dignità non aveva.

d - Spesso si sente dire che i tifosi sono “azionisti” di una società. In che misura, per lei, questa affermazione è veritiera?

r - I tifosi sono azionisti, ma non lo sono sotto il profilo del contributo economico. Voglio chiarire, perché questo è un limite che la piazza potentina continua ad avere (almeno, io lo sto costatando ora). Il Potenza Calcio, seppur riferibile al capoluogo piccolo di una piccola regione, può e deve avere palcoscenici migliori; ma affinché si arrivi a questo, ci vuole il contributo di tutti. Non servono a nulla i “bla bla bla” di taluni (che il Potenza lo amano poco, evidentemente). I tifosi affermano che “l’importante è che il Potenza scenda in campo”; tuttavia il nostro compito non è solo quello. Noi dobbiamo programmare il futuro. E il futuro non lo si programma facendo operazioni pazze. Bisogna investire sui giovani, organizzando le strutture necessarie, cosa difficilissima. Senza tutto questo, a meno di concomitanze fuori dall’ordinario, non c’è operatore economico che possa mantenere una società professionistica ai massimi livelli. In sostanza, si concretizza una società sana solo nel momento in cui cresce e programma, e solo a quel punto si può ricevere rispetto e anche -giustamente- ambire a traguardi maggiori.

d - Nel frattempo, voi avete puntato molto anche su un Potenza “di prossimità”, facendo girare la squadra nei quartieri della città...

r -...E nella provincia

d -...Incontrando la gente. Una cosa che mi pare inedita.

r - Ci stiamo rendendo conto che il calcio può avere una funzione straordinaria. Sociale ed ECONOMICA. Molte volte le amministrazioni pubbliche non sanno leggere questo dato, pensando che lo sport sia un comparto insignificante sotto il profilo economico. E’ invece un dato assodato che per ogni euro che le strutture pubbliche investono nello sport, ne ritornano tre. Infatti, con lo sport c’è meno incidenza sanitaria, e tanta altra roba. Sì, noi abbiamo un progetto inclusivo, abbiamo messo su, in parallelo, la Fondazione Potenza Futura. Abbiamo un team straordinario. Guardi, la nostra è ormai un’azienda, che merita il rispetto che ha. Dà lavoro a tante persone.

d - Passiamo un attimo alla questione stadio...

r -...Ma anche qui, debbo dire, con l’amministrazione comunale abbiamo impostato un rapporto basato sulla lealtà pura. Io ho detto loro: guardate, da voi non verrò mai col cappello in mano. Do rispetto e in cambio mi aspetto lo stesso. Ognuno deve fare ciò che è di sua competenza. In tutta verità, mi sono sentito sollevato quando il Sindaco ha detto “Per la prima volta non sarò anche il presidente del Potenza Calcio”: in passato, per taluni piccoli periodi, è accaduto spesso che al primo cittadino venissero consegnate le chiavi della società.

d - Il sindaco non sarà presidente del Potenza Calcio, ma non vedremo mai neanche un “onorevole Macchia”?

r - No. Attenzione, io ho dichiarato che non farò mai il politico in prima persona, ma questo non esclude il poter dare un contributo di idee. Perché avvertiamo l’esigenza che qualcosa debba accadere. Pur col poco tempo avuto finora disposizione, qualcuno dice che noi -dal canto nostro- qualcosina già l’abbiamo fatta, ridando il sorriso a una città totalmente spenta. Stiamo facendo questa intervista in un luogo che prima non c’era (il bar interno –ndr) . I primi soldi noi li abbiamo investiti nello stadio, perché era un letamaio. Ora è un posto a cui noi abbiamo ridato dignità. Questo luogo ormai io lo chiamo “Via Pretoria 2”: non c’è giorno, la mattina o la sera, che non vi sia gente, a prescindere dalla presenza di eventi o meno. E allora, faremo tutto quanto è necessario. Mi sento dunque, moralmente, impegnato a dare un contributo di idee, di pensiero, per far accadere qualcosa che possa aiutare chi ha deciso di rimanere in questa terra e viverla. Come noi. Di sicuro non ci gireremo dall’altra parte.

d - Riassumendo, lei finora è soddisfatto...

r -...Come no.

d - Non ha mai detto o pensato “Chi me l’ha fatta fare”.

r - No. All’inizio dichiarai quattro cose (che abbiamo realizzato e che sono sotto gli occhi di tutti). Uno: sdebitare la società (abbiamo trovato un debito societario vicino ai quattro milioni). Due: le infrastrutture. Abbiamo subito investito un milione e mezzo. E lo vedono tutti. Tre: i giovani. Abbiamo ricostruito un progetto che era ai minimi termini. Ci siamo presi il lusso di arrivare terzi con la Primavera Tre. Quarto: la salvezza. Non solo ci siamo salvati belli tranquilli, ma... come ben sa, saremmo potuti andare molto oltre.

d - In conclusione, mi dica una cosa che in quest’anno invece l’ha fatta incazzare.

r - (Sorride) Le cose possono essere tante o non esserci affatto... Guardi, voglio dirle questo: quando un imprenditore cresce in un territorio, ha il dovere di donare qualcosa al territorio in cui cresce. Questo significa che egli deve operare consapevole del fatto che potrebbe anche arrabbiarsi. Ma se vuoi fare questo tipo di lavoro, le arrabbiature devi metterle da parte.

 

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POTENZA CALCIO – «Caturano rimane, ma arriverà anche un grande centrocampista»

 

di Antonella Sabia

 

Prenderà il via domani, con un esordio casalingo, la stagione 2023-24 del Potenza Calcio. Si riparte da una certezza, la fascia di capitano rimane sul braccio di Caturano, che è stato riconfermato proprio durante la presentazione della rosa che si è svolta giovedì allo Stadio Viviani, sul campo verde diventato ancora una volta palcoscenico per raccontare il futuro rossoblù. Su di lui si erano concentrate le maggiori voci degli ultimi giorni, perché l’attaccante era stato a lungo corteggiato dalle BIG del girone, Crotone e Benevento in primis. L’arrivo di Asencio, poi, non ha fatto ben sperare in una sua permanenza con la maglia rossoblù, e invece si può dire che questo sia stato il miglior colpo di mercato da parte del Presidente Macchia. Proprio su questo, ha dichiarato durante la Presentazione:“Salvatore Caturano vale quanto tutti gli altri giocatori, ma su di lui si sono scatenati tanti club che ambiscono alla B. Non ultimo il mio amico del Benevento, che ha fatto anche offerte consistenti. Però siamo riusciti a trattenere un ragazzo che ha ricevuto richieste da far tremare i polsi, si può rinunciare al compenso, ma bisogna rimanere con orgoglio e fierezza”.E sempre in merito alla squadra, il major del Potenza Calcio ha inoltre affermato:“Abbiamo una rosa di valore, a partire dal mister, sicuramente ci toglieremo molte soddisfazioni. Il tifo non ci serve per fare botteghino, ma per sostenere la squadra”. E ha inoltre congedato il pubblico rossoblù che ha affollato la tribuna del Viviani, con la notizia di una chiusura di mercato importante: “Arriverà un grande centrocampista”, ha riferito Macchia. Proprio mentre andiamo in stampa, si chiuderanno le porte dello Sheraton di Milano, e potremo avere certezza di chi sarà l’ultimo acquisto del Potenza che chiuderà la rosa di mister Colombo e si presenterà domenica alle ore 20:45, sul prato verde del catino casalingo, contro il Brindisi. Si è a lungo parlato di Pasquale Schiattarella, centrocampista campano, in forza al Benevento, ma solo tra qualche ora si avrà la certezza.

ACQUISTI E CESSIONI – Di seguito acquisti e cessioni del Potenza Calcio nella sessione di mercato estivo. IN: Edoardo Saporiti, Alessandro Calvosa, Luciano Pisapia, Antonio Porcino, Luca Gagliano, Mario Francesco Prezioso, Rosario Mariano Maddaloni, Asan Mata, Andrea Hristov, Kevin Candellori, Mattia Rossetti, Raúl José Asencio Moraes. OUT: Vincenzo Polito al Messina, Emanuele Schimmenti, Gabriele Rocchi al Latina, Fabia Alagna.

ABBONAMENTI – Terminerà oggi, alle ore 20, la campagna abbonamenti #ViviilViviani per la prossima stagione sportiva. Ad oggi pare che i numeri si attestino intorno ai circa 800 abbonamenti.

INNO – Proprio durante la Presentazione ufficiale è stato scelto il prossimo inno del Potenza che farà da cornice alle gare casalinghe del Potenza. A sorpresa, ad aggiudicarsi il contest indetto dalla società in collaborazione con il Festival Musica Senza Etichetta e la pagina d’informazione web Il Potentino, sono stati SiscoeGarracash, che hanno ribaltato un risultato parso ben più atteso. Avevano infatti ottenuto più “like” su Youtube (dato che influiva al 60% sull’esito finale) le proposte di Antonello Favale e Claudio Silvestrelli, gradimento popolare rispetto al quale si è però rivelato decisivo il voto della giuria tecnica interna.

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di Walter De Stradis

 

 

 

«Gae Aulenti era un tipo di persona talmente libera e indipendente, che avrebbe trovato divertente l’idea che qualcuno potesse protestare contro una piazza ideata da lei!».

E se lo dice l’autorevole scrittrice e giornalista Annarita Briganti, che l’illustre architetta (scomparsa a Milano nel 2012) l’ha studiata (e amata) a fondo, c’è da crederci.

Napoletana (ma il nonno era lucano), residente a Milano, collaboratrice di Repubblica e di Donna Moderna, opinionista tv nei programmi Mediaset, mercoledì scorso Briganti ha presentato il suo libro (“Gae Aulenti – Riflessioni e pensieri sull’Architetto Geniale”, Cairo Editore) qui a Potenza, nell’ambito della Notte Bianca del Libro Festival, in un incontro moderato da Rosa Santarsiero, con interventi di Carla Sabia e Marisa Santopietro.

L’occasione si è rivelata dunque ghiotta per discutere con l’autrice di quello che è stato uno degli ultimi lavori progettati (insieme a un più ampio team) da Gae Aulenti: proprio la nostra Piazza Prefettura. Com’è noto, il nuovo look, e soprattutto i “pali” metallici che lo caratterizzano, furono oggetto di critiche che definire aspre è un eufemismo, tant’è che in occasione del Concertone Rai di Capodanno di qualche anno fa, quando queste furono momentaneamente divelte, più di qualcuno in città sperò si trattasse di un “regalo di Natale” definitivo.

d - A Potenza tutti conoscono Gae Aulenti (anche in virtù delle feroci polemiche che ci sono state) esclusivamente come colei che ha “disegnato” il volto che Piazza Prefettura ha da una decina d’anni a questa parte. Tuttavia, questo importante personaggio rimane comunque un “oggetto misterioso” per gran parte dei cittadini.

r - La mia è la prima biografia in assoluto su di lei, ma mi preme subito risolvere il “referendum” sui “pali” della Piazza: io li amo. Mi è stato raccontato che in città c’è stata una sorta di divisione interna…

d - …a dir poco: fu allestito addirittura un comitato…

r - …appunto, perciò, vi prego, come ho già avuto modo di dire nel corso della presentazione del mio libro, qualora vi fosse una manifestazione contro i “pali”, chiamatemi subito, perché io verrò a manifestare a loro favore. La vostra è una piazza bellissima, speciale, unica, come non ce ne sono nel resto dell’Italia. D’altronde Gae Aulenti faceva esclusivamente interventi che a suo modo di vedere si armonizzavano con il territorio, pertanto vi invito a fidarvi della sua visione, perché non potrete più farne a meno.

d - Quindi lo stile della piazza, con tanto di pali, è tipico di Aulenti? Lo si può ritrovare in altre opere in giro per l’Italia?

 

 

 

 

annarita_briganti.jpgr - Bah, io ho la fortuna di girare l’Italia e di venire spesso qui a Potenza in occasione di questo Festival del libro (per il quale ringrazio Paolo e Simona). Ne approfitto per dire che l’Italia dei Libri è molto lunga (Milano, Tornino, Napoli…), ma quando vengo qui coi miei lavori, scopro sempre nuovi angoli della città. Ed è stato davvero bellissimo scoprire una piazza ideata da una donna, che oltretutto rappresenta un “unicum” tra le sue creazioni. Infatti l’Aulenti, pur avendo degli elementi ricorrenti (qual è sicuramente il “colonnato”), ha fatto un progetto specifico per QUESTO territorio; pertanto, come dicevo, io questa piazza me la terrei stretta, e presentare il mio libro solo a pochi metri (nel cortile della Provincia di Potenza – ndr) è stato davvero emozionante.

d - Tuttavia nel corso della presentazione lei stessa ha affermato che i lavori di Gae Aulenti erano spesso oggetto di polemiche.

r - Sempre. Qualsiasi cosa facesse. A riguardo, le do due risposte sintetiche. La prima (ed è anche una provocazione) è questa: Aulenti era una donna in un mondo che allora era ancora più maschile –se non proprio maschilista- di adesso; di conseguenza, il fatto che molti concorsi internazionali, molti prestigiosi lavori che tutti avrebbero voluto fare (penso al museo d’Orsay a Parigi, ad esempio) andassero a lei, era causa di critiche pretestuose e ingenerose. E questo, spiace dirlo, accade ancora oggi: se tu donna ti esprimi, vuoi fare carriera, non hai paura, e accetti il confronto, comunque spesso e volentieri sei oggetto di critiche pretestuose. E dell’odio sui social non ne parliamo proprio (né tantomeno dell’argomento violenza sulle donne, un campo ancora più atroce). Seconda risposta: quella di Aulenti era Avanguardia, pertanto lei vedeva le cose “prima”, per l’appunto. Prenda questa Piazza che ora noi chiamiamo “dei pali”: vista ora, è una performance della Biennale, è un’istallazione, un’opera d’arte. Se voi andate alla Biennale trovate QUESTO tipo di cose (che io amo). Ecco quindi che Aulenti guardava in avanti, di dieci, vent’anni, addirittura di generazioni, ma poi il tempo le ha SEMPRE dato ragione

d - Quindi Secondo lei verrà il tempo in cui la maggior parte dei potentini apprezzerà la bellezza di Piazza Prefettura (magari una volta definitivamente smaltita la delusione di non potervi più parcheggiare).

r - A me sembra incredibile non riconoscerne la bellezza. E guardi che è importante parlarne, perché il contesto in cui viviamo determina il nostro stile di vita: se viviamo nel bello siamo più felici, al contrario di ciò che accade creando “ghetti” (si veda ciò che succede in Francia) che a loro volta portano solamente drammi, violenza e distruzione. Ne consegue, che se Potenza ha l’opera di una grande artista -qual è Gae Aulenti- dev’essere per forza un elemento di bellezza, di amore. E se vuole anche di ripartenza, onde poter continuare ad amare questa città, anche attraverso altri, ulteriori registri. E’ un grande vantaggio poter essere a contatto –tutti i giorni e gratuitamente- con un’opera di un grande artista, motivo per cui io sono fiduciosa. Ma mi lasci dire comunque che l’idea che qualcuno abbia (o pensi di farlo) “manifestato” contro “i pali”, la trovo surrealista, pertanto non posso non adorarla, pur non trovandomi d’accordo.

d - Potenza da qualche tempo è diventata città “cinematografica”: c’è stato il film di Aleandri con Ambra Angiolini (“La notte più lunga dell’anno”) e qui è stata girata, ovviamente, anche la serie su Elisa Claps…

r - …sì, una storia terribile, che purtroppo non ci ha insegnato niente…

d - …il regista Aleandri disse che lo aveva colpito proprio l’aspetto un po’ “noir” della città. A lei cosa piace (o non piace) di Potenza (Piazza Prefettura a parte)?

r - A me piacciono molto i climi freddi, nord-europei, e in questo, Potenza –al di là della sua posizione geografica- può darmi molte soddisfazioni. E poi a me queste atmosfere un po’ da “camera chiusa” non dispiacciono. E non so se qui ho visto più il “noir” o la provincia, ma i meccanismi della provincia, il fatto che qui tutti -probabilmente- sapete tutto di tutti, mi intrigano moltissimo.

d - Sta dicendo che le piace il provincialismo?

r - No, non lo intendo nella sua accezione negativa (io stessa sono di Napoli, città che è comunque “ai confini dell’Impero”). Mi piace l’idea di una società che sa tutto di tutti, ma non sui social, bensì nella realtà vera. Io stessa vorrei sapere tutto di voi, e certamente lo metterei nei miei libri. Per questo sarebbe pericoloso se restassi qui! E comunque, se dovessi scegliere tra il modello un po’ basso è un po’ cafone dei social e il provincialismo, beh, sceglierei il provincialismo tutta la vita!

d - Da visitatrice, se potesse prendere il nostro sindaco sottobraccio, cosa gli direbbe?

r - Di fare attenzione soprattutto alle disuguaglianze sociali. Da uno studio di cui mi sono occupata, so che Potenza è una delle città in cui il costo della vita è aumentato di meno; e nell’ambito di questa grande crisi che c’è in Italia (siamo agli ultimi posti in Europa praticamente su tutto!), con tanta gente che non può andare in vacanza perché non ha soldi, tutto questo è senz’altro un bene. Ma sicuramente anche qui esistono le disuguaglianze sociali: una forbice che in Italia si sta sempre più allargando (io purtroppo a Milano godo di un osservatorio privilegiato). Pertanto, direi al vostro sindaco di occuparsi non tanto di chi ha già, ma soprattutto di coloro che hanno bisogno di tutto o che non ce la fanno ad arrivare a fine mese.

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di Walter De Stradis

 

 

 

Se non fosse per la pipa alla Maigret e gli occhiali, il giornalista e critico d’arte Rino Cardone, coi suoi capelli (e barba) folti e lunghissimi, sembrerebbe il protagonista di un romanzo di Emilio Salgari. Con lui, già volto noto del TGR Basilicata, abbiamo parlato della (estenuante?) ricerca del Bello, a Potenza e in Basilicata.

d: Come giustifica la sua esistenza?

r: Diciamo che la ricerca della Bellezza è un po’ il tratto d’unione di tutti i miei interessi: l’arte, il volontariato, ma anche la comunicazione e l’informazione. In quest’ultimo campo bisogna attenersi alla verità e alla giustizia; nel settore dell’arte è un discorso di armonia, equilibrio, simmetria; nel volontariato bisogna tenere da conto le persone che soffrono e che hanno bisogno, e a cui bisogna tendere la mano.

d: Lei è stato un volto noto del TGR locale, immagino che la gente ancora la fermi e le sottoponga delle cose…

r: Guardi, la maggior parte riconosce la voce, quella voce che hanno ascoltato nel giornale radio. Altre volte capita che ti riconoscano all’interno dei “mondi” di cui ti sei occupato, come l’arte, ma anche l’agricoltura…

d: Esiste il Bello “oggettivo”, o vale sempre e comunque il detto “è bello solo ciò che piace”?

r: C’è sempre una lettura soggettiva, nella pittura così come nella scultura e nella fotografia…ma quella valutazione non nasce “a caso”, bensì dall’esperienza, nonché dal rispetto di determinati codici estetici e stilistici. Se questi sono assenti, allora parliamo di opere oleografiche.

d: C’è chi sostiene che è più certa l’esistenza del Brutto “oggettivo”.

r: Beh, sì, questo risale alla visione su vuoi un po’ “esistenzialista” del nostro Novecento, quella di Sartre e Camus, una lettura decadente legata a un’epoca decadente, che sembra morire, ma che poi inevitabilmente risorge, un po’ come l’Araba Fenice.

d: A proposito, a microfoni spenti mi diceva che lei è devoto a una fede particolare…

r: …sì, sono di fede Bahá’í. E proprio tornando all’Araba Fenice, vorrei fare un piccolo inciso. Mia figlia Sefora è sepolta nel museo monumentale di Potenza, in uno spazio ancora impropriamente definito, con tanto di insegna, “campo dei non credenti”: un vecchio retaggio dei primi del Novecento (rimasto lì senza che nessuno se ne sia accorto), quando il “campo santo” era tale, in quanto benedetto dalla chiesa cattolica; mentre per tutti gli altri -principalmente gli Ebrei- c’era dunque il “campo dei non credenti”.

d: Secondo lei sarebbe ora di togliere quella scritta.

r: Io la cambierei, perché chi appartiene alla fede ebraica, musulmana, Bahá’í etc. è un “credente” come gli altri (ma devo anche dire che il rispetto dovuto si evince comunque nelle restanti parti del cimitero). Tornando però alla tomba di mia figlia, lì sopra c’è proprio un’Araba Fenice, realizzata in marmo verde di Carrara da un famoso artista contemporaneo, originario di Todi, Bruno Ceccobelli, mio amico personale. Per quanto riguarda il mio credo, ho abbracciato la fede Bahá’í nel 1982, dopo un percorso di ricerca spirituale (nasco in un ambiente cattolico), e dopo essermi avvicinato alla filosofia zen, a quella buddista etc. Mi accorsi subito che quella Bahá’í poteva essere la mia fede, in quanto riconosce l’unicità di Dio, comunque lo si voglia chiamare nelle varie religioni. Nel corso delle ere Dio ha infatti mandato nel mondo vari profeti, vari messaggeri.

d: E’ una sorta di sincretismo?

r: No, perché ha un suo rivelatore, una manifestazione di Dio, che è appunto Bahá’u’lláh, non certo un mistico che ha preso "un po’ di tutto". E’ un nuovo messaggero religioso: i tempi erano maturi perché l’uomo comprendesse l’armonia tra la scienza e la religione, la parità tra uomo e donna, la possibilità che nasca una confederazione mondiale di tutte le nazioni, con la fine delle disparità tra ricchi e poveri. Alla base c’è sempre la ricerca libera e indipendente della verità: noi Bahá’í non facciamo proselitismo e non abbiamo sacerdoti.

d: Quanti siete in Basilicata?

r: I numeri non sono grandissimi, sono stati maggiori in passato, ma poi c’è stato chi s’è trasferito. Posso dirle però che –secondo l’Enciclopedia Britannica- siamo la seconda religione più “diffusa” al mondo (anche se non stiamo parlando di numero di credenti).

d: Lei è da sempre attivo come critico d’arte in una Basilicata che è piena di tesori. Siamo davvero consapevoli di questo patrimonio di Bellezza?

r: Circa una trentina d’anni fa mi immersi in un’indagine sull’arte prodotta in Basilicata tra l’Ottocento e il Novecento, e senza presunzione posso dire di essere stato uno dei primi a scoprire che c’era tutto un tesoro rimasto celato. E sa perché? Con l’arrivo di Carlo Levi nacque una visione tutta “leviana” della pittura e della scultura lucana, che ha obliterato tutto quanto c’era stato prima. Oggi? C’è una vivacità culturale discreta, ma meno interessante, perché molti si improvvisano. Ma quelli che ci sono… contano.

d: Chiarisca quel “meno interessante”.

r: Guardi, quando rintracci la vena del dilettantismo, che assurge a “proposta artistica”, te ne rendi immediatamente conto. La genialità, l’estro, l’originalità, invece, si “leggono”.

d: Mi dice il nome di un qualche personaggio lucano che è stato ingiustamente sottovalutato o dimenticato?

r: Mmmm… beh, uno che ha avuto comunque un certo apprezzamento, ma che aveva capacità ancora maggiori di quelle riconosciutegli, è stato Arcangelo Moles, artista eclettico (fotografo, grafico, pittore, scultore), scomparso prematuramente qualche anno fa.

d: E qualcuno sopravvalutato?

r: Non vorrei riferirmi a qualcuno in particolare, bensì a tutta quella massa di “improvvisati” che si approcciano a questa scena artistica.

d: Esistono i “raccomandati” nel mondo dell’arte?

r: Non esistono i “raccomandati” nell’arte, ma il mondo dell’arte è comunque un sistema viziato. Dopo l’Ottocento, finita l’epoca dei mecenati e con il mercato che è diventato “borghese”, hanno cominciato a prevalere le leggi di mercato e le relative “quotazioni” attribuite agli artisti. Un meccanismo, questo, che passa attraverso il “sistema” delle gallerie, dei mercanti, dei collezionisti, dei critici e degli storici.

d: E si può vivere di arte in Basilicata?

r: E’ molto difficile e complesso, ma c’è chi lo fa, come Pino Oliva, un artista di Matera. Potrei fare altri esempi, ma… va bene così.

d: Cosa c’è di “oggettivamente brutto” a Potenza?

r: E’ un “oggettivamente brutto” che si associa all’ “oggettivamente bello”: il Ponte Musmeci. Un’opera straordinaria, che va ristrutturata (e i tempi si stanno allungando mirabilmente!), ma per apprezzarlo bisogna andarci sotto, e a maggior ragione se c’è l’illuminazione notturna. L’“oggettivamente brutto” è dunque nella parte superiore: cantiere a parte, c’è quel guard-rail, quelle ringhiere, che non fanno apprezzare la bellezza del monumento! A Torino ogni ponte sul Po è arricchito di fiori e gerani. Ecco, sul Musmeci perché non mettere delle fioriere? E perché non mettere delle opere d’arte, delle sculture, lungo il percorso del parco del Basento?

d: Sempre a proposito di “Bellezza”, cosa ne pensa del dibattito sulle sorti del nostro centro storico?

r: La Bellezza sta nelle sue chiese, anche se col Terremoto abbiamo perso i “sottani”. Abbiamo perso il centro storico anche quando, negli anni Sessanta, si optò per un’edilizia spinta. Comunque, anche a Santa Maria c’è una chiesa molto bella, che ha un altare barocco molto interessante, e ove si presume ci sia una reliquia importantissima.

d: Se potesse prendere sottobraccio l’attuale sindaco, Mario Guarente, cosa gli direbbe?

r: Posso sbagliarmi, ma intanto gli direi di avere maggior dialogo con la base sociale. Vedo una scarsa comunicazione tra lui e alcune fasce sociali. Penso al mondo degli artisti che bussano alla sua porta e che, in alcuni casi, mi risulta non ottengano risposta.

d: Ma, più in generale, la politica lucana ha “capito” che la Cultura è una risorsa fondamentale o la considerano ancora un parente povero?

r: Io sono di origine siciliana, nato per combinazione a Cuneo, e trasferitomi a Potenza negli anni Sessanta. A quei tempi, sui libri di scuola, questa regione appariva come la più povera e col maggior numero di analfabeti. Beh, da allora di strada ne è stata fatta tanta e il patrimonio artistico e monumentale è stato evidenziato, in particolar modo con Matera Capitale Europea della Cultura, un progetto che ha investito tutta la regione e i cui effetti si registrano ancora adesso.

d: Quindi, “non lamentiamoci”.

r: No, non lamentiamoci.

d: Il film che la rappresenta?

r: “La passione di Cristo” di Mel Gibson. Un film crudo, certo, ma forse quello più vicino alla realtà storica, insieme al “Vangelo” di Pasolini. A questo proposito, mi sovviene che il fotografo Mimì Notarangelo è un’altra figura che si è iniziata a ricordare solo dopo la scomparsa.

d: La canzone?

r: “La Canzone di Marinella” di De Andrè. E’ il brano mio e di mia moglie sin da quando eravamo fidanzati. E quando sento il verso “scivolò nel fiume a primavera”, penso a mia figlia, che è venuta a mancare drammaticamente a diciannove anni.

d: Il Libro?

r: “L’idiota” di Dostoevskij, perché afferma che “La Bellezza salverà il mondo”. Anche se, vabè, è una frase parecchio abusata.

d: Fra cent’anni, in quell’angolo del cimitero di Potenza, cosa vorrebbe fosse scritto sulla sua lapide?

r: Domanda interessante. Direi “Seminatore di idee”, anzi no: “Spargitore di semi”. Sì, mi piace questa.

 

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di Walter De Stradis

 

foto di Luigi Cecere

 

 

 

Giornalista, scrittore, docente universitario, contributor di prestigiose testate nazionali, il quarantanovenne Michelangelo Iossa, napoletano, di origini lucane (Francavilla in Sinni), è uno dei massi esperti internazionali del fenomeno “James Bond”, personaggio che da qualche tempo, qui in Basilicata, avvertiamo particolarmente “nostro”, dopo i recenti fasti di “No Time to Die” (2021), girati anche a Matera.

Iossa lo abbiamo incontrato a Napoli, nella splendida terrazza del Parker’s Grand Hotel (uno dei più antichi alberghi d’Italia), a pochi metri dal Bidder Bar, che da quasi vent’anni ospita un Bond Point ufficiale, nel quale vengono serviti i 283 cocktail selezionati dai film e dai libri che hanno 007 come protagonista. Dopo “Operazione Suono” (Rogiosi 2020), incentrato sulle colonne sonore della saga cinematografica, Iossa è al secondo libro dedicato al vastissimo universo di 007: “Fleming/Luciano – Ian e Lucky a Napoli” (Jack Editore).

D- Come e quando nasce questa sua passione per James Bond?

R -Trasmessami da mio padre, è iniziata quando avevo otto anni. Era l’agosto del 1982 e Napoli in quel periodo, come accadeva allora anche nelle altre città, era svuotata. Un giorno, dopo aver gironzolato un po’, ci trovammo davanti al Cinema “Vittoria”, all’ Arenella, ove davano una retrospettiva su 007. Mio padre a suo tempo era andato a vedere quei film con mio nonno, e pertanto pensò fosse una buona idea. All’epoca non sapevo affatto cosa fosse un “agente segreto”, ma quella volta, subito dopo la visione di “Goldfinger” (un capitolo di quasi vent’anni prima, con Sean Connery), mi innamorai del personaggio. Mi avevano colpito la donna dipinta d’oro, le abilità di 007 e soprattutto la sua auto, dotata di mitragliatrice e geo-localizzatore. A un certo punto, la passione divenne professione, in quanto 007 (così come anche i Beatles) si trasformarono in oggetto di studio.

D- Questo “Fleming/Luciano” ha anche molto a che fare con questa città, Napoli, in quanto narra di un incontro che avvenne qui tra Ian Fleming, lo scrittore che ha creato 007, e Lucky Luciano, il boss che per primo aveva “riunito” le cosche mafiose.

R -Sì, da un lato infatti c’è Ian Fleming, giornalista, scrittore, reporter per la Reuters in Russia, egli stesso agente segreto per le forze navali inglesi, e naturalmente romanziere, creatore di James Bond; dall’altro abbiamo forse il più temibile mafioso di tutti i tempi. Fu Luciano a capire che il mondo dei gangster, così com’era, approssimativo e anche un po’ “baraccone”, doveva cambiare pelle, e di conseguenza “inventò” un modo di fare mafia completamente diverso, “modernizzandola” e creando addirittura un organismo di vertice che chiamò “la commissione”. Parlandone col suo braccio destro, Meyer Lansky, sentenziò: «No, questa organizzazione non deve avere alcun nome, è Cosa Nostra». E da quel momento tutti i giornalisti la chiamarono così. Di fatto, è stato probabilmente il mafioso più potente di tutti i tempi: Messina Denaro, Buscetta (tra l’altro un suo allievo) e Riina messi insieme, forse non arrivano a fare un Lucky Luciano. Pensi che una volta estromesso dagli USA e arrivato a Napoli, organizzò oltre venti summit, tra qui e Palermo, con tutte le organizzazioni più potenti. Di fatto, quella di Lucky Luciano è una “Spectre” (l’associazione criminale internazionale contro cui combatte James Bond – ndr). Non è un caso che –anche in virtù di una promessa fatta a Raymond Chandler- Ian Fleming volle intervistarlo. Pertanto, i due si incontrarono a Napoli nel 1960, ma la cosa incredibile è che l’anno successivo il romanziere inventò (nel libro “Thunderball”) il personaggio di Emilio Largo, facendolo nascere proprio a Napoli, e modellandolo sui miti, i riti e i modi di fare di Lucky Luciano. Di fatto, dunque, la “Spectre” è un po’ figlia di Cosa Nostra.

D- Tra l’altro, se non sbaglio, in quell'intervista con Fleming, Luciano disse la famosa frase: «La Mafia non esiste, è un’invenzione di voi giornalisti».

R -Esatto. L’intervista si chiuse proprio con quella frase, degna di un vero “cattivo” di Bond.

D- Precedentemente, però, come lei racconta nel libro, c’era stata anche l’operazione “Husky”.

R -Si tratta della grande svolta nella vita di Lucky Luciano. Esattamente ottant’anni fa, nell’estate del 1943, avvenne il più colossale sbarco degli “Alleati”, in Sicilia. Una risalita verso Messina, che com’è noto cambiò il volto della Seconda Guerra Mondiale. Quell’operazione, in realtà, avvenne anche grazie alla collaborazione di Lucky Luciano, che dal suo carcere newyorkese, facendo da “burattinaio a distanza”, aiutò la Marina americana, motivo per cui nel 1947 fu graziato dal Procuratore Capo dello Stato di New York, per “servigi resi”. E poté essere rimpatriato.

D- Motivo per cui nel 1960 era bellamente a Napoli a farsi intervistare.

R - (Sorride) Esatto, se si esclude un “lieve” obbligo di firma. Aggiungo che l’operazione “Husky” a sua volta era figlia di un’altra operazione, inventata col contributo di Ian Fleming. Si chiamava “Minced meat” (“Carne tritata”). Gli Inglesi si erano resi conto che Hitler era a conoscenza del fatto che le loro truppe sarebbero sbarcate in Sicilia, e quindi pensarono di depistarlo, facendogli credere che la meta dello sbarco fosse la Grecia. Ian Fleming, che già lavorava per il “Naval Intelligence”, fu reclutato anche per questa operazione. Si trattò di prendere il corpo di un militare morto, rivestirlo come fosse operativo, e “imbottirlo” di documenti falsi. Per l’occasione, Fleming scrisse un vero e proprio romanzo, in pratica la sceneggiatura di una delle operazioni militari più importanti (Fleming partecipò anche alla “Goldeneye” -che poi divenne il nome di un’avventura di James Bond e della stessa villa giamaicana in cui lo scrittore creò 007- e alla “Copperhead”). Quindi Fleming creò una vera e propria storia, con documenti credibili: nei vestiti del militare morto infilò persino una falsa lettera della fidanzata e un sollecito di pagamento (che abbiamo un po’ tutti), nonché, ovviamente, l’informazione che lo sbarco sarebbe avvenuto in Grecia. Questo corpo fatto trovare alle porte del Portogallo, arrivò alla polizia spagnola, che lo identificò come un militare inglese naufragato, cosa poi confermata dai colleghi tedeschi (i documenti erano “finti”, ma pur sempre prodotti dalle autorità britanniche). E fu così che Hitler si convinse che lo sbarco sarebbe avvenuto in Grecia.

D- Tutte queste cose che ci sta raccontando, rispondono inequivocabilmente alla domanda che spesso si pongono giornalisti, studiosi e critici, ovvero: “Chi era il VERO James Bond che ha ispirato Ian Fleming?”. E spesso, come sa, si legge anche di questa o quella spia, realmente esistita, che avrebbe ispirato il personaggio letterario e poi cinematografico. Ma, tutto considerato, il VERO 007 sembra essere proprio Ian Fleming!

R -Ovviamente, Ian Fleming è la persona più vicina al Bond letterario. Anzi, di tutti gli autori di storie di spionaggio che conosciamo, è quello più simile alla propria creazione. E’ vero, anche Tom Clancy (che non si chiamava così) era stato una vera spia (un po’ operativa e un po’ “da scrivania”), così come John Le Carrè (una spia “da scrivania”), ma Ian Fleming è quello che somiglia di più al suo personaggio, anche se era un po’ meno “action man”. Poi ci sono state delle figure che hanno ispirato dei singoli romanzi: è certificato che Dusko Popov, una spia di origine dalmata/ungherese soprannominata “Triciclo”, in quanto “triplogiochista” (fra Russi, Tedeschi e Inglesi), ispirò a Fleming la storia di “Casino Royale” (il primo romanzo di James Bond – ndr). Con fondi del Tesoro, infatti, Popov giocò al casinò cercando di battere un nemico, che nel romanzo diventa il personaggio di “Le Chiffre”. Quindi Popov è sicuramente tra le fonti d’ispirazione, ma come uomo d’azione, mentre tutto quello che Fleming conosceva dei Servizi Segreti finì nel romanzo: un “Q” (ovvero il “Quartermaster”) esiste realmente, così come esiste realmente un “M”, e cioè un Capo, ed esiste la segretaria di questi. Non esiste un “doppio zero” per la licenza d’uccidere, ma una licenza d’uccidere per le missioni c’è realmente, tant’è vero che è ormai accertato che anche lo stesso Ian Fleming in servizio abbia ucciso qualcuno.

D- Di recente lei ha partecipato a un evento che si è tenuto a Carolei, in provincia di Cosenza, paese d’origine della famiglia di “Cubby” Broccoli (storico produttore dei film di 007), a cui è stato dedicato un busto. Erano presenti la figlia Barbara e il figliastro Michael G. Wilson, attuali produttori della saga. Alla famiglia Broccoli è stata inoltre conferita la cittadinanza onoraria. Cosa ci può dire sul prossimo attore che interpreterà il personaggio? L’era di Daniel Craig si è definitivamente conclusa, e c’è chi dice che il prossimo Bond potrebbe essere di colore o anche una donna.

R -Guardi, il nome del prossimo attore che interpreterà James Bond è sempre il segreto meglio custodito al mondo, al pari di quello di Fatima. Se volessimo scoprire i codici di lancio di un missile della NASA forse avremmo migliore fortuna. Tra l’altro, il prossimo sarà il numero sette, cifra di particolare valore nella cosmologia bondiana. Ci sono tanti candidati: quelli più accreditati sono Aaron Taylor-Johnson (già John Lennon in “Nowhere Boy”), Richard Madden (protagonista de “Il trono di Spade”, attualmente impegnato proprio come una specie di Bond in “Citadel”) e il “solito” Henry Cavill (già Superman, già Sherlock Holmes e già spia in “Operazione UNCLE”). La produzione di 007, tuttavia, da sempre cerca attori non particolarmente famosi: se si fa eccezione di Roger Moore, i vari Connery, Lazenby, Dalton e Craig erano tutti alle loro prime esperienze. Ma posso assicurarvi (e Barbara Broccoli me lo ha confermato di persona a Carolei) che il prossimo Bond sarà comunque un uomo. Pertanto, a mio avviso sarà sempre bianco e anglosassone, proprio per richiamare “l’inglesità” del personaggio originale. Ian Fleming voleva fosse così: un uomo, tra i 40 e i 50 anni, inglese. Lo stesso Albert Broccoli diceva ai figli: «Quando siete in difficoltà, tornate sempre ai libri di Ian Fleming. Lì trovate gli ingredienti perfetti». Non ci sarà dunque una “Janet” Bond. Con Barbara Broccoli abbiamo anche parlato dei luoghi, e- a sorpresa- mi ha citato anche Capri, ove però, finora, non hanno girato nulla. Che mi abbia lanciato un indizio sul prossimo film? Aggiungo che a Capri hanno vissuto sia Fleming sia Lucky Luciano…

 

 

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RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO LA LETTERA APERTA DEGLI AVV. LORENZO E LACAPRA
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Gentili Colleghe
Preg.mi Colleghi
Con umiltà, entusiasmo e voglia di fare abbiamo chiesto ed orgogliosamente ottenuto la Vostra fiducia ed il Vostro sostegno, accordatoci con l'elezione nel Comitato pari opportunità per il quadriennio 2023-27.
La nostra motivazione, in continuità con l'ottimo lavoro svolto da parte di chi ci ha preceduto, risiedeva nel mettere in campo in maniera concreta e fattiva ogni possibile ed opportuna iniziativa al fine di eliminare gli ostacoli che, di fatto, limitano la parità e l'uguaglianza sostanziale nello svolgimento della professione forense, specie a discapito della giovane avvocatura.
Di promuovere le politiche di pari opportunità nell'accesso alla professione e prevenire, contrastare e rimuovere i tanti comportamenti discriminatori.
Nei limiti delle nostre possibilità, avremmo voluto dare il nostro contributo nell’importante Assise rappresentativa.
Ci sarebbe piaciuto elaborare proposte idonee a favorire effettive condizioni di pari opportunità per tutti gli avvocati, in particolare modo per quelli giovani e per i praticanti, sia nell'accesso che nella crescita dell'attività professionale, operando purtroppo, spesso in condizioni di disparità.
Sarebbe stato utile promuove iniziative e confronti tra gli avvocati, gli operatori del diritto, le Istituzioni e gli Enti sulle pari opportunità, cercando di contribuire alla rimozione degli effettivi ostacoli, di ogni tipo, nella partecipazione alla professione forense, elaborare proposte, valorizzare le differenze di genere, senza alcuna discriminazione e valorizzando il diritto antidiscriminatorio anche attraverso la formazione professionale ed il rispetto delle regole deontologiche.
Avremmo voluto promuovere la crescita professionale di avvocati e praticanti operanti in situazioni soggettive od oggettive di disparità, supportando la loro rappresentanza negli organi istituzionali e associativi.
Purtroppo tutto questo non appare possibile.
Logiche incomprensibili, vecchie liturgie e bizantinismi dai quali rifugiamo con forza e stendiamo a comprenderne il senso ci inducono, non senza amarezza, a riflessioni e scelte radicali, ma purtroppo necessarie.
Il risultato elettorale da noi raggiunto, nello specifico primo e seconda degli eletti, unico criterio oggettivo e utile a determinare la governance dell'’Organismo è stato mortificato in spregio alla stessa volontà elettorale, manifestata in modo chiaro da tanti Colleghi e Colleghe che hanno votato conferendo un inequivoco mandato.
Ebbene il risultato elettorale ne esce svilito e irrimediabilmente mortificato, non essendoci altri criteri oggettivi di scelta, e dirimenti, nella composizione degli organismi in seno al Comitato.
Ogni altro criterio proposto dagli altri membri, di carattere soggettivo, con logiche di personalismi, se non addirittura ponendo veti con argomentazioni dai connotati marcatamente discriminatori: il non poter ricoprire la carica per l'apparenza al genere (maschile) o la recente iscrizione all'albo, da cui derive una apodittica inesperienza, appare non solo inopportuna, ma addirittura stridente ed in contrasto con le finalità dell’Organismo, cioè di garantire le medesime opportunità e non adagi a stereotipi o rendite di privilegio e di posizione consolidate.
In pratica ogni criterio proposto era volto a penalizzare le nostre persone.
Come noto l'unico criterio asettico ed oggettivo in una competizione elettorale è quello del rispetto della volontà dell'elettore e dell'attribuzione di significato alla consultazione stessa, in quanto le regole formali per concorrere nelle Istituzioni e negli Enti non possono prescindere dal criterio democratico del voto.
Il tentativo di sovvertire il risultato elettorale è risultato a dir poco mortificante, attesa l'inopportunità di ricoprire la carica di presidente per il membro cooptato e non eletto, non solo per buon senso, ma anche per prassi consolidata dello stesso Comitato, così come rivendicazioni di chi, nelle urne, ha conseguito un risultato elettorale pari a meno della metà di quello conseguito dai primi due, le cui preferenze conseguite sono pari a quasi l’80% dei votanti (L. Lorenzo 173; R. Lacapra 122; L. Rosa 54; F. Gallo 54)
Per questo, con rammarico ed amarezza, constata l'impossibilità di poter coltivare ambiziosi obbiettivi utili alle stesse finalità del Comitato, irrealizzabili perché già in partenza svilite e mortificate, credendo fermamente nei valori espressi, non ci resta che rassegnare, non senza profonda amarezza, le dimissioni.
Non siamo alla ricerca di cariche o di visibilità, infatti il mandato richiede oneri, disciplina ed onore, ma non è accettabile un precostituito veto sul nostro nome senza la proposta di qualsivoglia altro criterio oggettivo di scelta, sfociando poi in un vero e proprio ostracismo.
Sarebbe opportuno, a questo punto, attesa la mancanza di serenità e i criteri discriminatori proposti, che ogni singolo componente del Comitato, eletto e cooptato, compia lo stesso gesto, favorendo così, con nuovi protagonisti, scevri da pregiudizi, l'effettivo funzionamento dell'Organismo.
Allo stesso modo sentiamo forte il bisogno di ringraziare ancora una volta tutte le Colleghe e i Colleghi per la fiducia accordataci, al contempo garantendo sempre e comunque il nostro impegno in ogni contesto e ambito nel quale saremo chiamati.
Con rinnovata Stima
Luca Lorenzo, Rosa Lacapra

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

Una quindicina di giorni fa, a pochi metri dal sagrato della chiesa di San Michele, in pieno centro storico a Potenza, si è celebrata un’assurda “cavalleria rusticana”, con accoltellamento finale (come da “copione”) di un ragazzo originario di Picerno (Pz).

Il parroco, don Mimmo Florio (volto noto della chiesa potentina, avendo a lungo ricoperto lo stesso ruolo a Paggio Tre Galli) dalla sua finestra ha visto l’arrivo dell’ambulanza, chiedendosi in cuor suo, ancora una volta, cosa “diavolo” sta succedendo nella parte vecchia della città. La stessa cosa l’abbiamo chiesta noi, a lui.

d: Come giustifica la sua esistenza?

r: E’ una vocazione, sorta quando ero un bambino delle elementari, in una famiglia che di suo era molto credente. E così, già in prima media, entrai in seminario, avviando un lungo percorso in quell’istituto, in cui non sono mancati dubbi e ripensamenti fisiologici, ma che si è poi concluso con la piena certezza che questa era la mia strada.

d: Non vorrei banalizzare, ma c’è stato un evento, un qualcosa, o qualcuno, che le ha fatto capire che quello era il suo destino?

r: Come dicevo, la scelta è arrivata da bambino, ma posso anche dire che poi ho incontrato le persone giuste, i sacerdoti giusti, come il rettore del seminario, don Vito Telesca (un grandissimo riferimento per la mia vocazione), ma anche a Roma ho trovato docenti e compagni straordinari, come don Rocco Colucci, attuale parroco di santa Cecilia.

d: Lei stesso è stato parroco di Santa Cecilia, in un quartiere periferico come Poggio Tre Gialli, mentre oggi, già da alcuni anni, ricopre lo stesso ruolo nel cuore del centro storico. Quali le differenze?

r: Si può dire che a Santa Cecilia la vita sociale sia un po’ più scarsa la mattina, essendo un po’ un quartiere dormitorio. Tuttavia è un rione vivo, c’è una bella realtà, con famiglie e giovani (anche se gli anziani stanno aumentando), pertanto si lavora soprattutto di pomeriggio e di sera, con circa 4/500 bambini tutt’oggi iscritti al catechismo. La sera c’è fermento con adulti e genitori, tramite anche le varie associazioni. Il centro storico, invece, è un po’ più “anziano”, con la gente maggiormente legata a tradizioni antiche; ci tengono in particolare alle novene e a celebrazioni del genere. A Santa Cecilia, invece, la processione la “inventammo” noi, con tanto di statua, perché il mio predecessore, don Pinuccio Lattuchella, era più per il “sociale”, ovvero sport, musica etc.

d: In Centro, invece, a sentire i residenti, di musica ce ne sarebbe fin troppa.

r: (Ride). Sì, bravo, proprio così! Soprattutto la sera.

d: Uno degli argomenti del giorno è la presunta “malamovida” che angustierebbe il Centro e i suoi vicoli, caratterizzata da comportamenti spesso “sopra le righe” di alcuni ragazzi (atti vandalici, risse), e da fatti di cronaca, ultimo dei quali l’arresto di due giovanissimi per detenzione di droga ai fini di spaccio. E’ spesso intervenuto il Prefetto, ma lei che ci vive proprio “in mezzo”, cosa può dirci?

r: Io a San Michele ci vivo, notte e giorno, dal settembre 2017. E subito mi sono reso conto che c’era questo movimento. E devo dire che di recente è pure aumentato, perché prima si registrava soprattutto nel weekend, mentre oggi questo flusso di giovani che passa sotto la mia finestra si è sicuramente esteso. E credo anche che la situazione sia un po’ peggiorata: lo schiamazzo è aumentato tanto che a volte, mentre celebro la messa della 19, il vociare e la musica ad alto volume…, insomma, ho informato anche il Prefetto. E mi son sempre domandato se sia opportuno tenere locali a pochi metri da una chiesa, perché locali che con la loro musica possono “disturbare” le cerimonie, beh, non so, forse dovrebbero stare un po’ più a distanza… e mi chiedo anche se non ci siano delle apposite norme municipali da rispettare, magari.

d: Ma il problema sono soli gli schiamazzi e la musica? Perché se fossero solo questi…

r: …mah, credo che questi ragazzi esagerino un po’ con l‘alcol. Ho questa impressione perché spesso si va a finire a risse e a botte, e io stesso vedo passare polizia, carabinieri, ambulanze. L’altra sera non a caso mi sono affacciato alla finestra chiedendomi cosa fosse successo, e poi il giorno dopo ho letto di accoltellamenti e arresti. Insomma, sì, c’è una situazione che andrebbe più controllata, monitorata.

d: Il Prefetto ha annunciato un implemento delle telecamere, ma io chiedo a lei: che ruolo hanno in tutto questo le famiglie?

r: Beh, non diamo la colpa solo a loro. Anche se proprio l’altro giorno leggevo un intervento dello psicologo, Paolo Crepet, in cui affermava che è venuto meno il “conflitto generazionale”. Nel ’68 e negli anni successivi i giovani “combattevano” contro i loro genitori per ottenere tutta una serie di cose; oggi quei giovani di un tempo sono diventati genitori loro stessi e si sono “rassegnati” e sono poco portati a “stimolare” i loro stessi figli. Ma anche la Chiesa, in tutto questo, dovrebbe fare un “mea culpa”.

d: La Chiesa è un po’ in ribasso?

r: Forse sì, così come la Scuola e l’associazionismo.

d: Sulla Chiesa hanno pesato anche fatti di cronaca e scandali a livello internazionale?

r: Sì, forse ci sono stati dei fatti di cronaca che hanno indebolito la “bellezza” della Chiesa. Se pensiamo invece ai tempi, molto lontani, di san Giovanni Bosco e San Filippo Neri, parliamo di sacerdoti che (insieme ad alcuni laici), lavoravano molto coi giovani. Per la verità, ancora oggi a Potenza ci sono tante parrocchie belle in questo senso, anche quelle di periferia come San Giovanni Bosco, Santa Cecilia… io stesso sono assistente del centro Sportivo Italiano e la settimana scorsa a Nova Siri si è tenuto un convegno nazionale riguardo a tutti gli sport giovanili, e c’erano più di 550 bambini! Una cosa meravigliosa. Ecco, questa potrebbe essere la strada. Sì, la Chiesa qualche errore l’ha commesso, forse anche perché non trova gli stimoli adatti. Se noi stessi trovassimo delle alternative, forse questi giovani potremmo davvero tirarli fuori, non dalla “movida” (perché il divertimento deve esserci), ma da questa “mala” movida.

d: Lei cosa chiederebbe alle istituzioni?

r: Sicuramente il controllo dovrebbe essere aumentato. Ma soprattutto se ci mettessimo insieme, Chiesa, Scuola e Famiglia, si potrebbe pensare a dei progetti concreti, per attivare questi giorni. Via Pretoria si può accendere di vivacità (come accaduto l’altra sera, con gli Amici dell’Hospice)…

d: Mi diceva che ha parlato col Prefetto. E col Sindaco?

r: Anche. Però…humm (si acciglia in un’espressione perplessa - ndr)

d: Però?

r: Sono tutti preoccupati, Sindaco e Prefetto, però…humm, di concreto ancora non vedo nulla. So che la Prefettura ha organizzato controlli più serrati, però mi aspetterei un intervento poco poco più deciso, da parte delle istituzioni.

d: E cosa mi dice, invece, rispetto all’altra, annosa, questione, circa lo svuotamento e lo spopolamento del centro storico? Si parla ormai assiduamente degli effetti deleteri di uffici pubblici delocalizzati e di negozi spostati al Gallitello.

r: E’ vero. Quando vado a Gallitello per fare qualche servizio c’è un tale traffico che non si può camminare, mentre qui –specie la mattina- c’è poco movimento, mentre la sera diventa la “casa” dei giovani, come dicevamo. Il Comune dal canto suo ha sempre fatto molto, penso alla creazione delle scale mobili, per facilitare gli ingressi in Centro, ma certo andrebbe tenuto meglio. E diciamo anche che forse le stesse attività commerciali non sempre sono competitive.

d: Se potesse prendere il governatore Bardi sottobraccio, cosa gli direbbe?

r: L’ho conosciuto ed è una bravissima persona, davvero perbene. Beh, gli direi di lavorare per i giovani, perché la maggior parte di loro va via e qui da noi non ci sono opportunità di lavoro per trattenerli.

d: Tra l’altro, oggi -21 giugno- è San Luigi, patrono dei giovani. In cosa può essere ancora d’esempio per i nostri ragazzi?

r: La ringrazio per la domanda, perché ne volevo parlare. Stamattina, leggendo proprio la preghiera di San Luigi Gonzaga, dicevo che è stato un modello per due concetti che, detti ai giovani di oggi, potrebbero suonare “ostrogoto”: innocenza (ovvero castità) e penitenza. Ma si badi bene che il significato etimologico di “innocenza” è anche e soprattutto “non nuocere”. Pertanto direi ai giovani di essere “innocenti” in questo senso qui: divertitevi, amatevi, ma non nuocete agli altri, e a voi stessi, non esagerate col vino, non praticate il bullismo.

d: E la penitenza?

r: La vedrei così: avere la capacità di fare qualche sacrificio, ogni tanto. Non è necessario uscire tutte le sere e ritirarsi ogni notte alle quattro! Magari i giovani mi prenderanno a fischi, ma io direi: una sera ogni tanto, rimanete a casa a leggere un buon libro! La lettura fa molto bene. Per citare ancora Paolo Crepet, lui racconta che la figlia gli parla sempre di una biblioteca che in Belgio sta aperta fino a Mezzanotte, ed è piena di ragazzi!

d: Il film che la rappresenta?

r: “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, me lo fece vedere don Vito Telesca.

d: Il Libro?

r: Un libro di Ferruccio Parazzoli, “Per queste strade familiari e feroci (risorgerò)”, perché parla di un sacerdote che lavora con i giovani.

d: La canzone?

r: “Così Celeste” di Zucchero. Mi porta in cielo.

d: Mettiamo che tra cent’anni scoprano una targa a suo nome, a san Michele: cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

r: «Sacerdote di Dio e degli Uomini».

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