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di Walter De Stradis

 

 

 

 

Pr e s s o c h é

nell’indifferenza

generale, dopo

novantatrè anni

di onorato servizio, chiude

la libreria più antica di

Potenza, la “Paoline” di

via Mazzini. L’unica di

quel "brand" (che cura

prevalentemente, ma non

solo, editoria cattolica)

rimasta in regione. Il 30

giugno prossimo, infatti,

sarà l’ultimo giorno di

lavoro per le gentilissime

Ilaria Calia (che vi lavora

da 29 anni) e Donatella

Lorpino, in un esercizio

che ha quasi un secolo

di vita. Un documento

dell’Istituto "Pia Società

Figlie di S. Paolo" (a capo

delle Edizioni Paoline),

datato 30 marzo 1982,

conferma infatti che –a

seguito di una concessione

del vicario generale mons.

Enrichetti del 1930- la

libreria “Paoline” fu

aperta a Potenza nel 1932

«in fondo al Corso, cioè

vicino a Porta Salsa» e

che «alla fi ne del 1932

la libreria fu trasferita in

via Pretoria». A seguito

del Terremoto dell'80, ci

spiegano le due libraie, la

sede fu spostata (nel 1981)

dal locale sito nei pressi

della chiesa della Trinità

(ove ora insiste una nota

gioielleria) in quello,

divenuto altrettanto

storico, di Via Mazzini.

Dopo il 30 giugno, il

locale in questione,

dal canto suo, sarà

probabilmente venduto,

anche perché le Suore

Paoline, proprietarie,

non sono più presenti nel

capoluogo, avendo ritirato

la comunità di Potenza nel

1991.

Ma come e perché si è

giunti alla chiusura di un

presidio culturale così

importante per la Città?

«Si vende poco, non si

realizza il necessario per

pagare i fornitori e noi

dipendenti»: i motivi

a monte sono vari, ci

spiegano Ilaria e Donatella,

e vanno da ragioni di

carattere generale (la crisi

dell’editoria, specie quella

cattolica, gli acquisti

online che –maggiormente

dopo il Covid- hanno

messo in ginocchio il

commercio al dettaglio),

ad alcuni di rilievo più

propriamente “locale”.

E qui vengono le dolenti

note, perché la chiusura

della libreria più vecchia

di Potenza (decisa dal

Governo della Provincia

Italiana delle Suore

Paoline) è uno degli effetti

d e l l ’ i m p o v e r i m e n t o ,

culturale e non solo, che

ormai da anni stringe in

una morsa, sempre più

tenace, il Capoluogo.

«Tutto ciò accade in una

città che sta morendo,

nell'indifferenza, sotto

tanti punti di vista –

affermano Ilaria e

Donatella- I seminaristi

a Potenza ormai sono

pochi rispetto al passato,

e se prima venivano qui in

libreria settimanalmente,

adesso la maggior parte di

loro (quei pochi) acquista

online. Si aggiunga che

L’Istituto di Scienze

Religiose, altra risorsa

importante per noi, è stato

spostato a Matera. Le

parrocchie? Sono poche

quelle che si fanno vedere

da queste parti».

Nonostante le due librarie

abbiano ampiamente

diffuso a mezzo social

e whatsapp la notizia

(mentre parliamo entra

un cliente che esprime

il proprio rammarico),

Ilaria e Donatella –che

saranno le prime, col

licenziamento, a subire

gli effetti della chiusura finora

non hanno ricevuto

visite né messaggi di

solidarietà da parte delle

istituzioni, tanto laiche

quanto religiose: «Le

suore hanno sicuramente

parlato con la Curia,

ma noi, almeno una

parola dalle istituzioni

(politiche e religiose)

ce l’aspettavamo. Non

accusiamo nessuno,

ci mancherebbe, e ci

rendiamo conto che ci

sono tante priorità, ma

almeno un confronto lo

avremmo gradito». Dal

canto nostro, al momento

di andare in stampa, non

abbiamo trovato alcun

tipo di comunicato (né

da parte del Comune,

né da parte della Curia),

relativo alla chiusura della

storica libreria. Ilaria e

Donatella ci tengono però

a ringraziare sentitamente,

col cuore cioè, tutti coloro

che hanno sostenuto la

libreria in questi anni.

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«M

i definisco una “suonatrice di arte”, perché vengo dallo studio accademico e quindi dalla tradizione classica; tuttavia, a un certo punto, ho intrapreso lo studio della tradizione dei "musicanti girovaghi", sia dal punto di vista puramente musicale sia soprattutto antropologico. Da quel momento c’è stata una svolta totale nel mio approccio alla musica e all’arte in generale».

Si definisce una “outsider”, l’arpista e cantante Daniela Ippolito, quarantaduenne nativa di San Mauro forte (Mt), che è stata anche una pupilla prediletta di Antonio Infantino, forse per la sua capacità di intonare i canti tradizionali con una voce a tratti davvero “contadina”. Ma sulle corde della sua arpa “viggianese” (procuratevi il cd “Disincantati incanti”, del 2021) persino il rock e il blues sono di casa.

d - Daniela, spendiamo due parole su questi “musicanti girovaghi”, ricordo in merito un bel testo di Graziano Accinni.

r - Questa tradizione -soprattutto tra Sette e Ottocento- ha caratterizzato inizialmente Viggiano, ma poi anche altri paesi della Val d’Agri e della Val Saurina. Non a caso si parla di suonatori di “arpe viggianesi” che hanno intrapreso viaggi “temporanei” alla volta del mondo, e non esagero. Ciò che li caratterizzava era il fatto di svolgere d’estate altri lavori (in particolare erano contadini), per poi d’inverno spostarsi, all’inizio soltanto alla volta di Napoli, e poi anche verso Parigi, a Londra, addirittura ci sono tracce in Russia e negli Stati Uniti d’America. E questo in un’epoca in cui anche spostarsi da una contrada all’altra era problematico. Le loro arpe “viggianesi” erano un po’ più leggere rispetto anche a quelle celtiche, ma era peculiare che loro le portassero a spalla.

d - Lei tuttavia è della provincia di Matera...

r - Già, ho conosciuto questo strumento quando ero in collegio a Matera e studiavo in conservatorio; circolava un cd (frutto delle ricerche del professor Pino Gala) con della musica “superstite” di questa tradizione (che in realtà alcuni davano per estinta già ai tempi della Prima guerra mondiale). E mi prendevano in giro perché io studiavo musica classica, con tanto di spartito. Pertanto sembrava quasi una sfida, il fatto di doverla suonare a orecchio, questa musica, ma poi col tempo è diventata la “mia” musica.

d - La sua musica è condita anche di altri generi, molto diversi. Le è mai capitato che qualche “integralista” le contestasse di suonare con l’arpa persino il rock?

r - Eh sì, è capitato perché ci sono gli integralisti nel mondo classico e ci sono gli integralisti negli altri generi musicali; ma quello che mi ha affascinato della tradizione è proprio il valicare tutti questi confini, non solo geografici, perché la musica evolve in maniera naturale ed è chiaro che se c’è uno scambio -persino anche un contrasto- tra generi musicali o esseri umani, ne nasce sempre qualcosa.

d - Pertanto è probabile che qualche arpista di Viggiano, trovandosi a New York, con l’arpa abbia suonato anche jazz.

r - Secondo me è probabile tutto: non abbiamo testimonianze scritte, però da ciò che si legge -soprattutto dai giornali e interviste coevi al fenomeno- si evince che quei giorvaghi alla fine erano in grado di suonare qualsiasi melodia ascoltassero. Ecco, mi piace credere -forse anche un po’ pretestuosamente- che loro abbiano per certi versi inventato quella che oggi chiamiamo “musica etnica”, o “world music”.

d - Una volta Viggiano e la Val D’Agri erano noti per i musicisti girovaghi, oggi per il petrolio: cos’è successo nel frattempo?

r - Io penso che si tratti del naturale cambiamento degli eventi; alla fin fine, una terra così piccola come la Basililicata sta evolvendo come sta evolvendo il resto del mondo, ci piaccia o meno.

d - I musicisti possono avere un ruolo in tutto questo?

r - Lo chiede alla persona sbagliata, perché io sono una “outsider” per definizione, proprio per il mio modo di approcciare la musica che è estremamente libero e anche “borderline”, mi conceda il termine.

d - Cioè la musica non deve per forza avere un significato, non deve essere per forza una forma di ribellione?

r - Secondo me, fare il musicista di professione -oggi come oggi- in una regione come la Basilicata, piena di associazioni senza scopo di lucro, è già una forma di ribellione.

d - Cosa vuol dire essere musicista professionista qui da noi?

r - Vuol dire combattere con la propria autonomia stilistica di pensiero e anche con il proprio esempio di vita, nel bene e nel male.

d - Le istituzioni aiutano i musicisti locali o il musicista non deve avere bisogno della politica?

r - Io penso che non debba avere bisogno della politica, credo che questo status di professionista lo si possa ottenere lavorando in autonomia, appunto con una partita IVA. Tutto il resto mi pare soprattutto un modo per non considerare come un lavoro quello del musicista. E, chiaramente, venendo io da quella tradizione in cui comunque la figura del “musicante” non era inquadrabile dal punto di vista giuridico, mentre di fatto rappresentava una forma di sostentamento, mi sento più vicina a quel mondo che a quello attuale.

d - Ma si riesce a vivere di musica in Basilicata?

r - Sì, se si riesce a guardare non solo alla Basilicata, ma anche a quello che offre il mondo. Rispetto ad altre regioni, diciamo che noto delle differenze nei meccanismi di ingaggio, perché quando mando un progetto fuori dalla Basilicata, la prima cosa che mi chiedono è se sono “in regola”, invece qui tutto passa un po’ ...così (sorride).

d - Il pubblico nostrano ama la tradizione solo alle feste e d’estate?

r - Nel pubblico lucano -pur proponendo degli spettacoli abbastanza “estremi” (arpa e voce "a nudo" non sono di facilissimo ascolto)- comunque noto che c’è tanto affetto e anche tanta voglia di conoscere ciò che fa parte delle origini, e c’è anche una sorta di orgoglio quando vengono recuperati canti antichi, e da questo punto di vista ho avuto sempre riscontri positivi qui in Basilicata.

d - In che maniera si è documentata sulla tradizione?

r - Come tutti, attraverso ricerche precedenti alle mie, tuttavia per quanto riguarda il canto tradizionale, non mi sono documentata, sono nata in un contesto, quindi per me è stato estremamente naturale riprendere quello che ascoltavo da bambina e che continuo ad ascoltare oggi in giro per le colline. Allora le mie vicine di casa cantavano a San Mauro, così come si cantava nelle cantine durante le feste, durante le processioni e da lì insomma è iniziata la passione per il canto.

d - In che misura oggi questa cosa esiste ancora, per esempio a San Mauro?

r - A San Mauro rischiava di sparire perché non c’era più la processione del Venerdì santo e neanche quella del Sabato santo, in cui era tradizione appunto cantare, però negli ultimi anni c’è stata una sorta di “presa di coscienza”, soprattutto da parte di quei pochi giovani, e si è ripreso a cantare anche alcuni temi tradizionali. Però ci sono anche dei paesi in cui fino a pochi anni fa si è continuato a cantare con i cori, tipo a Oliveto Lucano, ove c’era una tradizione di canti devozionali in dialetto magnifica, e alcune cose sono riuscita a recuperarle. Ci sono dei canti meravigliosi, commoventi, addirittura un rosario, un canto di devozione a Sant’Antonio, a San Cipriano...

d - Ecco, siamo giunti al punto. Tutto questo ricchissimo e variegato patrimonio lucano (che altrove ci invidiano) riusciamo -come politica, come associazioni, come artisti, come giornalisti- veramente a preservarlo e a promozionarlo come merita?

r - Io credo che valga molto di più l’iniziativa di ogni singolo suonatore, musicista, cantore, cantante eccetera, perché non si può sempre far conto su “forze esterne”, o dall’alto; bisogna comunque valorizzare quello che si ha e a un certo punto anche senza aspettative. Personalmente, ho notato proprio che quando si sono abbassate le aspettative ho lavorato in maniera molto più serena. Bisogna anche accettare un po’ l’idea che le cose possano cambiare e basta.

d - C’è un canto, una canzone che è sua o che lei esegue nei live, che in qualche modo dovrebbe fungere da colonna sonora di questa intervista?

r - Proprio perché siamo a giugno, mi viene in mente un canto su Sant’Antonio, di Oliveto Lucano. È molto, molto triste e commovente, ma a un certo punto fa emergere la vera pietas, come dire, il vero amore, la vera fede (ne canta alcuni passaggi- ndr). Mi fermerei su questa strofa, con questa donna che vede passare la giustizia, e cioè le forze dell’ordine, ma a un certo punto il figlio le muore. “Perché?” chiede a Sant’Antonio, e questi le dice che a quindici anni sarebbe stato impiccato, quindi, alla fin fine, le ha fatto una grazia. E come si dice, “O c’è grazia o c’è giustizia”.

 

 

 

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GO AND VOTE

Referendums are crucial opportunities for democratic participation, allowing citizens to directly shape the future on issues related to fundamental rights and the direction of Italian society as a whole. These being abrogative referendums, they would require at least 50% plus 1 of the eligible voters to make them work.

On Sunday, June 8, and Monday, June 9, 2025, Italian citizens eligible to vote are called to the polls to express their choice on five abrogative referendums as provided for by Article 75 of the Constitution. The questions, declared admissible by the Constitutional Court concern key issues related to labour and citizenship. The labour referendums seek to restore job reinstatement for workers unfairly dismissed, going beyond the simple financial compensation currently provided. The other question is on reduction from 10 to 5 years of legal residence in Italy required for the non-EU adults to apply for citizenship. This reform would bring Italian citizenship law in line with many European countries, promoting greater social integration for long-term residents. It would also allow faster access to civil and political rights, such as the right to vote, eligibility for public employment, and freedom of movement within the European Union.

This particular referendum has been widely, but mistakenly, confused with earlier debates around ius soli and ius scholae focused on granting citizenship to children born or educated in Italy. In contrast, the current referendum is more narrowly focused: it aims to amend Italy’s 1992 citizenship law by adjusting the timeframe for naturalization and not its foundational principles. We need to remember that in most European and Western democracies, five years of legal residence is the standard requirement for naturalisation. Countries like France, the Netherlands, Belgium, Portugal, the United Kingdom, and Ireland adopt this threshold, often alongside integration requirements such as language proficiency and civic knowledge.

As of today, Italy has one of the lowest rates of naturalisation among the long-term foreign-born residents. Comparative estimates show that only 35 percent of immigrants with 20 to 24 years of residence in Italy have acquired citizenship, compared to the EU average of approximately 53 percent. Academic literature shows that access to citizenship has positive casual effects. Immigrants who naturalise and become citizens experience lower unemployment rates, earn higher income, they are less likely to be overqualified for their jobs and experience a stronger sense of belonging, which in turn encourages active participation in the labour market. These ‘’new’’ citizens are less into criminal practices mainly for the sense of belonging and the pride of being integrated. The last Eurobarometer on the integration of immigrants, reports that 87% of Italians believe that acquiring Italian citizenship is an important factor for the successful integration of immigrants in Italy. We only hope that a high number of that 87% would go to the polls on Sunday and Monday to give a sense of purpose to their expressed opinion.

Considering some of the advantages of being citizens; such as faster integration, reduction of crimes and delinquencies, this call for votes should be totally out of the usual debate between the right and the left-wing parties in the country’s polarised political environment of today. There ought not be any tactic urging people to abstain in order to invalidate the vote, for if the referendum succeeds in meeting the turnout threshold, it would mark a significant victory for efforts to modernise Italy’s citizenship legislation to the advantage of the whole country irrespective of the political creed.

Pura Vida

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

Quest’anno, in tema di festeggiamenti del santo Patrono (e di relativa Parata dei Turchi) ci saranno pure state diverse polemiche sul personaggio di “Civuddina” (o meglio, su chi doveva interpretarlo), ma –da otto anni- il volto di “Sarachella” (o “Sarachedda”) è indiscutibilmente quello di Valentino Dapoto, classe 1975, di professione panettiere, attore vernacolare per passione. Sarà infatti ancora lui, con l’inconfondibile coppola da commedia dell’arte di casa nostra, a cavalcare la “Iaccara” (condotta dai “Portatori” della stessa), il 29 maggio prossimo, nei panni della maschera ufficiale della Città di Potenza. E scusate se è poco.

d - Valentino, per chi non lo sapesse, chi era Sarachella?

r - Un giovane molto giocoso della Potenza di una volta, sempre con la battuta pronta. Uno che non la mandava mai a dire, ma il lavoro non faceva per lui. Di conseguenza, mangiava poco, quando poteva. Il nome “Sarachella” deriva dal fatto che mangiava sempre le “sarache”, le alici. E le portava sempre con sé. Un personaggio mitico.

d - Mitico, sì, perché fin qui abbiamo parlato delle ricostruzioni che hanno fatto scrittori e studiosi (in primis Lucio Tufano), sul personaggio reale che ha ispirato la maschera popolare.

r - Sì, infatti.

d - Lei da quanto tempo lo interpreta e perché?

r - Sono “Sarachella” da sette7otto anni. Tutto iniziò perché Tonino Centola (che quell’anno curava l’edizione della Parata), mi aveva visto a teatro (faccio parte della compagnia dialettale di Gigino La Bella) e -forse perché gli ero piaciuto- mi propose di fare il personaggio. Io accettai subito.

d - Anche se, a microfoni spenti, mi diceva che lei all’epoca non sapeva chi fosse Sarachella.

r - Infatti. Non lo sapevo, Poi, chiaramente, mi hanno spiegato tutto. E poi, man mano che lo interpreti…

d - …un po’ ci diventi.

r - Sì! Infatti, per strada, molti non mi chiamano Valentino, ma mi salutano con un “Uè, Sarachè!”. A Carnevale molti bambini si vestono da Sarachella, essendo diventata la maschera ufficiale di Potenza, e quando mi incontrano, mi riconoscono e vogliono farmi partecipe di questa cosa. E ti fa sentire orgoglioso di quel che stai facendo.

d - La sua vita un po’ è cambiata.

r - Ma sì, sinceramente sì. Oramai mi identificano con il personaggio. Mi fa piacere. E poi lo faccio per la mia Città; è bello far parte di una manifestazione che si aspetta per tutto l’anno.

d - Come funziona l’operazione “iaccara”?

r - La “iaccara” è un cero votivo, un fascio di canne che si porta a spalla. Io, durante la Parata, ci sto sopra (cosa non facilissima), mentre viene condotta dai “Portatori della Iaccara”. Io li sfotto un po’, ma so che fanno una fatica enorme: è lunga all’incirca dodici metri e pesa circa dieci quintali. La preparazione inizia a gennaio/febbraio, con la raccolta delle canne (di solito ci chiamano gli amici e ci dicono di andare nei loro campi) e la pulitura. Poi man mano si costruisce.

d - Con l’Associazione i “Portatori della Iaccara” quest’anno avete deciso di organizzare molti eventi nella piazza della Torre Guevara. Ci saranno mostre e altre iniziative.

r - E’ stata una scelta azzeccatissima, perché si tratta di ridare valore al Centro della città, avvalendosi di una risorsa che è stata “liberata” e che è giusto utilizzare. In questo modo si allunga tutto il tragitto della festa, fino alla Torre. La “Iaccara” dovremmo “salirla” in Centro questo sabato (oggi, per chi legge – ndr) e l’accensione avverrà, come sempre, davanti al Comune, in Piazza Matteotti, al termine della Parata dei Turchi.

d - La preparazione della festa di San Gerardo quest’anno è stata caratterizzata dalle polemiche sul personaggio del “Gran Turco”. Inizialmente si era parlato della sostituzione del figurante che da anni lo interpreta, poi -più recentemente- si è scoperto che i “Civuddina” quest’anno saranno due, visto che nella Parata è stata introdotta una figura molto simile, il “Visir”. Lei cose ne pensa?

r - Il mio parere personale è che “Civuddina”, uno è. Un altro “Civuddina”? La vedo sbagliata come idea, ma non sta a me decidere.

d - Ma se un domani venisse qualcuno a dirle, “Guarda, dobbiamo accontentare anche un altro che ci tiene a fare Sarachella”…

r - A quel punto sarei io a farmi da parte, tranquillamente, perché metterci due “Sarachella” sarebbe fare un Carnevale.

d - Tra l’altro lei di lavoro fa il panettiere, una cosa molto legata a Sarachella.

r - Legatissima! La leggenda vuole che lui –che viveva in uno di quei “sottani” di una volta - si riscaldasse nei pressi di un forno del Centro.

d - Cosa le piace di più della sua città?

r - Innanzitutto, ci tengo a premettere che sono tifosissimo del Potenza.

d - Quindi quest’anno è un po’ deluso?

r - No, affatto! E’ andata benissimo, ben oltre le aspettative iniziali. Per quanto riguarda la città in sé, si vive bene, si mangia bene, si sta tranquilli. Solamente, la città la pubblicizzerei un po’ di più, cercherei di far venire più turisti. Ripeto: dobbiamo valorizzare di più la Torre, adesso che ce l’abbiamo.

d - Quindi va tutto bene?

r - Sì, trovo sbagliato lamentarsi. Certo, ci sarà sempre chi la vuole cotta e chi la vuole cruda…

d - Ma se “Sarachella” potesse dire qualcosa al sindaco, o al governatore…

r - Gli direi: date, ma veramente, più spazio, al centro storico. Fatelo vivere! Non lo chiudete! I giovani vogliono vivere e il Centro è l’anima della città. Fate più iniziative.

d - Il Centro lo vede anche lei morente?

r - Sì, lo vedo in difficoltà, e anche i negozi chiudono, porca miseria. E’ un peccato! Il centro storico DEVE essere il cuore pulsante della città! Quando ero piccolo io, l’obiettivo era sempre andare “Sopa Putenz”. E quindi, “Sopa Putenz’ ‘anna viv!”.

d - Vogliamo fare un invito ai Potentini per queste festività patronali?

r - E’ anche inutile farlo, perché i potentini –specie negli ultimi anni- hanno sempre dimostrato attaccamento alla Parata. Da quando sfilo io, ho visto ogni anno sempre più gente, soprattutto dopo il Covid, quando c’era paura di uscire. E io ho visto una rinascita, vedo bella gente ed è una cosa stupenda.

d - Ma quando la Parata finisce, cosa succede?

r - Arrivati davanti al Comune, a evento finito, ci liberiamo. Ahhh! Perché portare la “iaccara” è una cosa pesante, ma c’è la gioia di avercela fatta, un altro anno ancora.

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«Si narra che la statua lignea di San Rocco fu abbandonata nelle campagne di Tolve dalle truppe francesi in ritirata nel XVI secolo - leggenda coerente sia con l’origine francese del Santo che con le guarigioni miracolose dalla peste che, nella realtà storica, venne diffusa proprio dalle truppe francesi.

Il crescendo del culto rocchiano è confermato dai registri dell’Archivio Parrocchiale di Tolve, dai quali si rileva come fra la fine del ‘600 e inizio del ‘700 il nome Rocco diventi il più diffuso nell’area.(…)

La salvaguardia e la conservazione del culto per il Santo viene tramandata e trasmessa nelle varie generazioni attraverso la processione annuale e il materiale dei pellegrini che lasciano in dono a San Rocco.

I fedeli dell’intera area dell’Alto Bradano e di tutta la Regione ogni anno, in due date separate si recano presso la città Santuario in segno di devozione a “Santi Rocco”».

Queste brevi note espunte dal sito istituzionale dedicato al “Patrimonio culturale intangibile della Regione Basilicata” (https://patrimonioculturale.regione.basilicata.it) possono risultare utili a comprendere -a quei quattro/cinque che ancora non lo sanno- il “peso” che il culto di San Rocco ha nel tessuto religioso e culturale di Tolve (Pz) e di tutta la Basilicata.

Nei giorni scorsi (per la precisione il 13 maggio) in tal senso si è registrato un evento di rimarchevole portata (anche per il modo peculiare in cui si è giunti al risultato), ovvero la presentazione ai fedeli dell’immagine sacra del Santo (cioè la “leggendaria” statua lignea), così come è stata restaurata. Un evento, come ci spiega il parroco della Basilica/Santuario, don Francesco Martoccia, che aveva tenuto in non poca apprensione i fedeli di Tolve.

«Dopo diversi mesi di restauro –afferma il parroco- è stata riconsegnata alla devozione dei fedeli l’immagine sacra di San Rocco. Qui nella basilica c’è stata la celebrazione della Santa messa e subito dopo un breve momento con la ditta Marinelli di Picerno -che ha realizzato il restauro- in cui è stato presentato ai fedeli l’intervento eseguito».

d - Entriamo maggiormente nel dettaglio.

r - E’ innanzitutto opportuno dire che, congiuntamente al restauratore Giuseppe Marinelli e alla dottoressa Barbara Improta della Soprintendenza (Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Basilicata - ndr), dopo la scorsa festa patronale (settembre 2024), avevamo notato diverse lesioni, oltre a distaccamenti pittorici, presenti sulla statua di San Rocco. Nell’approfondire -togliendo la parte superficiale di pittura e stucco- è emersa una lesione molto importante nella parte posteriore e pertanto di è dovuti intervenire, in maniera anche abbastanza repentina, per consolidare la scultura e consegnarla ai posteri nello stato migliore possibile.

d - Tra l’altro, mi risulta si sia reso necessario addirittura una sorta di esame “clinico” sulla statua stessa.

r - Sì, grazie alla disponibilità del dottor Domenico Maroscia e della dottoressa Patrizia Grignetti, sono state effettuate anche delle vere e proprie radiografie, proprio perché i restauratori avevano bisogno di capire cosa ci fosse all’interno (eventuali vuoti, inserzioni di ferro) per poter poi intervenire sulle parti più danneggiate.

d - Com’è stato accolto dalla comunità questo piccolo-grande evento?

r - Beh, all’inizio non bene, dobbiamo essere sinceri (sorride).

d - Come mai?

r - Sa, quando si mettono le mani su una scultura così importante dal punto di vista storico, artistico e soprattutto devozionale, è normale che tra i fedeli, specie la gente semplice, ci sia un po’ di apprensione. Noi abbiamo voluto che il restauro fosse effettuato qui in basilica, a Tolve, proprio per permettere a tutti i devoti di visionare le varie fasi del lavoro.

d - Temevano si rompesse del tutto.

r - Sì, il timore c’era, però in quanto parroco so di aver messo la statua in ottime mani. Il restauratore Giuseppe Marinelli e il figlio Nicola, oltre a essere restauratori lucani affermati, sono delle persone molto competenti. Hanno fatto davvero un ottimo lavoro.

d - Ripropongo un po’ il tema ricorrente nelle nostre interviste a esponenti della chiesa: secondo lei c’è qualcosa da “restaurare” nel rapporto con la comunità dei fedeli, o va tutto bene da questo punto di vista?

r - Beh, c’è sempre da fare qualcosa in più. Noi siamo in linea con le indicazioni della Chiesa universale; seguiamo il magistero del Papa; abbiamo accolto con grande gioia l’elezione di Papa Leone XIV. E poi seguiamo la spiritualità liturgica, sempre. La Chiesa ci esorta alla conversione, al miglioramento, al cambiamento. Ma anche nella pietà popolare, nella devozione del popolo, c’è sempre da migliorare; innanzitutto nell’adesione al Signore, e poi nel seguire i modelli, belli, della fede cristiana che sono la Vergine Maria e appunto San Rocco e tutti i nostri Santi.

d - Quindi lei non registra alcun “scollamento”, come magari ci è stato riferito e registrato altrove (capoluogo compreso)? Si ritiene soddisfatto dell’affluenza dei fedeli e del loro rapporto con la chiesa locale?

r - Io credo che i nostri piccoli paesi lucani siano ancora delle “isole felici”, all’interno delle quali la maggior parte degli abitanti ancora si definisce “credente”, “cattolica” e anche abbastanza praticante. E’ chiaro che, dopo il Covid, anche confrontandomi con altri sacerdoti e parroci, abbiamo notato un leggero calo delle presenze; tuttavia le persone che frequentano, vivono in maniera intensa la Fede nei confronti del Signore e la devozione verso la Madonna e i Santi.

d - Il Santuario di San Rocco è una risorsa anche turistica. Non è certo un compito che spetta a lei, tuttavia le chiedo ugualmente se ritiene che sia sfruttata bene o se magari sarebbe lecito aspettarsi più gente a Tolve e/o una migliore proposta.

r - Noi stiamo lavorando tanto. Negli ultimi anni la parrocchia ha collaborato molto con la Soprintendenza, con l’Apt, con l’amministrazione comunale, con la Regione Basilicata, proprio nel tentativo di rilanciare la devozione popolare anche dal punto di vista turistico. Stiamo cercando di restaurare e adeguare le strutture del Santuario, onde poter accogliere i pellegrini in maniera sempre migliore. Ovviamente, la questione prettamente turistica non compete a me (dovendo curare la dimensione spirituale, religiosa), però ci sono altre componenti della comunità (diverse associazioni locali) che curano bene anche questo aspetto.

d - Tocchiamo il tema dello spopolamento e della povertà: se il tolvese medio oggi dovesse chiedere un “miracolo” a San Rocco, secondo lei quale sarebbe?

r - La gente chiede il lavoro, per poter restare in Basilicata, una terra che ama molto, ma tante volte si è costretti a emigrare perché mancano occupazione e servizi. Purtroppo anche io, in questi miei anni di sacerdozio, ho visto tanti giovani andare via per mancanza di lavoro, e forse il miracolo che chiedono davvero, per intercessione della Madonna, di San Rocco e di tutti i Santi, è proprio quello. Se c’è occupazione, c’è benessere e le famiglie possono restare nei nostri paesi e arrestare questo brutto spopolamento al quale stiamo assistendo.

d - E se potesse avere un dialogo franco con il presidente della Regione, cosa gli chiederebbe/suggerirebbe?

r - Innanzitutto lo ringraziamo per quel che sta facendo in questi anni. Io sento la Regione Basilicata vicina al territorio e anche questa amministrazione si sta impegnando per fare tutto il possibile. I miracoli, ovviamente, li può fare solo il Signore; noi uomini possiamo solo mettercela tutta per prodigarci sempre più per il bene comune.

d - Cosa ne pensa del nuovo Papa? Il fatto che sia americano rasserena alcuni, ma “preoccupa” altri, in tema di politica e equilibri internazionali.

r - Ritengo che lo Spirito Santo abbia mandato nuovamente il Papa giusto al momento giusto. Papa Leone XIV mi sembra un uomo di grande spiritualità; noi sacerdoti e comunità cristiana siamo fortemente emozionati perché ha ridato nuovamente centralità alla figura di Cristo e al messaggio evangelico. E poi sicuramente si adopererà per fermare queste guerre che stanno dilaniando l’umanità e per far sì che la pace possa sempre di più affermarsi sulla Terra.

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Nella giunta comunale di Colobraro nominata dal sindaco con decreto n. 11 del 24 aprile scorso è assente la componente femminile. In una nota la consigliera di parità della Regione Basilicata, Ivana Pipponzi, ha diffidato l’amministrazione comunale ad annullare con urgenza e in autotutela il decreto sindacale e a nominare contestualmente la nuova giunta rispettando la quota di genere.

“E’ stata accertata – ha spiegato la consigliera – la presenza di donne elette nella compagine di maggioranza e la loro disponibilità a farne parte. E’ stata anche verificata l’assenza di azioni o procedimenti legalmente previsti per includere donne in giunta, come richiede la giurisprudenza consolidata del Tar di Basilicata. Anche se nei Comuni al di sotto dei tremila abitanti non si applica la legge Delrio, la rappresentanza di genere nelle istituzioni deve essere garantita ai sensi degli articoli 3 e 51 della Costituzione. E’ fondamentale includere le donne in tutti i processi istituzionali al fine di scongiurare e vincere quell’odioso divario che è ancora presente nelle nostre comunità. Invito, dunque, il sindaco a ritirare l’atto di nomina e a prevedere nella nuova giunta la presenza di donne. Questo è non soltanto un atto doveroso da parte del mio ufficio ma anche uno stimolo culturale volto all’inclusione femminile”.

Pipponzi ha ricordato che alla Consigliera di parità sono attribuiti poteri di controllo e vigilanza ai sensi del decreto legislativo 198/2006, riservandosi di ricorrere al Tar in caso di inottemperanza. La nota è stata inviata al Prefetto di Matera per i provvedimenti conseguenziali.

Fonte: https://agr.regione.basilicata.it/post/pipponzi-giunta-di-colobraro-senza-quota-di-genere/?fbclid=IwY2xjawKRiYtleHRuA2FlbQIxMQBicmlkETB4SFRpcTY4TTVoQ1dyVTJuAR6JCTaVKR5oWxSUXVrSw2hWz0Imr3Gx1LQmYZ-9MDtKxmx0ozwwaT_1Vcy8LA_aem_rpLgAN6RdKebeRJnNaIbSw

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

Aveva lasciato, da responsabile dell’oratorio, la parrocchia di san Giovanni Bosco nel 2018, e dopo circa sei anni, vi è tornato (a settembre scorso), da parroco e dunque direttore dell’Opera Salesiana. Tuttavia, i pochi anni trascorsi sono stati sufficienti affinché certi cambiamenti nel rione Risorgimento, ma più in generale in tutta la città di Potenza, a don Federico Mingrone risultassero ben evidenti.

d - Lei è di origine calabrese, di Bocchigliero (Cs), ma in verità non è nuovo di questa parrocchia.

r - Sì, dal 2012 al 2018 sono stato incaricato dell’oratorio, quindi conosco abbastanza bene questa realtà e il suo territorio. Si tratta dunque di un piacevole ritorno, certo, con un ruolo di responsabilità diversa.

d - Da decenni, questa parrocchia è un punto di riferimento per i giovani del rione Risorgimento e anche di quelli limitrofi. In generale, cosa contraddistingue l’opera di un salesiano da quella di un altro sacerdote?

r - Certamente la dimensione carismatica. Rispetto ai diocesani, noi siamo religiosi, consacrati e ci ispiriamo allo stile di Don Bosco. Tutto il suo metodo educativo è incentrato sul cosiddetto “sistema preventivo”. La nostra opera, attraverso ciò che chiamiamo il “criterio oratoriano”, si concretizza in una casa che accoglie, in una parrocchia che evangelizza, in un cortile in cui si educa alla vita. E’ questo il cuore di tutta l’opera: ci si incontra da amici e si vive in allegria.

d - Lei ha parlato di “sistema preventivo”. Si tratta, dunque, di “prevenire” cosa?

r - C’è un’esperienza, forte, che segna la vita di don Giovanni Bosco nella Torino dell’800, quando, insieme a don Cafasso (“il prete della forca”), va a visitare le carceri e nota che ci sono troppi giovani. Uscendo, don Bosco si sente male e afferma che se quegli stessi giovani avessero avuto un amico che si prendeva cura di loro, certamente non sarebbero finiti lì dentro. All’epoca si era in piena rivoluzione industriale e Torino era invasa da tanti giovani che avevano lasciato le periferie alla volta del Centro, in cerca di fortune, ma vivendo di stenti. Don Bosco si prendeva cura di loro.

d - Il metodo, all’interno di questo “cortile” educativo comprende anche il gioco. Tanti di noi, da ragazzi, hanno speso le loro giornate da queste parti, giocando a pallone o a biliardino…

r -...sì, anche se forse a volte ci si ferma a questo aspetto, sa, vedendo i Salesiani come i “caciaroni”, quelli del gioco. Tuttavia quest’ultimo per noi non è il fine, ma un mezzo per educare, e anche la tipologia di giochi che vengono fatti (o che NON vengono fatti) ci dice che il nostro fine è educare ai concetti di corresponsabilità, gioco di squadra, rispetto dell’altro e delle regole. Do Bosco alla base del suo metodo pone tre pilastri: Ragione (la capacità di saper cogliere alcune realtà), Religione (l’etica, che pone le basi di ciò che si vive) e Amorevolezza (lo stile familiare che caratterizza il nostro rapporto con i giovani).

d - Che tipo di quartiere ha ritrovato, al suo ritorno qui a Potenza?

r - Beh, certamente, anche questo quartiere risente della grande emergenza educativa che ormai da tanti anni la Chiesa denuncia. La nostra parrocchia -ma credo valga lo stesso per il resto della città- vive un’esperienza caratterizzata da una bella religiosità, in cui valori della fede vengono ancora, in qualche modo, trasmessi dalla famiglia; tuttavia, è evidente che c’è un po’ uno “sbriciolarsi” da questo punto di vista. Penso che questo si possa evincere dalla frammentarietà dei cammini con cui i ragazzi frequentano le nostre attività, pur registrando ancora una grande presenza. Il fatto è che oggi ci sono forse troppe attività che ai ragazzi viene chiesto di fare e ciò ovviamente toglie tempo ad altro; e forse -mi permetto di dire- oggi si tende maggiormente a fare ciò che piace rispetto a ciò che è necessario.

d - L’emergenza educativa che lei ha citato è proprio uno dei temi più attuali qui in città, anche a seguito di episodi di violenza tra giovani che si sono registrati. Si avvicina l’estate e con essa la questione della “movida notturna” -con annessi e connessi- che l’anno scorso non ha risparmiato nemmeno piazza don Bosco, che fu attenzionata dalle forze dell’ordine, su richiesta dei residenti. Secondo lei oggi che cosa significa, principalmente, “emergenza educativa”?

r - Non è semplice dirlo, tuttavia, papa Benedetto parlava di una cultura del “relativismo” sempre più imperante, nella quale alcuni valori vengono meno, a seguito di una mancanza di trasmissione. E a volte mancano le alternative. Noi, come oratorio, cerchiamo di fornire luoghi, spazi; da qualche anno è stato creato un Centro giovanile gestito dai ragazzi. Ecco, si tratta di dare delle possibilità, poi sta a loro scegliere.

d - Potenza mena vanto, da sempre, di essere una città tranquilla. Lei l’ha ritrovata così o crede che qualche campanello d’allarme vada suonato?

r - Beh, come diceva lei, le notizie di cronaca ci dicono altro, per cui credo che un po’ tutte le istituzioni debbano muovere qualche passo a riguardo.

d - Da salesiano, quand’è che lei si sente soddisfatto del suo lavoro? Quando vede un giovane che inizia a frequentare più assiduamente la messa? O cos’altro?

r - Non è la partecipazione alla messa, anche se sarebbe tanto di guadagnato e sarebbe raggiungere il compimento di un cammino. Il nostro obiettivo è educare evangelizzando ed evangelizzare educando. “Educere” significa “tirar fuori”: quando, dopo tanti anni, ti rendi conto che alcuni giovani fanno delle scelte di vita consapevoli e responsabili, beh, in cuor mio e in quello dei miei confratelli, possiamo ritenerci soddisfatti. Don Bosco diceva che il suo metodo educativo consisteva nel formare buoni cristiani, onesti cittadini, per poi potere essere, un giorno, futuri abitatori del Cielo.

d - I genitori e le famiglie della zona vi chiedono qualcosa in particolare?

r - In particolare direi di no, perché le proposte dell’oratorio (il cui incaricato è Don Claudio) offrono un vasto campo di scelta: attività formative, laboratori, gruppi formativi di fascia, attività sportiva, il gioco libero in cortile. In realtà, una delle emergenze che stiamo sperimentando è quella dei tanti anziani soli. Questa parrocchia lo scorso anno ha festeggiato i sessant’anni di presenza, il che vuol dire comunque che è “invecchiata” tanto. Di conseguenza stiamo pensando a dei progetti che -con il coinvolgimento dei giovani- siano a servizio delle persone anziane.

d - Con l’arrivo dell’estate il problema si acuisce e questo -per l’appunto- è un quartiere in cui c’è un alto tasso di anziani che vivono soli.

r - C’è già un bel gruppo di ministri straordinari dell’eucarestia che settimanalmente incontra a domicilio oltre una settantina di anziani o ammalati non autosufficienti. Abbiamo un progetto, che però ha molto bisogno di volontari (e quindi bisogna sensibilizzare le coscienze), che si propone di creare momenti di preghiera, ma anche di semplice compagnia, di aiuto nel fare della spesa. Abbiamo avuto modo di verificare questa necessità proprio tramite l’iniziativa “Il sacco della spesa” organizzata con la Caritas. Sì, ci sono tanti anziani che vivono soli, o assistiti da persone esterne, poiché la famiglia è lontana.

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di Walter De Stradis

 

 

 

«E’ la Via Crucis più antica della Basilicata, risalendo al XVII secolo. Nel 1983 è stata rappresentata a Roma davanti a papa Giovanni Paolo II, oggi santo. Ma la Sacra Rappresentazione del Venerdì Santo a Barile non è una questione di record o prestigio: è tradizione, religiosità popolare».

Mentre leggete queste parole, riprese dal sito dell’Apt, la Processione si sarà già svolta (venerdì 18 aprile, ieri per chi legge - ndr), ma -considerando la profondità dell’impronta religiosa, culturale e antropologica dell’evento- noi ci siamo recati a Barile nel pomeriggio di mercoledì scorso, ove -praticamente senza preavviso- siamo riusciti a intercettare il sindaco, Antonio Murano, accompagnato dalla signora Angela D’Andrea, che presiede il Comitato organizzatore. Il terzo “attore” , ovvero il parroco (Don Davide Endimione), non era in sede, bensì impegnato a Melfi, come ci è stato detto in parrocchia.

Il pomeriggio era di quelli uggiosi, ma l’atmosfera generale era -comprensibilmente- piuttosto febbrile.

«La nostra Via Crucis del Venerdì Santo è la rappresentazione più antica della Basilicata, nata nel 1600 -ci spiega il Primo Cittadino, seduti attorno un tavolo del “Bar Sport”- Un rito che si ripete da allora, di anno in anno, con il coinvolgimento di tutta la comunità, che vi partecipa in maniera solenne. La Sacra Rappresentazione si rifà alla nostra tradizione, alla cultura Arbëreshë, ed è caratterizzata dalla presenza di oltre centoventi personaggi che partecipano alla Via Crucis».

d - Un momento di unità per il paese, sindaco, ma non solo, essendo attesi anche molti turisti.

r - Sì, come avviene ogni anno.

d - Di quanti visitatori possiamo parlare, in media?

r - Credo che siamo intorno ai tremila/tremila e cinque. E’ coinvolto tutto il territorio, ma non solo, poiché vengono anche dalle regioni limitrofe. Il che ci porta ad attrezzare delle aree, ad esempio, per coloro che arrivano con i camper e quant’altro. Alcuni infatti arrivano già dal giovedì, in attesa della Processione del giorno successivo.

d - Un evento religioso, ma anche turistico dunque. In certi casi, si sa, bisogna stare anche attenti a non mischiare il “sacro” col “profano”.

r - Certo. Tuttavia, la gente che arriva sa di giungere in una terra che ha un’antica vocazione, che è quella del vino Aglianico. Pertanto ci sono anche questo tipo di tradizioni da considerare.

d - Quindi il turista cosa si aspetta di trovare?

r - Innanzitutto una comunità ospitale, aperta a tutti coloro la vogliano visitare. Poi ci sono tante aziende agricole, che producono quell’eccellenza, il “principe” del nostro territorio (il vino Aglianico); ci sono anche tanti frantoi, che aprono le porte ai nostri visitatori. Il turista può dunque recarsi in queste cantine e frantoi e degustare i prodotti della nostra comunità. Senza contare i ristoranti, che cucinano il nostro “Tumact me tulez”, il piatto più antico della nostra tradizione Arbëreshë. Si tratta di tagliatelle con alici e mollica di pane: un piatto “rosso” che va gustato, naturalmente, assieme all’Aglianico.

r - (ANGELA D’ANDREA) Il nostro punto di forza è la comunità intera. La processione rissale al 1600, periodo in cui gli albanesi si trasferirono in questo territorio, fuggendo a seguito dell’invasione turca. La comunità, in vista di questo evento, inizia a unirsi già da ottobre, periodo in cui si avviano le iscrizioni. Il personaggio della “zingara”, come ben sa, è piena di oro, che viene prestato integralmente dalla comunità di Barile.

d - Quindi tutto quell’oro “torna indietro” di volta in volta?

r - (ANGELA D’ANDREA) Per forza! Il personaggio cambia ogni anno e io cerco di accontentare tutte le ragazze che mi chiedono di interpretarlo.

d - Quindi non accade come a Potenza, ove al prospettato cambio del figurante di “Civuddina” (personaggio della Parata del Turchi – ndr) , c’è stata una specie di insurrezione popolare!

r - (ANGELA D’ANDREA) Qui cambia ogni anno, anche perché la tradizione è proprio quella: dare a tutti la possibilità di partecipare e di esprimere il proprio sentimento e la propria religiosità. La zingara è un personaggio della cultura popolare, che nasce sempre dalla tradizione Arbëreshë.

d - In un momento storico in cui la fede -in Italia è nel mondo- è forse ai minimi storici, qui a Barile, affluenza, partecipazione e intensità della Via Crucis rimangono invariati? Mi riferisco soprattutto ai giovani.

r - (ANTONIO MURANO) Non registriamo alcuni tipo di “distacco”, anzi, ci sono molti giovani che, pur avendo interpretato i personaggi, tornano puntualmente a chiedere di rifarli.

r - (ANGELA D’ANDREA) Tenga conto che, a parte l’affluenza dei concittadini e dal circondario, noi riceviamo richieste da parte di barilesi che vivono a Torino o a Milano, e che vogliono partecipare; io cerco di accontentarli, perché con loro giungono anche amici e parenti.

d - E’ chiaro che per Barile questo è l’evento “clou” dell’anno. In questo periodo, ma anche d’estate, questi nostri paesi si ripopolano. Tuttavia, signor sindaco, rimante tutto il resto dell’anno in cui fare i conti con lo spopolamento, ovvero con la “fuga dei giovani”, che sempre più riguarda anche genitori e nonni che li raggiungono.

r - La Lucania deve purtroppo vincere una grande sfida che è proprio quella dello spopolamento. Perché, come diceva lei, non vanno via soltanto i figli, ma anche i genitori, nel momento in cui non hanno più un legame affettivo nella comunità. Dal canto nostro, facciamo tutto il possibile affinché questa comunità sia sempre viva e attenzionata sotto vari aspetti. Una grande mano ce la diamo reciprocamente con le tante e diverse associazioni presenti, e con le quali ci confrontiamo spesso proprio per programmare iniziative, nel corso dell’anno, sempre legate alle nostre tradizioni e alle nostre storie. C’è ad esempio l’associazione Intercultura, composta da alcune signore che si occupano di canti e balli popolari; c’è l’antica tradizione di San Giovanni, che si celebra il 24 giugno: il Battesimo delle Bambole, anch’esso accompagnato dai canti Arbëreshë. Poi, naturalmente, d’estate abbiamo -tra gli altri- il grande evento di “Cantinando”, giunto alla tredicesima edizione, che si svolge nel Parco Urbano delle Cantine.

d - Lì dove, praticamente, Pasolini girò alcune scene de “Il Vangelo secondo Matteo”, uno dei film più importanti della storia del cinema italiano. Mi chiedo: la politica regionale che tipo di mano dà a piccoli comuni come il vostro affinché possano “resistere” e valorizzare patrimoni (come nel caso pasoliniano) che non tutti hanno? Insomma, gli Americani in cerca di location, potrebbero venire di tanto in tanto anche qui, e non solo a Matera…

r - E’ chiaro che anche la politica regionale ha le sue difficoltà, perché le risorse sono quelle che sono. Nel lontano 2015 candidammo -con successo- “Cantinando”, la Sacra Rappresentazione e il piatto “Tumact me tulez” tra i Beni immateriali della Regione Basilicata. Pertanto, possiamo dire che da parte della Regione è riconosciuta a una valenza a questi eventi, che non sono certo improvvisati, e che non si caratterizzano solo come comunità, ma anche come territorio, nel senso più allargato. Probabilmente, dovrebbe esserci però una maggiore attenzione sotto l’aspetto culturale.

d - Il presidente Bardi ci è mai venuto?

r - Sì, l’anno scorso lo abbiamo avuto dietro la nostra Processione. E non solo lui. Devo dire che a livello regionale seguono queste iniziative.

d - Gli avete detto/chiesto qualcosa?

r - Di guardare al valore di questa Processione, che non è solo simbolico, storico e culturale, ma incarna una sentita partecipazione di questa comunità. Con altre ventisette città d’Italia abbiamo sottoscritto un protocollo d’intesa; abbiamo candidato questa nostra Processione -insieme ad altre- a Patrimonio Unesco. Siamo alle battute finali e c’è concreta speranza di raggiungere questo traguardo. Pertanto, dicevamo al presidente Bardi che in Basilicata c’è sì la Madonna di Viggiano, santa partrona regionale; c’è sì la Madonna della Bruna, ma c’è anche la nostra Sacra Rappresentazione, che è un grande valore della nostra regione.

d - Esiste, a suo avviso, una “via Crucis” che i lucani vivono giorno per giorno?

r - Credo che i Lucani siano un popolo silente, molto tenace, che ha la forza di superare anche le difficoltà e di reagire quando se ne presenta la necessità.

 

 

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Estendere in tutta la Basilicata le azioni concordate con l’Anci per rimuovere le discriminazioni di genere nel mondo del lavoro e della pubblica amministrazione. Con questa finalità, la consigliera regionale di parità, Ivana Pipponzi, insieme alla consigliera supplente Rossana Mignoli, ha firmato ieri un protocollo d’intesa con il presidente dell’Anci, Gerardo Larocca. Il documento segue l’accordo sottoscritto a marzo con la consigliera di Parità della Provincia di Potenza.

Il protocollo impegna le parti “a sviluppare iniziative concrete e misurabili, coinvolgendo attivamente istituzioni, imprese e società civile, al fine di generare un impatto positivo e duraturo sull’inclusione lavorativa e sociale delle donne e sulla promozione della parità in tutta la regione”.  Si punta, in particolare, su campagne di informazione e sensibilizzazione sia nel settore pubblico che con corsi di formazione specifici rivolti alle donne. Con il rafforzamento delle Reti territoriali e dei partenariati, inoltre, le consigliere regionali di parità e l’Anci intendono promuovere piani territoriali per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, incentivando la creazione di asili nido, servizi di assistenza domiciliare e spazi di coworking con servizi per le famiglie. Non ultimo obiettivo la promozione di percorsi volti alla Certificazione della parità per aziende e imprenditori del territorio regionale.

“Vogliamo mettere in campo strumenti concreti – commentano Pipponzi e Mignoli – che aiutano ad armonizzare i tempi della famiglia con quelli del lavoro, alleggerendo il carico di cura che il più delle volte pesa gravosamente sulle spalle delle donne. Se servono strutture di assistenza, è anche vero che bisogna agire per cambiare le mentalità che ostacolano le lavoratrici nella vita lavorativa e nei percorsi di carriera”.

 

fonte: https://agr.regione.basilicata.it/post/protocollo-dintesa-anci-consigliere-di-parita/?fbclid=IwY2xjawJrT7FleHRuA2FlbQIxMQABHpZfB2eW1j95qRY9d4lLSxFbVm4Xhaq7NumVqTCUOKN71ORW1v0QGfZL6xMM_aem_OumXNsVIPz2o5FtvIVH8mA

 

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

Se un attore/regista americano dice in tv che la Basilicata è piena di gente meravigliosa e ricca di tradizione, i nostri politici subito applaudono e si commuovono; ma se qualcuno, qui sul posto, si dà da fare concretamente in quella stessa direzione, può incontrare serie difficoltà.

La strenua lotta della professoressa Patrizia Del Puente, per la salvaguardia, la codificazione e la diffusione dei dialetti lucani, è un esempio di quello che può (non) accadere nella nostra regione. Napoletana, folgorata dalla nostra terra (ove ha deciso di venire e di restare), la docente di glottologia e linguistica dell’Unibas è infatti anche la direttrice di quel Centro Internazionale di Dialettologia che ora combatte tra la vita e la morte

«Il Centro Internazionale di Dialettologia ha due anime -ci spiega- La prima dialoga con le accademie di tutto il mondo; la secondA è sociale-territoriale e la maggior parte dei cittadini lucani conosce il nostro lavoro; salvaguardare, valorizzare le lingue della Basilicata. Tutta l’Italia è ricca da questo punto di vista, ma la Basilicata lo è un po’ di più, è un vero unicum».

d - Lingua e dialetto sono la stessa cosa?

r - Assolutamente sì, dal punto di vista strutturale. L’unica differenza che possiamo rilevare è l’estensione territoriale su cui viene usata: una lingua nazionale viene parlata in un ambito più ampio rispetto a una lingua locale.

d - Da quanto tempo esiste il CID?

r - Come CID esiste dal marzo 2018, ma si tratta comunque del prosieguo del progetto A.L.Ba (Atlante Linguistico della Basilicata – ndr) che ha la sua origine nel 2007.

d - Che tipo di “inquadratura” ha il Centro?

r - Il suo statuto è stato creato dagli impiegati dell’Unibas. Si tratta di un’associazione no-profit, senza profilo giuridico. Ovviamente, però, in quanto tale, il CD deve essere “costituito”; pertanto è stato costituito e fondato dall’Unibas, come recita l’atto fondativo.

d - All’atto pratico, qual è l’utilità del CID? Perché studiare e salvaguardare i dialetti, in un mondo che va sempre più veloce, sempre più a mezzo social, e in cui ogni giorno occorre adattarsi a nuovi linguaggi?

r - Normalmente, quando un giornalista mi pone questa domanda, io do una risposta piuttosto stentorea. A lei magari l’argomenterò un po’ di più (sorride). “A cosa servono le radici alle piante?”: questa è la mia risposta stentorea. Tuttavia, ciò che diceva lei, è proprio il motivo per cui, oggi, per le nuove generazioni, è fondamentale conoscere il dialetto. Se non si conosce il proprio passato, non si può vivere il presente e interpretare un futuro. Questo è assodato. Un giovane che vuole, realmente, conoscere la storia vissuta dalla sua comunità, non può ignorare il dialetto. Perché? Perché qualsiasi altro documento (o monumento), in quanto datato, gli racconterà UNA PARTE di quella storia. Il dialetto, al contrario, comprende TUTTA la storia: per poter parlare di un oggetto, ad esempio, prima occorre dargli un nome; in una comunità, tutto quello che abbiamo incontrato, vissuto e che è stato importante, si ritrova nella lingua. Perdere quella lingua, significa perdere quella storia non narrata. E nella maggior parte dei nostri paesi,che non hanno documenti storici o architettonici, è un discorso fondamentale.

d - E come si fa a realizzare il recupero di una tradizione che, appunto, è in gran parte orale?

r - Ci sono due canali. Se il CID andrà avanti, un canale fondamentale sarà quello degli emigrati all’estero: questi ultimi, proprio perché non hanno avuto contatti con la lingua italiana, conservano un dialetto molto più arcaico. Pertanto, si potrebbe realizzare una piattaforma ove riversare le testimonianze, parlate, libere, di questi emigrati, per recuperare altri pezzi di storia. Per quanto riguarda, invece, il lavoro fatto dal CID qui nella nostra regione, noi ovviamente dialoghiamo con i “parlanti” più anziani, che sono i depositari più attendibili di quella cultura a cui stiamo facendo riferimento. Ma ben si capisce che se io non uso più un certo tipo di vaso da olio o di caraffa, a lungo andare ne perderò anche la parola; e quel pezzo di storia non lo si recupera più. E allora, a questo punto, io devo FERMARE questo pezzo di storia, ed è per questo che noi, anno dopo anno, pubblichiamo “L’Atlante Linguistico della Basilicata”. Però tutto questo non basta, perché significa mettere le nostre lingue dentro un sarcofago.

d - E allora qual è il passaggio successivo?

r - Insegnare, come già facciamo, ai “parlanti” e alle “parlanti” le loro stesse lingue.

d - Detta così sembra un controsenso.

r - Mi rendo conto. Ma non lo è. Noi andiamo nei paesi, ovunque ci chiamino, nelle scuole, a insegnare ai ragazzi il LORO dialetto. Se lei magari, nel suo dialetto, si riferisce al “piede” dicendo “pèrë” e ai “piedi” dicendo “pièrë”, è perché lo fa in automatico, a seguito di un apprendimento “di riflesso”: ma in questo modo, a mano a mano, le “regole” si perdono, perché lei non ne è consapevole. Noi invece facciamo toccare con mano proprio le regole fonetiche, sintattiche, morfologiche. E alla fine rimangono sorpresi.

d - Ecco, mi interessa capire proprio questo, perché la metodologia che lei mi ha descritto ricorda un po’ quella del recupero della tradizione musicale orale (con gli “informatori” in luogo dei “parlanti”). Alcuni artisti che suonano la musica popolare, però, ci dicono che i giovani lucani si “vergognano” un po’ di certi vecchi canti, perché ricordano la povertà. Accade anche col dialetto?

r - Ci sono giovani e giovani. Ovviamente, dopo decenni di lavaggio del cervello con banalità prive di valore intrinseco (“il dialetto è la lingua degli ignoranti”, “è legato alla povertà” etc.), qualche volta i giovani sono un poco più restii a servirsi del dialetto e a esserne orgogliosi. Ma non sempre. Ci sono molti giovani, infatti, che ci chiamano per fare progetti. Ne cito uno per tutti: nella frazione di Agromonte Magnano di Latronico, i giovani hanno voluto creare una sorta di attrattore turistico fondato sule “cose coselle”, gli indovinelli della tradizione. E così hanno chiesto a noi di aiutarli nella trascrizione, avvalendoci dell’ “Alfabeto dei Dialetti Lucani” (siamo l’unica regione che ha codificato un documento del genere); un artigiano locale, a quel punto, ha creato delle maioliche e delle ceramiche su cui disegnare le “cose coselle”, completate da relativo QR code e trascrizione in dialetto curata da noi. Questo percorso per turisti è stato voluto e creato da giovani.

d - Lei prima ha detto «SE il CID andrà avanti». Cosa succede? Si può dire che il Centro vive, anzi “campa”, di finanziamenti regionali. Vengono concessi, ma con quale frequenza?

r - Inizialmente il finanziamento era annuale, poi ce n’è stato uno triennale e l’ultimo di diciotto mesi. Scade a ottobre, fra pochi mesi.

d - Che notizie avete? Ci sarà una proroga?

r - Non sappiamo nulla. Il presidente di Quarta commissione consiliare, che mi ha accolto anche per una audizione, mi ha detto che “sta lavorando” alla cosa, ma è un mese che non lo sento; credo ci siano anche dei tempi burocratici.

d - Mi pare di capire, tuttavia, che un’ennesima proroga sarebbe un ulteriore “tampone”, mentre voi da tempo chiedete l’istituzionalizzazione del CID. Cosa comporterebbe?

r - Comporterebbe ciò che hanno provato a proporre novantotto consigli comunali nella scorsa legislatura: creare una legge regionale ad hoc per far sì che il CID diventi un organismo regionale, come accade in Friuli e in Sicilia. In questo modo, si stabilizzerebbe la situazione dei tre, ultimi (erano sette), ricercatori che stanno facendo “resistenza”.

d - Lei percepisce un compenso?

r - Assolutamente no, niente rimborsi di benzina né altro. Sono assolutamente a titolo gratuito, anzi, ci rimetto; e non perché sono brava, ma perché lo studio delle lingue mi dà tantissimo.

d - Cosa, in particolare?

r - Una grande umanità, rapporti di affetto con tantissime persone e sopratutto imparo tantissimo.

d - Quali le strade per istituzionalizzare il CID?

r - A mio avviso sono due. Una è la la legge regionale a cui facevo riferimento, ma che richiederebbe un po’ più di tempo; l’alternativa è che la Regione ne faccia una sua Fondazione (come accaduto in altre situazioni), magari con la partecipazione di qualche comune più virtuoso, o delle Province.

d - Se la sente di lanciare un appello in dialetto lucano?

r - «Uagliò, c’amma movere, pecchè senno’, ‘o CID, è fernut’!»*. Ho usato un dialetto dell’area della Val D’Agri, dove stiamo tenendo i corsi nelle scuole.

*La trascrizione, sicuramente lacunosa, è a opera dello scrivente.

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