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di Walter De Stradis

C

ent’anni vissuti interamente nel suo paese, Tito (Pz), la maggior parte dei quali indossando una tonaca da prete. Don Nicola Laurenzana, che martedì quattordici maggio festeggerà il ragguardevole genetliaco, da diversi anni non è più il parroco del Convento del paese, ma -lucidissimo e molto presente a sé stesso- puntualmente celebra la messa in casa sua. Da solo, in una stanzetta adibita allo scopo, prega per il suoi fedeli di oggi e di ieri. E non appaia fuori luogo il paragone -che subito ci è accorso alla mente, nell’assistere a quella particolare liturgia- col santone indiano che medita in solitaria per il bene del mondo intero, al chiuso del proprio eremo.

Don Nicola -che nel corso della conversazione più volte si avvarrà del plurale maiestatis, come usava un tempo- lo abbiamo incontrato in casa sua, grazie ai buoni auspici di un suo vecchio chierichetto, Gianfranco D’Eboli (che ancora ricorda, con nostalgico affetto, gli scappellotti del suo vecchio parroco).

«Nel momento in cui entrai in collegio -racconta don Nicola- non pensavo di arrivare sino alla fine. La vocazione infatti si acquista una volta dentro, durante gli anni della formazione, maturando il proprio giudizio e meditando sul proprio futuro. Man mano, la vocazione si scopre, si accetta e si vive preparandocisi».

d - Ritiene che un prete di oggi abbia un ruolo diverso da quello di un sacerdote al tempo dei suoi esordi?

r - Beh, certamente, oggi il discorso è un po’ diverso, già a livello di vocazione: si tratta quasi sempre di vocazioni adulte. Ma anche il grado di formazione spirituale al sacerdozio è diverso. Motivi per cui, ben si percepisce che quello moderno è un prete un po’ diverso, come mentalità, linguaggio e comportamento. Come “uomo moderno”, insomma. Noi siamo stati abituati a una disciplina un po’ più rigorosa, un po’ più coerente, un po’ più consona a ciò che dovrebbe essere il prete di ogni tempo e di ogni luogo, ecco.

d - Però era anche diverso il ruolo che un sacerdote aveva nel paese. Una volta si diceva: c’è il prete, il carabiniere e il medico.

r - No. Io non mi sono trovato in quel periodo, bensì dopo, quando questa mentalità non esisteva più. Io mi sono ritrovato prete responsabile per quello che dovevo essere e per quello che dovevo fare. Certo, con coloro che sono i responsabili della collettività, sindaco, carabiniere etc. c’è sempre un buon rapporto, un connubio di intenti, grazie al quale politica, amministrazione e ministero pastorale sono complementari agli effetti della collettività a cui si appartiene.

d - In questi circa ottant’anni di sacerdozio, come ha visto cambiare il suo “gregge” qui a Tito? E com’è cambiato il paese, di suo, nei decenni?

r - Dei cambiamenti ci sono: un tempo la popolazione era più “religiosa”, ma di una religiosità anche “apparente”, ovvero fatta di tradizione, abitudini, osservanza, obbedienza, l’attenzione. Oggi invece c’è una religiosità diversa: si esprime dentro, ognuno fa per sé, ognuno crede a suo modo. Comunque apprezziamo il passato così com’era, apprezziamo anche il presente nelle sue forme nuove. Sotto il profilo politico e sociale il paese è cambiato, come tutti gli altri. Tito era dedicato all’agricoltura e alla pastorizia, oggi è mutato: la gioventù ha lasciato i campi, studia di più e ambisce a traguardi diversi e migliori. Pertanto non è paragonabile alla gioventù di un tempo che contribuiva più che altro all’economia domestica.

d - Un tempo si emigrava alla volta della Fiat di Torino e simili, oggi -proprio perché, magari, ci sono più laureati- si emigra comunque per la carenza di opportunità?

r - Quella di ieri era un’emigrazione quasi “spontanea”: si andava fuori per provare a cercare un lavoro migliore. Oggi è invece addirittura una necessità: se il giovane non va fuori, lavoro non ne trova, nonostante i suoi studi e una mentalità molto più disposta. Comunque l’emigrazione è sempre esistita nel nostro ambiente.

d - Qui a Tito, per i giovani, lei ha fatto tante cose, ma anche per gli anziani...

r -...a quei tempi c’era l’Azione Cattolica che raccoglieva i piccoli, e i meno piccoli. Per gli operai c’erano le associazioni lavorative, c’erano le Acli, con le quali ho lavorato per venticinque anni. Poi venne fuori il bisogno di alcuni mendicanti -perché ne abbiamo, in paese- li raccogliemmo (ricordo che all’inizio erano in cinque), assicurando loro vitto, servizi igienici, del personale minimo. A quei tempi anche i minori erano in balia di loro stessi, perché i genitori di solito emigravano e le condizioni economiche erano quelle che erano. Motivo per cui ebbi l’idea di istituite una piccola casa di accoglienza, intitolata al santo del posto (San Laviero Martire – ndr), così venerato, ma anche così bestemmiato. I ragazzi venivano da tutti i paesi della regione e si trattenevano a seconda dell’età, dei bisogni delle famiglie o del livello d’istruzione. Qualcuno è rimasto qui a Tito anche per dieci/dodici anni, dalla scuola materna a quella media inferiore (alcuni hanno proseguito anche nelle scuole superiori) non pochi di loro ritornano in paese con grande riconoscenza.

d - Lei a giorni compirà cent’anni, qual è il segreto per arrivarci vispi e in salute come lei?

r - Arrivare a cent’anni non è un merito.

d - Beh, dipende.

r - E’ una condizione. Io seguo le regole generali: l’attenzione, l’alimentazione, la prudenza nel vivere; perché non bisogna soltanto vivere, ma anche saper vivere. Il dono della vita va curato, va nutrito, alimentato in tante maniere, e va anche difeso dai pericoli, di tante specie. Oggi, credo, la vita si è allungata, per cui i centenari sono tanti e il loro numero crescerà in futuro. Oggi in generale c’è più attenzione alla vita.

d - Il 14 maggio -e ci sono già i manifesti- la comunità titese la festeggerà, ma lei quale “regalo” vorrebbe, per sé, per i suoi compaesani...

r - Un regalo dovrebbe essere la preghiera di ringraziamento, sia da parte mia sia degli altri. Se i miei amici saranno con me il 14, ringrazieranno il Signore per il dono della vita. Regali di ogni specie non ne vorrei perché, essendo al traguardo, non avrei di che usufruirne.

d - Cos’è che ancora oggi la fa soffrire?

r - No, no, sono tranquillo e sereno di aver fatto ciò che ho fatto.

d - Ma quando guarda dalla sua finestra, o magari esce in paese, non c’è niente che la fa arrabbiare?

r - No, no. So che la popolazione mi vuol bene, anche perché sono stato sempre qui. Pensi un po’ che sono stato settantasette anni sacerdote a Tito, come vicario cooperatore (con il primo parroco), poi come parroco, e poi ancora come aiutante dei parroci che mi sono succeduti.

d - E oggi celebra messa a casa sua.

r - Sì.

d - E ci viene qualcuno?

r - Il mio parroco desidera che non venga nessuno. Non solo a causa della mancanza di spazio, ma anche perché non avrebbe la possibilità di frequentare quella poca gente che magari verrebbe. Tra l’altro, la mia non è una chiesetta, ma una semplice stanza adibita alla celebrazione della messa, e vi entrerebbero massimo tre/quattro persone.

d - E qual è il senso di fare una messa da solo?

r - Una messa da solo è adorazione, ringraziamento, domanda di perdono (anche per il popolo) e domanda di grazia, di qualunque grazia.

d - In Basilicata recentemente si è votato per la Regione, tra poco qui a Tito (e altrove) si voterà per il sindaco e la giunta comunale: lei quale messaggio si sente di rivolgere ai nostri rappresentanti politici? Preghiera, ringraziamento o che altro?

r - L’attuale sindaco (Scavone – ndr) mi è tanto amico: lo ricordo da piccolissimo, quando giocava al pallone con i ragazzi del collegio. Poi è diventato grande, ha studiato...ed è un ottimo sindaco, un ottimo amico, col quale collaboriamo con tutto il cuore. Viene a trovarmi, mi ascolta e proponiamo insieme alcune iniziative. Per quanto riguarda la Regione o la Provincia, sono organi necessari, con i quali non abbiamo nessuna ostilità, difficoltà o problema.

 

 

 

 

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E' alta, si muove e si esprime con garbo e l'assenza di inflessioni tradisce gli anni trascorsi altrove, in diverse città d'Italia. Nativa di Baragiano (Pz), ove è tornata a vivere da una decina d'anni, Carmela “Carmen” Summa è stata una calciatrice di successo ieri, mentre oggi, con altrettanto profitto, è CT della rappresentativa regionale della Lega Nazionale Dilettanti, nonché tecnico del settore giovanile del Marmo Platano, nel ruolo di preparatore atletico e collaboratrice del mister.

D - Oggi si parla molto di “stereotipi di genere”, ma non mi è difficile immaginare la situazione di una ragazzina lucana che negli anni Settanta si decide a entrare nel mondo del Calcio.

R - Sicuramente ho dovuto affrontare tutta una serie di stereotipi che possono esserci in un percorso di vita. Sono nata a Baragiano, un paese piccolissimo dal quale sono andata via nel 1976, e ho iniziato a giocare a pallone con i ragazzini. Allora le scuole calcio erano per strada. Ricordo le partitelle nelle piazze del mio paese, ho imparato molto da quei bambini. E così, una mia professoressa delle medie, che mi vedeva molto intraprendente e determinata, un giorno mi propose di andare a giocare nel Potenza femminile. Avevo undici anni e mezzo. Di lì è iniziato tutto: ho giocato nella Salernitana in serie A, poi sono stata a Catania (dove vincemmo quattro scudetti), Lecce, Verona, Modena; ho militato nel Milan, un anno a Napoli, e undici alla Reggiana. Ho giocato 520 partite in serie A e vinto sei scudetti.

D - Lei ha parlato di stereotipi e difficoltà...per esempio, come accolsero in casa sua la volontà di fare la calciatrice professionista?

R - Io sono stata molto etichettata, perché, come figura femminile, c'erano naturalmente dei “canoni” prestabiliti da seguire. Per quanto riguarda la mia famiglia, mio padre è stato molto molto più aperto rispetto a mia madre. Sa, si temeva moltissimo il giudizio dell'ambiente. Ricordo che mia madre, quando mi vide giocare con i ragazzini, mi disse “Tu sei una donna, certe cose non le devi fare. Tra l'altro vivi in un paesino in cui le persone queste cose non le condividono”. E io già allora difendevo la mia scelta. Sì, ho dovuto superare diversi ostacoli a livello psicologico, e non nascondo che andarmene a quindici anni a Salerno (per militare nella Salernitana) per me fu un vero punto di partenza, perché lì mi sono costruita come giocatrice e come donna.

D - A pochi chilometri di distanza, a Salerno, era già così diversa la mentalità?

R - Certo, molto diversa, parliamo del 1976/77. Oltretutto ebbi la fortuna di finire in una società sportiva già abbastanza organizzata, con delle figure che ci seguivano. Di mio, poi, ero una giocatrice molto forte...

D - Lei giocava in difesa.

R - Esterno basso, e all'occorrenza esterno alto.

D - Voi giocatrici di successo, di calcio femminile, che facevate sacrifici quanto e più degli uomini, avvertivate mai la sensazione di essere bistrattate, in fatto di media, rispetto ai più famosi colleghi maschili?

R - Certo che c'era un po' di frustrazione, ma più che altro perché le persone che circondavano l'ambiente del calcio femminile non erano mentalmente e culturalmente aperte. Ricordo che quando col Potenza femminile giocavamo al Viviani (erano i tempi di mister Mancinelli), venivano in tanti a vederci, ma soprattutto per guardare me in azione (ero diversa dalle altre, sapendo già muovermi bene). Ricordo ancora i commenti, ma accadeva anche a Salerno. Oggi qualcosa è cambiato in meglio, ma allora si andava a quelle partite per vedere le gambe delle ragazze, le magliette aderenti al seno, per queste piccole banalità, chiamiamole così. Certo, se vogliamo paragonare il calcio maschile a quello femminile, è ovvio che a livello di struttura fisica, di potenza, di resistenza, di contrasto etc., delle differenze ci sono, ma tecnicamente non abbiamo nulla da invidiare.

D - In Basilicata c'è una realtà viva di calcio femminile? Ci sono molte ragazze che vi si avvicinano, o c'è ancora qualche tipo di remora?

R - Da qualche anno in Basilicata è cambiato l'approccio verso il calcio femminile: c'è il Potenza femminile (che si chiama Seventeen), ma anche lo stesso Avigliano, così come il Viggiano, parliamo di società che hanno una struttura, una scuola calcio, un vivaio, e che quindi fanno tutto un lavoro di programmazione. Quando ho iniziato io tutte queste cose non esistevano. Oggi invece, in virtù di quelle opportunità che descrivevo poc'anzi, il calcio femminile ha avuto occasione di acquisire credibilità rispetto a chi gli si avvicina.

D - Una domanda da vero ignorante in materia: un'allenatrice può guidare una squadra di calcio maschile?

R - Certamente. Io ho il patentino “Uefa C” e ho allenato il Baragiano Calcio maschile in prima categoria e ho seguito il settore giovanile a Picerno.

D -...e un giocatore di sesso maschile, gli ordini da una donna, li prende meno volentieri?

R - Le faccio un esempio molto recente. Io collaboro col Marmo Platano, il cui mister è Donato Troiano; i primi tempi, da questi ragazzini di quattordici/quindici anni, mi sentivo...come dire...osservata. Poi, come in tutte le cose, scatta un qualcosa a livello di ascolto, specie quando tu parli in modo semplice e lineare e dimostri di avere una leadership, e nello specifico sai spiegare a questi ragazzi il modo di stare in campo, la postura, il modo di correre, di difendere la palla. E i ragazzi cambiano completamente opinione.

D - Cioè quando capiscono che lei se ne intende per davvero.

R - Certo. Pero è chiaro che, specialmente all'inizio, c'è un discorso di preclusione e diffidenza nei confronti di una donna. Ma poi, come dicevo, cambiano idea. Parlo per me, almeno.

D - Spostiamoci allora proprio sul calcio maschile e sui “dolori” del Potenza. Cos'è andato storto secondo lei?

R - Se posso permettermi di esprimere un giudizio, beh,...il presidente Macchia è sicuramente un tifoso del Potenza... ma quello del calcio spesse volte è un mondo “attrattivo”, e bisogna avere la competenza di sapersi scegliere delle figure che abbiano anch'esse delle competenze. A volte invece si fanno delle valutazioni diverse, che hanno maggiormente a che fare col sistema calcio, ma che tuttavia si ripercuotono su quella mentalità che dovrebbe essere vincente, e che poi non è in grado di costruire qualcosa di valido. Lo stesso Potenza quest'anno ha cambiato quattro allenatori; avrà avuto i suoi buoni motivi, per carità, ma io-presidente mi porrei il problema del perché. Forse una campagna acquisti sbagliata, lo spogliatoio...quel che è certo è che la città capoluogo meriterebbe tranquillamente di fare calcio ad alti livelli.

D - Le posso chiedere un pronostico? Il Potenza si salverà?

R - A mio avviso il Potenza si è messo in una situazione molto particolare, e beh, trattandosi di partite secche, tutto può succedere. Molto dipende da come uno affronta certe situazioni, certo è che tre mesi fa tutto pensavo tranne che il Potenza avrebbe fatto i play out. Secondo me, si sono venute a creare tutta una serie di situazioni tanto nello spogliatoio quanto a livello tecnico. Qualcosa non ha funzionato. Fermo restando che i giocatori dovrebbero sempre onorare la maglia e farlo alla grande.

 

 

 

 

bc6b460b-9481-4cf4-aa8f-6770e2d4cc02.jpgSono 150 gli alunni dell’istituto “16 agosto 1860” di Corleto Perticara che stanno seguendo percorsi formativi in lingua straniera, matematica, programmazione e robotica grazie ad “Action!”, il programma solidale promosso da TotalEnergies EP Italia, che coinvolge i dipendenti di tutto il mondo in attività di volontariato a supporto di fondazioni, associazioni no profit e scuole.

Lanciato in Basilicata nel 2022, il progetto quest’anno prevede, in un periodo fra il mese di marzo e la fine di maggio e per un totale di 118 ore, il supporto ai docenti dell’Omnicomprensivo di Corleto - che comprende anche i plessi di, Armento, Gallicchio e San Martino d’Agri, in provincia di Potenza - in attività formative sviluppate da dipendenti della Compagnia esperti in determinate materie.
Gli undici volontari di TotalEnergies che hanno aderito al progetto hanno avviato nelle classi quattro progetti (“Nous et les autres!”, “Let’s play!”, “Math & Apps” e “Programming e robotics”), che interessano 82 studenti della scuola secondaria di primo grado di tutti i plessi dell’Omnicomprensivo “16 agosto 1860” e i 68 alunni della scuola dell’Infanzia delle sezioni di Corleto Perticara, Gallicchio e Armento. I primi due percorsi coinvolgono esperti madrelingua che stanno tenendo lezioni in francese, nella scuola secondaria di I grado (per 40 ore); in inglese, nelle classi della scuola dell’infanzia (30 ore). Gli altri due progetti sono in corso nelle classi delle scuole secondaria di I grado: uno, per 32 ore, con il supporto di un volontario con conoscenze di matematica, per l’apprendimento di nozioni attraverso l’utilizzo di applicazioni informatiche, l’altro, per 16 ore, con un esperto in ingegneria elettronica, robotica e delle risorse Open source di Arduino (la scheda elettronica con licenza libera utilizzata per progetti di robotica, elettronica e automazione industriale).
Il progetto “Action!” viene promosso dalla TotalEnergies Foundation in tutto il mondo, per dare ai propri lavoratori, nell’ambito delle attività di responsabilità sociale, la possibilità di contribuire allo sviluppo e alla crescita delle comunità in cui operano, mettendo a disposizione le proprie competenze in uno dei “quattro assi” di azione individuati dalla Fondazione: Sicurezza Stradale, Foreste e Clima, Educazione e Integrazione dei giovani, Dialogo tra cultura e patrimonio;
Nel caso dell’ Omnicomprensivo di Corleto Perticara, il progetto è stato riproposto per via del riscontro positivo dello scorso anno, e che a seguito dei risultati ottenuti è stato potenziato con più ore e con il coinvolgimento di più volontari, come confermato dallo stesso istituto scolastico che ha proposto anche alla scuola dell’infanzia il progetto “Let’s Play” incentrato sulle abilità di ascolto, comprensione ed appropriazione dei significati della lingua straniera per i più piccoli, stimolandoli anche attraverso giochi di gruppo, attività manipolative, realizzazione di cartelloni, canzoni e filastrocche.

Il successo e la qualità dell’esperienza lucana ha suscitato particolare interesse anche nella Compagnia, che ha deciso di inviare in Basilicata una troupe della divisione Comunicazione dalla Holding di Parigi, per un reportage con le testimonianze di dipendenti, docenti e studenti che hanno aderito al progetto.

 

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 DI WALTER DE STRADIS

 

Fra le diverse cose, il noto architetto potentino Gianluigi Barbato Padovani ha anche progettato gli interni del ristorante in cui di solito si consumano, oltre ai pasti, anche le nostre interviste “a pranzo” («con Domenico e Francesco, nel lontano 2005, pensammo subito a un locale contemporaneo, che potesse durare nel tempo»).

Dotato di aplomb all’inglese e di piacevole erre “arrotondata”, Barbato Padovani è quel che si dice una “mente”, da cui sono scaturite (e come si leggerà, scaturiscono tuttora) diverse idee e proposte di progettualità interessanti per la città capoluogo di regione...per salvarlo dalla linea “piatta” a cui sembrerebbe man mano abbandonarsi.

d - Al di là di ciò che è scritto nelle carte della professione, cos’è per lei un architetto? Esiste una “mission”?

r - All’inizio pensavo che l’architettura fosse legata solo alla realizzazione degli spazi. Nel tempo, con l’esperienza, ho capito che prima di tutto, forse, è la progettazione dei comportamenti.

d - Degli spazi con dei “contenuti”, quindi.

r - Sì, perché noi progettiamo per l’Uomo; di conseguenza, in qualche modo, è lo Spazio che deve relazionarsi con l’Individuo. E poiché questi si muove liberamente in quello Spazio, noi architetti a quel Movimento dobbiamo dare un significato, ovvero delle opportunità.

d - Proprio l’altro giorno leggevo di un vecchio studio americano, dal quale si evinceva che nei quartieri meno degradati esteticamente, e cioè più “belli”, si registra minore delinquenza.

r - E’ assolutamente vero. La funzione del Bello, dell’Architettura, fa sì che gli spazi, con la loro qualità estetica, inducano al rispetto di quei luoghi stessi.

d - E veniamo alle dolenti, o magari piacenti, note della città Capoluogo (ci dirà lei). Spesso si leggono scritti, se non addirittura classifiche, sulla “bruttezza”, vera o presunta, della nostra Città. Ma poi viene un regista, Simone Aleandri, a girarci un film con Ambra Angiolini, e a noi di Controsenso dice che Potenza lo affascina perchè, con i suoi palazzoni, sembra una città “noir”.

r - Potenza è una città che ha un suo “nucleo”, molto importante e direi anche molto apprezzato. Quando invito gente da fuori, questi ospiti guardano al centro storico come a un elemento di grande gratificazione. E’ vero, forse nel tempo la periferia è stata costruita con caratteristiche che non hanno rafforzato il centro storico, creando una dicotomia tra le due aree della città; insomma, non c’è stato un “continuum”, ma quasi una rivalità. Tant’è vero che, negli ultimi decenni, abbiamo notato che il centro storico è stato abbandonato. E quindi, ciò che normalmente accade in tante altre città, anche italiane, e cioè un nucleo forte che traina la crescita di un’intera città, non si è verificato. Attenzione, ciò non significa che la periferia sia per forza dequalificante (abbiamo infatti la fortuna di essere una città abbastanza tranquilla, che gratifica i suoi abitanti, tendenzialmente qualificativi), ma ugualmente ritengo che qualche sforzo in più si sarebbe dovuto fare, nella costruzione dei cosiddetti nuovi quartieri.

d - Si è badato solo a riempire degli spazi e non alla progettazione dei comportamenti, come dicevamo prima?

r - Parliamo di un maggiore senso sociale: bisogna guardare a chi abita la città, ma anche creare delle opportunità. Il centro storico, in qualche modo, è stato depauperato del suo ruolo come punto di aggregazione. Quando sono in Centro, io stesso non ritrovo quella frequentazione che ricordavo da bambino.

d - Ci ritrova, però, i “pali” dell'archistar Gae Aulenti in piazza Prefettura, che hanno suscitato tante polemiche.

r - Beh...

d -...però, anche in questo caso, viene a Potenza una scrittrice di fuori, autrice di una biografia sulla Aulenti (Annarita Briganti – ndr), e dice che quei pali sono una ricchezza, per la città.

r - C’è però sempre un problema, legato ai progetti che vengono calati dall’alto. Un progetto, di per sé, può anche essere interessante e valido, ma quando non è “digerito”, condiviso, con la popolazione, può creare questo tipo di controversie. E forse proprio questo è mancato al progetto di Piazza Prefettura. Oltretutto si è trattato di un “restyling”, non di un intervento sostanziale, utile a far sì che quel luogo diventasse anche funzionale al ritorno della gente in via Pretoria. E’ stata fatta una pavimentazione, messa una nuova illuminazione, ma probabilmente non si sono fatti degli interventi come quello proposto, anni addietro, di creare un parcheggio multi-piano, con accesso da XVIII Agosto. Avrebbe portato, nel cuore di Potenza, i potentini (e non solo, probabilmente).

d - Dunque, le occasioni CI SONO state.

r - Io penso proprio di sì. Credo anche che alcuni interventi fatti non siano stati gestiti in maniera adeguata.

d - Eppure si sono succedute varie amministrazioni, e di diverso colore, anche. Ma il “problema Centro” è sempre lì.

r - E’ visibile a tutti: oggi il centro storico arranca. Non è solamente un problema di architettura, ma di utilizzo degli spazi, di natura commerciale; insomma, un problema che deve guardare agli spazi anche in chiave merceologica. Probabilmente va fatto un progetto più ampio. Io stesso ho fatto degli studi sulla problematica del centro storico; è stata anche presentata, a un’amministrazione, una relazione che guardava a un particolare utilizzo della parte vecchia della città. Mi spiego: guardando al mercato dei matrimoni, scopriamo che muove risorse enormi. E nel Meridione non esiste un centro storico, caratterizzato, votato a questo. Eppure parliamo di un mondo fatto di cibo, di viaggi, di artisti, di fotografi, di finanza...

d - Un vero e proprio indotto.

r - Con centinaia di milioni che vengono spesi soltanto nell’ambito di tre regioni: Campania, Basilicata e Puglia.

d - Quindi lei dice che il nostro centro storico si prestava particolarmente a questa vocazione?

r - Assolutamente sì. Sia perché è uno spazio pedonale, sia perché ha tutta una serie di contenitori che potevano essere utilizzati.  

d - Alcuni dei suoi vicoli sono in effetti romantici.

r - Certo. L’idea è quella di un luogo attrattivo, ove le persone interessate trovano lo stilista, il sarto, l’artigiano delle scarpe, quello delle borse, il “food” ove scegliere, gli spazi per le manifestazioni legate ai matrimoni.

d - Senta, immaginiamo che un domani a Potenza venga istituito un Assessorato al “Bello”...e che venga dato a lei l’incarico.

r - …la prima pratica sarebbe sempre legata al centro storico. I luoghi, poiché vivono sulla storia delle persone, necessitano di partire dalla loro storia, E il Centro è la storia di una città. Partirei quindi da una riqualificazione a 360 gradi di quell’area, per poi allargarmi a tutta la città. Guardi, anche ciò che è accaduto col “110”, è stata un’opportunità mancata, che permetteva di ridisegnare gli edifici, con fondi dello Stato. Ciò poteva significare rendere i nostri edifici, perlomeno quelli che di bello hanno poco, molto più interessanti.

d - A proposito di film “possibili” da girare a Potenza, lei che genere di lungometraggio farebbe e dove?

r - Potenza ha una serie di prospettive interessanti. Come dicevo prima, l’importante è osare. Io guarderei, pertanto, alla città nella sua interezza; anche alcune aree che noi magari riteniamo più deteriorate, possono in qualche modo partecipare a questa possibilità. Mi sovviene il “Trattato sul Funambolismo”, di Philippe Petit, in cui si spiega che l’essenza del funambolo, che può muoversi tra due guglie, due spazi dimenticati, è quella della città, dell’Uomo. Ripeto, partendo dall’Uomo, puntando tutto sull’Uomo, le città possono vivere ed essere riqualificate.

d - Potenza deve essere più funambolica.

Bisogna osare di più.  

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A maggio saranno 25 anni a servizio della Chiesa. Questa settimana è Don Donato Lauriaa parlare, presentandoci laParrocchia "Maria SS. Immacolata" di Rione Cocuzzo, più comunemente conosciuto come Serpentone.

d - È un rione molto popoloso. Come è composta la comunità?

r - La realtà di Rione Cocuzzo, meglio ancora del territorio della Parrocchia Maria SS. Immacolata è costituita da una popolazione di oltre diecimila anime.Complessa e variegata è la composizione degli abitanti provenienti da varierealtà socioculturali, con annesso un territorio rurale che comprende attualmente lecontrade Gallitelloe Valle Paradiso.La gran parte degli abitanti risiede in quello che è comunemente definito “il Serpentone”, in massima parte famiglie monoreddito, altre vicinissime alla soglia di povertà, altre ancora con un alto indice di povertà, moltissime sono attualmente le famiglie formate essenzialmente da pensionati soli o con figli a carico senza lavoro o con lavori a tempo determinato, saltuari o addirittura ”a nero”.A fare da contrasto a questa realtà sono le cooperative che invece sono abitate da nuclei familiari più benestanti, ma nessuna, ma mio avviso, può definirsi “borghese” o “nobile” redditualmente.Il resto del quartiere è formato da famiglie anche giovani, la maggior parte di esse, però, con a carico figli unici.

d - Si è detto più volte in passato essere un rione “difficile”, è vero? Lo è stato/lo è ancora oggi?

r - Il Quartiere, fin dalla sua nascita, e ancora negli anni 80 e 90, per le sue grandi dimensioni e per le difficili condizioni di vita dei suoi abitanti, era definito il Bronx, un “quartieresimbolo” del degrado delle periferie della città.Le prime famigliearrivate nel rione ricordano di essersi trasferiti dal centro storico e dalla parte alta di Potenza, o dai paesini montuosi limitrofi in un quartiere ancora in via di costruzione,con un sistema fognario assente e una parziale e inadeguata illuminazione pubblica e dei bus e di altri servizi pubblici neanche l’ombra. Questo popolo di Rione Cocuzzo ha sempre lottato per migliorare le condizioni di vita del quartiere e uscire dall’isolamento e ha fatto sentire la sua voce verso le autorità amministrative e politiche dalle quali il più delle volte si è sentito abbandonato.Oggi tante cose sono notevolmente cambiate, i suoi abitanti, che hanno sviluppato un certo senso di orgogliosa appartenenza, sono attori fondamentali di un processo di rinnovamento e riqualificazione: hanno imparato a volergli bene e a prendersene cura, anche perché, per molto tempo, non c’è stato nessuno che lo facesse al posto loro.Sono presenti sul territorio le più importanti agenzie di servizi come la scuola, l’ufficio postale, la farmacia, il supermercato, molte attività commerciali e professionali e, ovviamente la Parrocchia, che in questi ultimi vent’anni ha avuto un ruolo dominante per il cambiamento culturale e sociale del Quartiere, compiendo un grande lavoro di aggregazione, soprattutto tra i giovani e diventando un punto di riferimento per tutte le famiglie del rione e per la città.L’attività parrocchiale al di là del suo specifico servizio ecclesiale e sacramentale, si concentra sulla cura del rione e sull’organizzazione di eventi culturali e religiosi aggregativi.Vorrei sottolineare che Parrocchia è innanzitutto chiamata ad educare, ma la grande tentazione di chi educa è l’ideale di perfezione che troppo spesso abbiamo in testa. Vorremmo studenti impegnati e diligenti, classi silenziose e partecipi, scuole pulite e ordinate, adulti dialoganti e disponibili. Ma le cose non vanno mai così, e allora ci lamentiamo.Noi pensiamo che la comunità è quel luogo dove tutto deve essere bello, dove tutto deve essere perfetto, senza macchia, che deve rispondere a tutti i nostri perché, ai nostri dubbi, dove niente e nessuno può sbagliare.La comunità è fragile, perché formata da uomini fragili.

d - La parrocchia che attività propone oltre a quelle strettamente legate alla religione? I cittadini partecipano alle attività?

r - Le attività sono molteplici e variegate e la gestione delle stesse è affidata agli animatori dell’Oratorio e a collaboratori adulti opportunamente preparati e responsabili.Laboratorio di Teatro, Coro ragazzi e adulti, attività sportive, laboratori di cucina e pasticceria, laboratori di taglio e cucito, centro estivo, gite e pellegrinaggi, Incontri culturali, Doposcuola con merenda. Le attività sono sempre accolte con grande favore soprattutto dalle famiglie dei bambini e ragazzi poiché vedono in esse una opportunità di crescita umana per i loro figli e di relazione e incontro per loro adulti. Se però facciamo un confronto con il passato, dobbiamo constatare una minore partecipazione numerica dovuta alle molteplici altre proposte che la città offre in ambiti diversi e, che prima, erano in un certo senso offerte solo dalle parrocchie.

d - Ci sono associazioni che gravitano intorno alla Parrocchia?

r - Stiamo cercando di progettare, di lavorare insieme alle altre associazioni del Quartiere come Auser, Gommalacca, Associazione Cocuzzo…anche perché solo dalla reciproca conoscenza e dalla stima gli uni per gli altri possono nascere collaborazione e sintonia.

vSi parla spesso di giovani che non frequentano le celebrazioni e le attività della chiesa, come è la situazione?

r - Come Parrocchia abbiamo concluso a gennaio una indagine sui “GIOVANI e la FEDE in UNA SOCIETÀ PLURICULTURALE E MULTIRELIGIOSA” su un campione di più di 1000 giovani dai 14 ai 28 anni.Avremo modo nei prossimi mesi di fare una più attenta riflessione su questa indagine. Per il momento posso dire che i giovani non si pongono “contro”, ma stanno imparando a vivere “senza” il Dio presentato dal Vangelo e “senza” la Chiesa.Stiamo vivendo un cambiamento d’epoca in cui la fede è ormai marginale e i cristiani sono una minoranza.

d - Caritas parrocchiale - Quante e che tipologia di famiglieassistete?

r - La povertà continua a mordere, come confermano i recenti dati Istat secondo i quali "la povertà conferma sostanzialmente i massimi storici toccati nel 2020, anno d'inizio della pandemia". Una condizione difficile, che incide sulla vita dicentinaia di famiglie del quartiere e della città sempre più in affanno nell’arrivare a fine del mese e a provvedere, in maniera autosufficiente, alle cosiddette spese fissequelle che in famiglia non mancano proprio mai. Ed è su questo fronte che l’azione della Caritas parrocchiale e si è fatta da qualche anno più intesa e concreta. Da una parte con la distribuzione di pacchi alimentari, dall’altra sostenendo in maniera totale o parziale il pagamento diretto di bollette, affitti e, a volte, rate di mutuo.Nel nostro territorio parrocchiale non ci sono i poveri di strada, quelli cioè che siamo abituati a incontrare davanti alle chiese, nelle zone centrali delle grandi città o in quelle ad alta frequentazione turistica. Qui i poveri si mimetizzano nel tessuto sociale, gente apparentemente normale ma tutti con un equilibrio economico molto fragile e in molti casi con entrate legate alla giornata.

d - Intervenite anche in qualche altro modo?

r - Certo, non c’è solo l’aiuto materiale, è indispensabile puntare anche sull’aspetto educativo. Spesso ho a che fare con persone che, come diciamo da queste parti “ci provano”! Gente cioè che bussa alle porte della chiesa con un approccio da bancomat provando a mettere in piedi l’ennesimo tentativo di ottenere qualcosa. Persone che in realtà non vivono un bisogno impellente, cui è giunta voce che “la parrocchia aiuta” e che quindi provano a vedere se è possibile rimediare qualcosa. Ma la cosa che più mi colpisce è che alcuni di quelli che aiutiamo, potrebbero tranquillamente farcela da soli e non lo fanno, o perché non hanno voglia oppure perché spendono il denaro per futili motivi.Altra povertà è quella della solitudine degli anziani, molti dei quali vivono lontano dai propri figli, emigrati per necessità in altre città del nord o, addirittura, in altre nazioni. Il nostro intento è quello di creare quei legami che in qualche misura in un grande quartiere come questo vengono meno. Su diecimila abitanti, numerosi sono gli ultraottantenni. Per questa fascia d’età dovremmo impegnarci molto di più a fare rete con altre associazioni presenti sul territorio e che da anni offrono loro sostegno e iniziative formative, culturali e ricreative.

d - Vita nel quartiere - Quali sono i principali problemi che icittadini lamentano?

Adesso passano tantissime macchine e, in alcune ore della giornata, sembra un circuito di corsa per le auto. Corrono vicino alle palazzine, rischiando di investire qualcuno. In realtà̀ è già̀ successo più volte. Sarebbero auspicabili dei rallentatori e una maggiore presenza delle forze di polizia nelle ore di punta. Occorrerebbe illuminare maggiormente alcune zone del quartiere, così da renderle più vivibili e sicure, riparare le strade periferiche del quartiere e avere più cura del verde pubblico.

Ovviamente in ogni cosa ci si aspetta dalla popolazione un maggior senso civico.

d - Nei prossimi mesi i potentini saranno chiamati a scegliere il loro primo cittadino.Se lei fosse sindaco…

r - Nella nostra città ci sarebbero davvero tantissime cose da fare e francamente io non riesco ad individuarne la priorità, né a riassumere in tre punti assegnando un ordine d’importanza. Sono forse le scuole meno prioritarie degli asili nido? Sono forse la viabilità o i trasporti d’importanza secondaria rispetto alla esigenza di una sanità che possa mettere i nostri eccellenti professionisti nelle condizioni di declinare le proprie capacità in una struttura che lo consenta? Non sarebbe forse prioritario lavorare a un progetto che possa guardare oltre il proprio naso, sulla gestione degli spazi pubblici della nostra città?Ho sempre creduto che la nostra città viva da decenni una crisi di sistema orizzontale e verticale. I cittadini si avviluppano sempre di più dentro una critica sterile ed improduttiva, volta al lamento incline al sentito dire e priva di quel senso civico, di quella passione che muove le comunità che hanno la consapevolezza di esserlo. L’uso che si fa dei social certo poi non aiuta.La cosiddetta “classe dirigente”, quando si muove, lo fa senza mai riuscire a mettere a segno ancheUN SOLOprogetto condividendone i contenuti e il fine, bravi come siamo a dare priorità alle nostre ambizioni personali e politiche ancorché all’interesse collettivo. Potrei solo dirvi che occorrerebbe ricominciare da zero: dall’imparare l’importanza fondamentale nelle nostre vite quotidiane del ruolo delle Istituzioni per saper discernere a chi farle incarnare. Almeno proviamo ad insegnarlo ai nostri figli!

 

 

 

 

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Tra gli Allievi Ufficiali appartenenti al 205° Corso "Fierezza", hanno giurato anche i materani Francesco Armento di Bernalda e Luigi Dimichino di Montescaglioso. Il corso è frequentato da 230 Allievi Ufficiali, dei quali 216 italiani e 14 stranieri, provenienti da undici paesi diversi.
Nel Cortile d'Onore del Palazzo Ducale di Modena, sede dell'Accademia Militare, gli Allievi Ufficiali hanno  giurato in forma solenne, alla presenza del Capo di Stato Maggiore della Difesa, Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, del Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, Generale di Corpo d'Armata Carmine Masiello, e del Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri, Generale di Corpo d'Armata Teo Luzi.
L'atto solenne, avvenuto al cospetto della Bandiera dell'Istituto e dinanzi al padrino del corso, Tenente Colonnello Gianfranco Paglia, Medaglia d'Oro al Valor Militare, ha suggellato l'ingresso degli Allievi Ufficiali nei ranghi dell'Esercito Italiano e dell'Arma dei Carabinieri e la loro adesione, intima e spirituale agli ideali, tradizioni e valori - cardini dell'etica militare - incastonati nella tradizionale formula del giuramento, pronunciata dal Comandante dell'Accademia Militare, Generale di Divisione Davide Scalabrin.
<<Ho deciso di entrare in Accademia per l’opportunità formativa offerta dall’Esercito dal punto di vista degli studi, dell’educazione fisica e della formazione tecnica militare. Inoltre, la possibilità di sviluppare la capacità di essere leader e imparare a ragionare anche in condizioni di stress>>, ha dichiarato l’allievo lucano Francesco Armento, di Bernalda; << Qui ho la possibilità di conciliare la vita universitaria, l'attività ginnico-sportiva e l'addestramento tecnico-tattico. La volontà di dare un contributo alla comunità del Paese che io amo tramite le competenze apprese e le conoscenze acquisite>>, ha invece affermato Luigi Dimichino di Montescaglioso.
Il Capo di Stato Maggiore della Difesa si è rivolto ai giovani Allievi Ufficiali evidenziando che “Il Capo dello Stato, il Ministro della Difesa, tutte le Istituzioni e tutti i cittadini guardano a noi, ma soprattutto a voi, che siete il futuro come presidio di democrazia, di libertà e quale sicuro punto di riferimento per la sicurezza e la stabilità..”.

Il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, rivolgendosi ai futuri Comandanti, ha sottolineato che "giurando fedeltà alla Repubblica Italiana, vi siete assunti la responsabilità di difenderla con la Costituzione e le libere Istituzioni che la incarnano. È un contratto che firmate davanti al Tricolore, è un patto d'onore che vi lega alla Patria”

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di Walter De Stradis

 

 

 

Pochi altri medici lucani possono vantare un “palmares” di incarichi e riconoscenze prestigiose come le sue. Il professor Michele De Bonis, spesso e volentieri titolato come “eccellenza”, nazionale e regionale, originario di Pietragalla (Pz), è primario dell’Unità di Cardiochirurgia delle Terapie Avanzate e di Ricerca presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, professore associato di Chirurgia Cardiaca e già Direttore della Scuola di Specializzazione in Cardiochirurgia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Ricopre ruoli di prestigio a livello europeo ed internazionale e presso l’Unità che dirige esegue oltre 5.500 interventi maggiori di cardiochirurgia, di cui circa 3000 in qualità di primo operatore.

Ciononostante, è in maniera manifesta un uomo di un’affabilità e un’umiltà addirittura spiazzanti, che ogni mese prende il treno per venire a visitare, qui a Potenza, i suoi corregionali bisognosi di cure.

Ah…e ha fatto parte dell’equipe che ha operato un certo Berlusconi.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r - Pariamo con una domanda che forse è la più importante, fra quelle che mi farà. La mia esistenza la giudico sulla base del dono più grande che ho: la mia Fede. Tutti noi siamo il risultato di UN progetto d’amore e siamo chiamati a corrispondervi. Per caso, l’altro giorno, rispondendo a un messaggio di mia moglie (anche lei cardiochirurgo), ho trovato ciò che aveva scritto sul suo profilo whatsapp, una frase di don Tonino Bello: “La vita ci è donata per conoscere Dio; la morte per incontrarlo e l’Eternità per possederlo”. Credo che possa riassumere una risposta alla sua domanda.

d - Lei è originario di Pietragalla, ma sin da giovanissimo ha lasciato la Basilicata. Si è mai sentito, in qualche modo, un’eccellenza sottratta alla sua regione?

r - Se avessi potuto (o potessi), contribuire di più al bene della mia regione, mi avrebbe riempito di gioia. Il motivo per cui sono andato via –quando avevo 18 anni- è per frequentare l’Università Cattolica del Sacro Cuore, in una facoltà a numero chiuso, in quel momento anche l’unica. Quella era la struttura che in quel momento, a mio giudizio, poteva offrirmi le migliori prospettive. Non credo di essere stato “sottratto”, avendo liberamente scelto di proseguire un percorso che era quello che mi interessava: avere la migliore preparazione possibile, e seguire la mia passione, ovvero la Medicina.

d - A microfoni spenti mi ha detto di essere stato un “biglietto giallo”.

r - Sì. Avendo la mia famiglia un reddito molto modesto, ero un “biglietto giallo”. Ma ricordo con piacere questo colore, perché sono molto riconoscente alla “Cattolica”. Ho potuto frequentare quella Università, a numero chiuso, sostanzialmente in modo gratuito, purché mantenessi un rendimento molto alto (bisognava avere la media, almeno, del 29,5). In virtù di ciò, avevo anche a disposizione un alloggio (in un collegio della “Cattolica”) e un contributo spese per i libri.

d - Lai ha grosse collaborazioni a livello europeo…

r - …ho iniziato abbastanza presto questo tipo di percorso, andando al St. George Hospital di Londra; prima ancora ero stato in Belgio, presso diverse istituzioni. Successivamente, pur avendo superato l’esame (di per sé abbastanza difficile) per esercitare negli Stati Uniti, sono rimasto in Europa, lavorando al San Raffaele. Nel frattempo sono arrivati alcuni altri incarichi, fra i quali, quello di presidente della Task Force sulla Chirurgia Mitralica e Tricuspidalica della European Association for Cardiothoracic Surgery; quello di presidente del Working Group for Cardiovascular Surgery della Società Europea di Cardiologia; di referente per l’Europa dell’American Heart Association (l’associazione americana più grande in ambito di cardiologia). Attualmente sono il Presidente della Mitral Research Network, un’organizzazione di ricerca della Heart Valve Society. Sono stato anche “visting professor”, sia in Inghilterra sia nel centro in cui il professor Barnard fece il primo trapianto di cuore in Sudafrica. Ho poi avuto un ruolo importante nelle liee guida (Società Europea di Cardiologia e Cardiochirurgia) sulle valvulopatie nelle ultime tre edizioni.

d - Lei è dunque un Lucano, un vero luminare, che si è affermato a livello nazionale e internazionale; eppure una volta al mese, o giù di lì, torna qui a Potenza per fare le visite al centro Kos. A occhio e croce, uno come lei non ne avrebbe bisogno.

r - Dipende dal modo col quale si intende questo lavoro. Ha ragione, se guardiamo all’aspetto economico, non ne ho bisogno. L’esigenza è nata però dal fatto che, ormai molti anni fa, ricevevo tantissime richieste di informazioni, contatti etc. Ma questi pazienti non potevo visitarli, e dunque o dovevo invitarli a Milano o dovevo limitarmi a consultare la loro documentazione a distanza. Tutto ciò non mi rendeva sereno, ovviamente, e pertanto questa scelta di venire a Potenza periodicamente, concentrando un certo numero di visite, mi consente di offrire un servizio che posso reputare davvero utile a chi lo desidera.

d - Fra i numerosi premi ricevuti, non manca quello di “Lucano Eccellente”. Qual è stato per lei, se c’è stato, il valore aggiunto nell’essere un Lucano?

r - (Sorride). C’è stato, eccome. La parte lucana che ritrovo dentro di me è soprattutto legata ai valori che ho ricevuto e che –perlomeno alcuni- si ricevono per “osmosi”. Mi riferisco al basso profilo, all’umiltà dei miei genitori e delle persone che mi hanno circondato; le amicizie che ho vissuto; la semplicità dei rapporti; il capire, fin da subito, che le cose bisogna conquistarsele, e che non si vive di rendita, bensì di sacrificio e lavoro. Voglio dire anche altro: la Lucania è Colore, la Lucania è Luce. E’ ciò che faccio notare ai miei figli (che amano tornare); qui il verde è più verde, il blu è più blu. Contavo con mia figlia, l’altro giorno, i paesi del mondo in cui sono stato per lavoro: ventidue. Nelle grandi città i colori sono sempre offuscati. E poi, vogliamo parlare dei sapori? Della genuinità? Della bassa densità della popolazione, anch’essa un valore? Della vita che ha un ritmo diverso? A tutto ciò bisognerebbe associare –e sta succedendo, succederà- tanta, tanta professionalità, servizi, risposte.

d - Ecco, cosa invece NON le piace della Basilicata, quando ci torna?

r - Le dico una cosa, con dispiacere, che qui mi capita da anni: se un paziente ha prenotato una visita, e poi non ci viene, non disdice. Non chiama per disdire. E se lo si chiama, perché non sta venendo, non risponde. E’ il segnale di un fatto: noi tutti dobbiamo fare anche un po’di autocritica, invece di esprimere solo lamentele. Dobbiamo riflettere di più sul nostro senso civico. Al San Raffaele, se un paziente non viene, sistematicamente chiama e disdice, e il suo posto viene preso da un altro.

d - Lei ha fatto parte dell’equipe chirurgica che nel 2016 ha operato Berlusconi, che immagino circondato da tutto un “entoruage”, invasivo o meno. Quando si ha “sotto i ferri” un personaggio del genere, si avverte una certa pressione, rispetto alle situazioni più ordinarie?

r - Se devo dare una risposta sincera, come fatto finora, dico “senz’altro”. La pressione –e anche un po’ di legittima ansia- si avverte, anche per la presenza di telecamere e giornalisti. In sala operatoria però bisogna concentrarsi su quello che si fa, “ricordando” la storia del paziente (che comunque si è incontrato prima). Portiamo in sala operatoria parte della sua famiglia, le preoccupazioni di coloro che stanno con lui, ma in quella sede c’è un “campo” in cui si è molto tecnici e persino “freddi”, per fare le cose per bene. Come per tutti i pazienti, si voleva andasse tutto bene. Ciò è avvenuto, e, sì, abbiamo tirato tutti un sospiro di sollievo.

d - Il libro che la rappresenta?

r - Non so se mi rappresenta, ma il testo che continua a essere sul mio comodino (e così sarà per sempre) è un’opera che in pochi conoscono. E’ un libricino piccolo così, apparteneva a un mio zio sacerdote che è stato missionario per diciotto anni sul Mato Grosso: “L’imitazione di Cristo”. E’ di un anonimo, probabilmente di ambiente monastico. Riempie il cuore di bene. Per lo stesso motivo, continuo a leggere e rileggere un’opera, in dieci volumi (cinquemila pagine), di Maria Valtorta, “L’Evangelo come mi è stato rivelato”.

d - Il film?

r - Ce ne sono tanti. Potrei dirle “La Leggenda del pianista sull’oceano” di Tornatore, “Il pianista” di Polanski, ma anche “Interstellar” di Nolan. Cerco quei film che mi lasciano dentro delle emozioni.

d - La canzone?

r - Direi “Making movies” dei Dire Straits, così come “Tunnel of Love”. Ricordo benissimo quando uscì il loro album “Love over Gold”: avevo vinto una borsa di studio per andare negli Usa, bandita dalla Regione Basilicata (“Intercultura”). Il disco fu la colonna sonora di quei sei mesi americani.

d - Mettiamo che fra cent’anni, qui in Basilicata, scoprono una targa a suo nome: cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

r - Credo sia una fase di San Paolo: “Ha concluso la sua battaglia, ha conservato la Fede”.

 

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di Walter De Stradis

 

 

A Potenza, lui, Michele “Lello” De Novellis, settantaduenne con voce pacata e leggera inflessione partenopea, e la sua famiglia, in quanto gestori dello storico bar, sono molto conosciuti. Tuttavia in pochi, ci dice, conoscono il loro cognome. Per tutti, e da ottant’anni, sono “quelli della Stazione”.

D - Come giustifica la sua esistenza?

R - Nel Dopoguerra mio padre si trovò a dover gestire brevemente il bar della Stazione (oggi Centrale). Doveva essere una cosa di una ventina di giorni, ma poi è durata ottant’anni.

D - Quali sono i suoi primi ricordi del bar della stazione di Potenza?

R - All’epoca la Stazione era un terminal di trasporto, con la funzione di accogliere -cinquanta chilometri a sud e cinquanta chilometri a nord- tutti i paesini limitrofi. E poi sul piazzale c’era lo stazionamento dei pullman, che raggiungevano quei comuni non provvisti di fermata ferroviaria. Questo trasbordo continuo rendeva la Stazione molto accorsata e popolata. L’unica cosa che oggi resiste, insieme a noi, è il barbiere: tutti gli altri sono andati via, perché economicamente non ce l’hanno fatta.

D - Gli altri sarebbero?

R - La storica edicola, una biglietteria a largo raggio...una rimessa di noleggio.

D - Perché non ce l’hanno fatta? Per la crisi economica o magari perché la zona è stata tagliata fuori?

R - E’ stata tagliata fuori da quel vecchio progetto di viadotto che doveva collegare la zona della Stazione con la superstrada. Un pezzetto ne è rimasto davanti all’Anas, ma tutta quell’operazione si è rivelata essere opportuna per la costruzione delle cosiddette “due torri”, abitazioni civili che sono di fronte. Ne consegue che però è stata del tutto “tagliata” la vecchia scorciatoia, che -asfaltata e rimessa posto- collegava la Stazione, viale Marconi con il Rione Francioso. E dava un “circuito” alla viabilità. “Tagliata” quella, la Stazione è rimasta strada...chiusa. Immagino che anche i vostri, di affari, siano calati. Siamo a un terzo di quello che era prima il movimento, perlomeno rispetto agli anni Novanta.

D - Non avete mai fatto presente questa situazione a chi di dovere?

R - (Scuote la testa) Mi ricordo una citazione, sentita in Stazione, anche se non so a chi attribuirla: “Gente di Basilicata avvezza, da sempre, a gratuite riverenze”. Questa cosa un po’ è rimasta a tutti: quando si tratta di rivendicare qualcosa, ci sembra sempre di essere, non so, presuntuosi.

D - Quindi per “pudore” lei non ha mai detto niente.

R - Sì, per “pudore”. Mi piace questa parola.

D - Oggi però ci sono più famiglie che dipendono dal vostro bar.

R - Senza esagerare, diciamo che sono tre.

D - E se dovesse provare a chiedere una cosa, attraverso questo giornale...?

R - Per parlare di una cosa possibile, partirei dalla scala mobile, o meglio, di una frazione della scala mobile. Quel piazzaletto pedonale costruitovi davanti è sicuramente, dal punto di vista architettonico, eccellente. Uno dei fautori, un architetto, è un mio amico. Impostato in spazi quattro volte più ampi, era assolutamente ben collocato, ma oggi, quello spazio che è stato preso dal giardinetto pedonale ha praticamente “annullato” il piazzale della Stazione (che è già chiuso verso il Francioso ed è privo di sbocchi). Una volta, nel piazzale, trovavano spazio vitale per il movimento anche i pullman, che potevano fare inversione, mentre adesso si è tramutato in una strada, il che rende tutto molto più complicato.

D - E quindi lei cosa chiederebbe?

R - Di ridurre quello spazio lì davanti.

D - Però presto dovrebbero partire i lavori di riqualificazione della Stazione, per gentile concessione dei fondi Pnrr.

R - Sì, per sentito dire, quest’opera di restyling atterrà più che altro all’interno della Stazione. In pratica, il camminamento per accedere ai servizi (bar, tabaccaio, biglietteria), comporterà una specie di riapertura di quell’arco che adesso, nel mio esercizio, è murato. Verrà aperto un tantino più a lato, con dimensioni più grandi, dando una visione più frontale, sino alla biglietteria. I lavori risolveranno anche quei piccoli problemi di barriere architettoniche, rappresentati ad esempio dai gradini (che sul lato binari sono molto evidenti). Lei è la memoria storica della Stazione: qualcuno vi ha chiesto dei consigli in merito? Beh, sì, i massimi esponenti del restyling si sono a lungo fermati a colloquiare con noi. Credo che il tutto dovrebbe partire a fine aprile, penso in coincidenza della chiusura per lavori della tratte per Foggia e Taranto-Napoli. Ma è sempre un sentito dire.

D - In ottant’anni di gestione familiare, ha un ricordo, di un fatto o di una persona, che l’ha segnata particolarmente?

R - Non si tratta di un solo fatto o di una sola persona. Prima esisteva un vero e proprio “Rione Stazione”, con le abitazioni di un gran numero di addetti (e famiglie) delle Ferrovie. C’era una gran bella vita sociale. Il passaggio continuo di gente che andava avanti e dietro dai paesi creava una rete di conoscenze e di “piccola solidarietà”.

D - La famosa “solidarietà di vicinato” che si racconta esistesse in Centro... ...c’era anche alla Stazione.

R - Quando ancora non erano ancora obbligatorie le cassette del pronto soccorso, nei cassetti del nostro banco c’erra sempre almeno un cerotto, dello iodio, del disinfettante, alcool denaturato, cachet per il mal di testa. C’erano, perché servivano spesso ai viaggiatori, dopo lunghi tragitti in treno. Tutto iniziò a finire quando mi fu intimato -dal medico del posto di infermeria appena istituito in Stazione- di non concedere nulla a nessuno, perché era reato. Quel posto di infermeria durò solo sei mesi, ma a noi rimase la paura di fornire quegli aiuti (di ordinaria amministrazione) e da quel momento venne un po’ meno quell’ “input emotivo”, su tutte le cose.

D - Lei è ancora oggi testimone delle differenti dinamiche del via-vai alla Stazione. Cosa ci racconta, tutto ciò, della Basilicata di oggi?

R - Di ragazzi che partono in realtà ne vedo pochi, poiché autobus e pullman privati, con orari e velocità più “spicci”, hanno praticamente assorbito il 90% dei movimenti. Senza tema di smentite, chi oggi usa il treno (o i sostitutivi) vi è costretto dagli orari di lavoro, che non gli consentono altro. E arrivano sempre un po’ scoraggiati, scoraggiati dalle lungaggini dei tempi di percorrenza. Si tratta più che altro di qualche professore del Conservatorio, di qualche impiegato di concetto che si intrattiene una decina di minuti e -senza voler apparire presuntuoso- magari ci ringrazia pure per l’esistenza di questa “isoletta”, di questa “oasi”, in questo squallore, in questo deserto.

D - Speriamo allora che campi a lungo il bar della Stazione.

R - Questa speranza ci ha sempre accompagnati. Vede, per noi quel posto è stato via via la culla, il parco giochi, la via Pal, il luogo ove si tornava al tramonto, dopo le escursioni in viale Trieste e in via Pretoria (che per noi della Stazione erano zone lontane e ambite). Noi qui ci abitavamo. Intorno c’era tutto verde, la collinetta. Qui ci ho trascorso la vita, dunque, e quindi oggi ti ritrovi a considerare il profitto in seconda posizione, rispetto ai ricordi.

D - La vostra, lo dico io, a conti fatti è anche una piccola “missione”, quella di mantenere vivo quel presidio di socialità.

R - Io non posso dirlo.

D - Cosa, di quel passato che ha descritto, si può realmente recuperare?

R - Torno a dire che ridurre l’ “anti-scala mobile” ridarebbe un pochino di agio alla “rotabilità” della piazza. Molti con le auto non ci vengono, perché è un imbuto. E poi, naturalmente, i treni regionali -oggi sacrificati sull’altare degli autobus, che sono dislocati dalla Stazione sono la vocazione della Stazione stessa, non certo le lunghe percorrenze, che ci sfiorano e vanno via.

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

Il poeta, scrittore, cantautore e anche pittore rionerese Vito “Vitus” Viglioglia, è -a pelle- una persona spirituale, un individuo, cioè, connesso con le “antenne” sempre accese (per chi sa a ascoltare) dell’universo umano e non.

Libri, dischi (in solitaria o con la sua band attuale, i Meteopanik), “sono-poesie” e un’infinità di altre produzioni, lo rendono -e non è un mistero per nessuno- uno degli artisti più vividi e originali della nostra Terra... Con tanto di “beneplacito”, a suo tempo, di Antonio Infantino. E chi si intende di musica sa che non è certo cosa da poco.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r- Io non giustifico la mia esistenza. E’ esattamente il contrario. E dubito anche dell’esistenza stessa. Nella vita ho provato delle emozioni e delle esperienze tali, che a volte mi fanno dubitare persino del fatto che possiamo esistere.

d - La vita è illusione?

r- Mi viene in mente una bella frase di Pessoa: “Lontano da me, in me esisto”.

d - In questa (non)esistenza, è l’arte ad aver scelto lei o viceversa?

r- Quando parliamo di esistenzialismo -no?- è come se mettessimo una prerogativa alla vita, alla libertà, all’amore, ai sentimenti. E’ un po’ come se la categorizzassimo. Prima, scherzando a microfoni spenti, lei mi ha detto: chi fa troppe cose, è capace che non ne faccia bene una. (Risate).

d - Scrittore, poeta, cantante, pittore...

r- Banalmente le rispondo che è un’esigenza, la mia, quella di suonare, di dovermi esprimere, perché credo che ogni essere umano, al di fuori della quotidianità, ha bisogno di elementi che gli consentano di esprimere completamente se stesso. Allora questo può avvenire attraverso una ricerca sperimentale della propria esistenza, e nella forma pratica dell’arte: pittura, musica, scrittura.

d - C’è forse un grido esistenziale che Vitus cerca di far arrivare al prossimo?

r- Può essere un grido, così come un canto, può essere un piano o un forte. La voglia è però quella di comunicare ciò che di vero e importante c’è nella mia vita: le relazioni, ciò che provo e che sento. E questo è abbastanza per farmi sentire vivo.

d - Non sarò così ingenuo da chiederle se è nato prima il cantante o il poeta.

r- Il primo brano che ho cantato in pubblico è stato “Starway to Heaven”, al centro sociale “Pasquale Sacco” di Rionero. C’era una manifestazione ed ero coi miei amici Antonio Sernia, Michele Consiglio, Pina Cammarota. Ero emozionatissimo.

d - C’è stato poi un fatto, o una persona, che l’ha convinta a continuare su questa strada?

r- E’ stato molto semplice, perché frequentavo tutte persone che suonavano e c’era un bel fermento. Maurizio Di Lucchio, per esempio, mi fece conoscere “Dylan Dog”, il fumetto: Antonio e altri amici mi fecero vedere la prima Fender Squier nera. Mi innamorai subito. Devo anche ringraziare molto Antonio Savella, un caro amico del mio babbo, che mi addentrò nel mondo del jazz e della musica classica. Nella mia infanzia, dunque, vedevo questi universi nuovi che si aprivano.

d - Lei infatti, oltre che tra varie forme artistiche, spazia anche fra vari generi musicali: rock, jazz, le “sono-poesie”...anche se c’è chi dice che le poesie non vanno musicate.

r- Anche, sì, beh, ognuno la pensa come vuole, non sono uno di quelli che emette veti su certe cose. Non mi piace nemmeno la competizione nell’arte. Mi piace vivere il mio mistero nella maniera più libera. “A ciascuno il suo” diceva Sciascia.

d - Per queste poesie in musica lei collabora, anche, con Graziano Accinni, storico chitarrista di Mango. Qual è il suo pensiero su Angelina, fresca vincitrice del Festival?

r- Credo sia una bellissima persona e una bravissima ragazza. Mi dà l’impressione di una persona limpida, che sa vivere i sentimenti. Al di là del talento, del successo e dell’essere figlia d’arte, il lo vedo nei suoi occhi. Quando ha cantato “La rondine” io mi sono emozionato tantissimo. E solo chi porta dentro di sé l’amore, la verità, la bellezza, può comunicare queste cose.

d - La domanda che rivolgo a tutti gli artisti lucani: quali sono le difficoltà nel proporre un proprio percorso qui in Basilicata?

r- Se penso alla carriera artistica come obiettivo per arrivare da qualche parte, dal punto di vista del marketing, ritengo che qui da noi ci siano dei limiti, perché l’industria discografica è completamente assente. Però, attenzione, l’arte, nelle sue fondamenta, si nutre anche di ciò che ci circonda, e la Basilicata, paesaggisticamente, umanamente, è bellissima. Quindi io mi nutro della mia terra, dono alla mia terra e questa a sua volta mi dà, perché parliamo di arte, che come tale, è pura. La mia terra è la MIA ispirazione.

d - Quindi tutto bene?

r- Per me ogni luogo che sa regalare ispirazione, anche con le sue contraddizioni -che ci sono- è bene.

d - Col gruppo di cui lei fa parte, i Meteopanik (in cui militano anche Vito Di Lorenzo, Peppe Di Tolla e Gianluigi Santoro e Antonio Verbicaro), è stato anche lei a Sanremo.

r- Sì a “Sanremo Rock” che appunto è la declinazione “rock” di Sanremo. E noi, con i riff di Vito Di Lorenzo, non possiamo non definirci una “rock band”. “Kinapoetem”, il contrario di “Meteopanik” è invece il nostro progetto acustico. Sì, siamo stati a Sanremo e -che glielo dico a fare- è un luogo magico.

d - Sì, ma so che vi siete dovuti confrontare con una realtà che ha le sue regole, diciamo così.

r- Sì, più che le sue regole, a volte sembra avere le sue ingiustizie. Tocca parlare dell’ovvio, in un Paese come questo. Noi vi partecipammo da indipendenti, ma vinse un artista, Nevruz, sostenuto da Elio e Le Storie Tese. Noi non eravamo sostenuti da nulla, se non da noi stessi...e dal Creatore. Per noi dunque è stato un po’ più difficile, però ci siamo tolti lo stesso delle grandi soddisfazioni: alla fine della nostra esibizione, Matt Backer, chitarrista di fama mondiale (Elton John), che era in giuria, mi disse questa cosa, col suo accento anglosassone: «Questo ragazzo è il figlio di Chris Cornell e Yoko Ono». In quel posto si era creata un’energia incredibile, un trasporto straordinario, quel Teatro ha una sua anima!

d - Come artista e uomo, cos’è che in Basilicata la fa indignare?

r- A volte la miseria umana è un’indignazione per me stesso e per gli altri. E’ un sentimento universale, è la radice del male che può nascondersi ovunque. Ma non è un problema della Basilicata, bensì dell’essere umano. A mio avviso, in questa vita, noi siamo tenuti a sperimentare continuamente i nostri limiti e a migliorarci continuamente in ogni momento. C’è sempre la possibilità di migliorarsi, di fare esperienza e di redimersi, dai peccati e dalle brutture che a volte circondano la nostra vita. Vorrei dunque una Basilicata, e un mondo intero, più solidale, più fraterno. Una Basilicata, più allegra, più positivamente orgogliosa di quello che ha.

d - I suoi progetti imminenti?

r- Con i Metepoanik siamo in fase di composizione del nuovo disco. Poi c’è un progetto con Graziano Accinni, col quale musicheremo delle preghiere. Inizialmente mi propose di cantare i testi che mi aveva mandato, in dialetto moliternese (“‘U Bambinieddu”), ma poiché ho avuto qualche difficoltà, ho scritto delle preghiere in Italiano e le sto musicando. E’ un percorso spirituale, oltre che artistico.

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di Walter De Stradis

 

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a sezione di Potenza dell’Associazione Italiana Donne Medico è nata sei anni fa (a Matera è attiva da undici, con una prima presidenza della dottoressa Titti Laurentaci). Il nostro è un gruppo di ventitré medici, tutte donne, con diverse specialità. Vorremmo inserire anche uomini, per la verità, come uditori e collaboratori per i vari congressi, incontri, webinar che ci apprestiamo a organizzare».

Elena Carovigno, ginecologa dalla voce gentile e i modi particolarmente garbati, è una donna assai appassionata, interprete di un lavoro nobile, che lei ha deciso di vivere in maniera il più possibile intensa, completa (anche dal punto di vista sociale)... e soprattutto libera, come vedremo.

d - Su cosa si concentra la sua attività e per quali necessità è nata l’associazione?

r - L’Associazione Italiana Donne Medico, che di per sé è una società scientifica, è nata più di cento anni fa. In tutta Italia le iscritte sono più di duemila e la nostra presidente nazionale è la dottoressa Vezzani. Ci occupiamo di prevenzione, pediatria, oncologia... ma la “mission” è principalmente quella di informare/formare il personale sanitario e i medici circa la “medicina di genere”. Direi che l’intento in realtà è rivolto a tutta la cittadinanza perché, purtroppo, si sente parlare di questo tema, ma non si sa bene cosa sia.

d - Ottima occasione per spiegarlo.

r - La medicina di genere è nata nel 1991, con la pubblicazione di un editoriale di Bernanrdine Healy, una famosa cardiologa americana, nel quale evidenziava il diverso trattamento medico riservato alle donne con patologie coronariche. In quella sede evidenziò che le donne arrivavano a una diagnosi di patologia coronarica con ritardo, perché non veniva prestata molta attenzione nei loro riguardi.

d - Perché, c’era forse la convinzione diffusa che l’infarto fosse un evento prettamente maschile? O di mezzo c’era una questione “di genere” più complessa?

r - Innanzitutto va detto che sia gli uomini sia le donne possono avere la stessa sintomatologia; ma le donne possono manifestare anche epigastralgia, dolore a livello dorsale, nausea. E così capita che queste vadano in pronto soccorso e vengano curate semplicemente per epigasltralgia, e mandate a casa. Ma poi, ovviamente, in preda a dolori sempre più gravi, quelle donne al pronto soccorso ci ritornano e quindi, finalmente, dal tracciato risultano le alterazioni tipiche dell’infarto. E’ una questione, dunque, di conoscenza. Però va anche detto anche che, fortunatamente, in questi ultimi anni i colleghi si sono dimostrati sempre più bravi nell’individuare le patologie cardiache nelle donne che si presentano in pronto soccorso con sintomi atipici dell’infarto.

d - Immagino che la medicina di genere vada anche oltre le patologie cardiache.

r - E’ associata a tutte le branche della medicina. Ed è importante che nei corsi di laurea e in quelli delle varie professioni sanitarie, i docenti parlino anche di medicina di genere. Personalmente lo faccio, nei corsi di laurea triennali che tengo alla Cattolica.

d - La vostra associazione collabora anche con le altre realtà locali riferibili al mondo femminile, rivestendosi anche di un ruolo sociale.

r - Ci occupiamo anche di violenza: le donne che l’hanno subita spesso manifestano patologie che non sono conosciute o che perdurano per lungo tempo, richiedendo un approccio multidisciplinare.

d - Parliamo di patologie principalmente a livello psicologico o...

r -...no, anche ginecologico: varie problematiche derivanti dalle violenze subite.

d - Si ritiene falsamente che la nostra città sia un’isola felice, e di conseguenza spesso si è portati a pensare che da noi certe cose non accadano, se non in maniera residuale rispetto ad altrove. Invece il problema c’è.

r - Sì. Di recente abbiamo collaborato con la dottoressa Perretti, con la dottoressa Bonito e abbiamo organizzato diversi webinar e congressi ai quali hanno preso parte e collaborato non solo le nostre socie, ma anche illustri personaggi, persino al di fuori della professione medica (come il professor Giovanni Gasparini al nostro convegno d’esordio o -al regionale del 2021- il nuotatore Domenico Acerenza, il cestista Aristide Landi o la schermitrice Francesca Palumbo). Stiamo lavorando insieme a tutte le altre associazioni per formare e informare cittadinanza e medici circa il problema.

d - A proposito di cittadinanza...avete una sede?

r - (Sorride) Al momento è nel mio studio, per questioni economiche, non avendo un gran numero di iscritti.

d - Ma al Comune l’avete chiesta?

r - No. L’associazione è nata anche per essere un’oasi felice, ove, tutte quante noi, possiamo decidere, scegliere, circa i convegni etc.

d - Insomma, non volete dover dire troppi “grazie” ed essere il più possibile libere.

r - Esatto (sorride).

d - Quindi al sindaco, per esempio, non si sente di chiedere alcunché?

r - No, nulla.

d - Quando ha iniziato lei, è stato difficile per una donna pensare di fare il medico in Basilicata? Qui da noi ci sono eguali opportunità per entrambi i sessi? Adesso abbiamo anche la Facoltà di Medicina...

r - Adesso infatti è un po’ più facile, non a caso il 70% degli studenti di Medicina è composto da donne. Ai miei tempi non era così. Le racconto un solo aneddoto: il mio professore alla scuola di specializzazione non amava molto le donne. E purtroppo, su dieci specializzandi, eravamo in sette. Ma lui, in sala operatoria preferiva lo stesso i colleghi di sesso maschile, per puro pregiudizio, e tenga conto che una delle mie colleghe era un chirurgo eccezionale.

d - Mi auguro che quella collega abbia ugualmente avuto una brillante carriera da chirurgo.

r - No. Purtroppo no.

d - Quindi il “danno” c’è stato.

r - Eh sì.

d - Oggi però -diceva- le cose vanno meglio.

r - Sì. Spero che altre colleghe decidano di iscriversi alla nostra associazione, perché possiamo fare tante cose. Il 29 novembre scorso, grazie all’aiuto di Inner Wheel, dell’Ande e soprattutto di Giovanna D’Amato, abbiamo organizzato un concerto di solidarietà per le ragazze uscite dalla tratta. E’ stato un grande successo, la chiesa di Sant’Anna era piena, davvero. Il tutto rientra in un progetto più ampio: ogni quindici giorni, teniamo un incontro formativo sulle patologie e sulle questioni che loro ritengono più importanti (gravidanza, fisiatria e pilates etc.).

d - Rimaniamo in ambito delle vittime di violenza e dei danni, fisici e psicologici che subiscono. Oggi, soprattutto tra i giovani, a volte si avverte una percezione alterata della sfera sessuale. Al telegiornale sei sente sempre più spesso parlare delle conseguenze di “rapporti malati”. Si sente, pertanto, di lanciare un messaggio anche agli uomini?

r - Secondo me, innanzitutto, è importante l’educazione in famiglia. Un primo passo in avanti, per fare un esempio banale, potrebbe essere un’equa distribuzione, fra maschietti e femminucce, dei “lavoretti” in casa. A scuola, invece, si potrebbero organizzare corsi di sessuologia. Dovremmo collaborare tutti insieme affinché questi giovani vengano educati onde porre fine a queste violenze.

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