Scuola_Internazionale.jpgAl via, dal 21 luglio al 3 agosto, la Scuola Internazionale di Etnografia Audiovisuale che porterà a San Costantino Albanese etnomusicologi, cineasti, documentaristi e studiosi di grande prestigio, impegnati in un fitto programma di lezioni e seminari rivolti a 12 filmmaker provenienti da ogni parte del mondo, chiamati anche a realizzare prodotti audiovisivi e installazioni multimediali su aspetti che riguardano la vita, la cultura, l’ambiente e il territorio di questa piccola comunità arberesh, ai piedi del Pollino, nella Val Sarmento. 
Tra i docenti, Pat Collins (regista, produttore e sceneggiatore irlandese pluripremiato, autore di oltre 30 film), Magali De Ruyter (antropologa, etnomusicologa, traduttrice e musicista, docente all'Università di Parigi VIII), Steven Feld (antropologo, regista, artista e performer, autore di studi fondamentali su Papua Nuova Guinea e Ghana ma con forti interessi anche per la Basilicata) e Rossella Schillaci (documentarista e antropologa, autrice di importanti lavori sulla Basilicata). Lorenzo Ferrarini (regista, fotografo e fonico, docente presso il Granada Centre for Visual Anthropology dell’Università di Manchester) è il direttore della Summer School, con il coordinamento didattico di Alexandra D’Onofrio (regista e documentarista, docente anche lei dell’Università di Manchester) e il coordinamento generale di Nicola Scaldaferri (etnomusicologo, musicista e docente presso l’Università di Milano).
Molto fitto anche il programma degli eventi aperti al pubblico con proiezioni di alcune opere di grande interesse sui temi della ricerca che, alla presenza degli stessi autori, si terranno alle 21,30, nel cortile della Chiesa Parrocchiale, secondo questo calendario:

21 luglio: Materiali d’archivio su S. Costantino Albanese

22 luglio: Pat Collins, Pilgrim; Silence

24 luglio: Pat Collins, That They May Face the Rising Sun

27 luglio: Rosella Schillaci, Vjesh/Canto

29 luglio Steven Feld, JC Abbey, Ghana’s Puppeteer

3 agosto Gianluca e Massimiliano De Serio, Canone effimero

Nei pomeriggi del 2 e del 3 agosto invece, presso la Casa Parco, si potrà seguire la presentazione dei lavori dei 12 filmmaker.

Grande soddisfazione ha espresso il sindaco della cittadina arberesh, Renato Iannibelli, per l’avvio di un progetto per il quale si è molto speso nella convinzione che “in una coerente valorizzazione delle nostre tradizioni sia contenuta anche una promessa di futuro, una possibilità di sviluppo che dobbiamo perseguire ad ogni costo: e siamo pronti ad accogliere nei migliori dei modi gli esperti e i filmmaker in arrivo che sono sicuro ci lasceranno altra preziosa documentazione sulla vita della nostra comunità”.

Promossa da Squilibri d’intesa con l’Università de­gli Studi di Milano (LEAV- Laboratorio di Etnografia Audiovisuale) e in collaborazione con l’Università degli Studi di Cagliari e il Granada Center for Visual Anthropology dell’Università di Manchester, la Scuola Internazionale di Etnografia Audiovisuale fa parte del più articolato progetto “Il borgo dei suoni”, promosso dal Comune di San Costantino Albanese con il sostegno finanziario della Regione Basilicata e la collaborazione di numerosi partner al fine di promuovere e valorizzare la cultura e le tradizioni della comunità.

Dopo la Scuola internazionale di Etnografia Audiovisuale, dal 9 al 22 agosto, al via la seconda edizione del festival “Suoni di minoranza” sulle musiche delle minoranze linguistiche italiane, con numerosi gruppi provenienti da più parti d’Italia, e due appuntamenti di rilievo con Enzo Gragnaniello (13 agosto) e Enzo Avitabile e I bottari di Portico (22 agosto) 

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

Recarsi un un misconosciuto paese del Brasile e ritrovarsi davanti a una tomba col proprio nome, e scoprire che un locale sindaco del passato si chiamava...Pittella.

Persino dal punto di vista aneddotico, la ricerca compiuta sui “lucano-discendenti” da Carmine Cassino si è rivelata sorprendente, ma non quanto gli aspetti umani e antropologici colti dallo storico contemporaneo, originario di Lauria (Pz), ricercatore all’Unibas.

d - Professore, vorrei partire proprio da questa ricerca, dal “gemellaggio” con questo piccolo paese brasiliano, in cui in passato si sono riversati molti laurioti.

r - Questa località si chiama Santos-Dumont, si trova nello stato di Minas Gerais, a metà strada tra Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Si chiama così perché lì è nato uno dei padri dell’aviazione internazionale, Alberto Santos-Dumont (a cui Cartier dedicò il primo orologio da polso). Anticamente si chiamava Palmira ed è stato proprio uno dei luoghi della “diaspora” migratoria lauriota. Siamo riusciti a recuperare qualcosa che era andato perso nella memoria, grazie a un “incipit” di carattere personale e familiare. Giocando su Skype in Brasile 17 anni fa, mi sono ritrovato a ricercare i miei omonimi, Cassino, e ne sono usciti tanti in questa località, e da lì ho iniziato una ricerca che mi ha portato a recuperare in primis un segmento familiare di emigrazione (erano i discendenti di due fratelli del mio bisnonno emigrati nel 1922). A Santos-Dumont c’è dunque la tomba di questo mio trisavolo emigrato, quindi mi sono ritrovato davanti a una lapide con il mio stesso nome a più di 10.000 chilometri di distanza! Ma mentre ero nel cimitero, mi sono reso conto che tutt’attorno c’erano tombe che recavano cognomi a me molto familiari, cognomi di Lauria. E da lì è cominciata una ricerca, coadiuvata anche da storici locali, che mi ha portato a ricostruire questa epopea migratoria che è stata molto, molto importante. Solo per dare degli elementi, ben tre sindaci di Palmira/Santos-Dumont, erano di origine Lauriota, tra cui un Pittella!

d - Eh, non poteva mancare!

r - Come dire, buon sangue non mente. Infatti questa cosa diverte molto l’attuale sindaco di Lauria, Gianni Pittella, che mi ha dato una grossa mano anche a istituzionalizzare questo legame con Santos-Dumont. Tant’è vero che lo scorso anno sono andato in viaggio per un mese in Brasile, toccando varie tappe dell’emigrazione della Valle del Noce, in particolare le comunità di italo-discendenti di emigranti Laurioti e Trecchinesi; e poi a Santos-Dumont sono andato ad inaugurare la prima strada al mondo dedicata alla città di Lauria. Ad aprile invece sono venuti loro in paese e abbiamo inaugurato un largo, molto carino, nel centro storico di Lauria inferiore, Largo Santos-Dumont. In Brasile è un paesino, nel senso che fa 60-70 mila abitanti, ma alla fine è una città quasi come Potenza.

d - È comunque una cellula di un fenomeno più grande, che è quello dell’emigrazione dei Lucani. Secondo lei, professore, cosa ha portato il Lauriota nel mondo?

r - Come quasi tutti i Lucani, ha portato manualità, artigianalità. Anche senso per il commercio. Un caso esemplare è anche Jequié, nello stato di Bahia, città fondata dai Trecchinesi, arrivati lì proprio per sviluppare un commercio nelle aree interne, quando, nella seconda metà dell’Ottocento, c’era ancora spazio per poter impiantare attività commerciali. Consideriamo che la Casa Lauriota, che è stata la più importante casa commerciale di Santos Dumont, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, importava anche il formaggio di Moliterno. Tuttavia i Laurioti arrivarono a Palmira innanzitutto perché, nella seconda metà dell’Ottocento, ci passava la linea ferroviaria in costruzione tra Belo Horizonte e Rio de Janeiro. E quindi sono stati attirati dai cantieri e poi lentamente si sono consegnati ad altre attività, tra cui quelle commerciali, tanto che i Laurioti di successo in questa realtà erano prevalentemente o grossi commercianti, oppure -avendo poi studiato- professionisti, avvocati, medici.

d - Dal punto di vista invece “umano”, cosa ha scoperto?

r - Il viaggio che ho compiuto l’anno scorso è stato incredibile da questo punto di vista. Noi non saremo mai in grado né di cogliere, né di comprendere, né di restituire il senso delle radici che loro hanno. Io stesso mi sono sentito importante, non per quello che portavo, cioè la mia conoscenza del fenomeno, ma per quello che rappresentavo: il fatto di essere un figlio della terra da cui erano partiti i loro antenati. C’è un senso delle radici fortissimo. Mi sono spinto fino al confine tra Brasile e Argentina, nel sud, in una località nello stato di Rio Grande do Sul, Alegrete, ove c’è questa comunità di discendenti di emigranti Laurioti, che io disconoscevo e che disconoscevano tutti i miei concittadini. Invece è abbastanza numerosa. I Laurioti si sono spinti fino in quelle terre marginali. E lì c’è una memoria molto forte. Quando sono arrivato lì mi hanno detto una cosa significativa: «Professore, lei è il primo Lauriota che viene qui dopo 150 anni». Non ci era andato mai nessuno, neppure a trovarli. E ho trovato tracce veramente importanti. L’emigrazione l’ho studiata, ma poi viverla in queste dimensioni inevitabilmente ti dà anche una visione differente.

d - Volevo chiederle proprio questo. Sul tema “Lucani nel mondo”, le nostre istituzioni si spendono e spendono anche molto, non senza suscitare polemiche. C’è infatti chi ritiene che il tutto si riduca a mandare qualche burocrate o politico in vacanza in qualche posto esotico, per qualche tempo. Secondo lei, quale utilità può esserci nel conoscere e nell’intessere rapporti coi discendenti dei Lucani emigrati?

r - In questa fase il fenomeno va problematizzato. I rapporti -istituzionali, politici, culturali- con le realtà dei lucano-discendenti, non riguardano le associazioni, anche perché perlopiù animate da persone ormai già avanti negli anni. C’è però tutta una dimensione di terza, quarta generazione, che è molto interessata a questo discorso -al di là dell’ambito associativo- e riconosce nella terra d’origine anche una terra di opportunità. Certamente le attuali direttive del governo Meloni -nel limitare la possibilità di ottenere la cittadinanza solamente ai discendenti italiani massimo di seconda generazione- rischiano di penalizzare e di perdere questa platea (che sicuramente va disciplinata, perché comunque ci sono stati abusi).

d - Perché, cosa sarebbero intenzionati a fare, i lucano-discendenti?

r - Questi rapporti, soprattutto con queste generazioni più giovani, sono molto utili a far sì che la Basilicata rompa il suo isolamento e soprattutto che si inneschi all’interno di un discorso più globale. Queste persone sono mediamente individui con un alto grado di istruzione, con una grande capacità di costruire relazioni.

d - E potrebbero venire in Basilicata?

Potrebbero venire in Basilicata in forma temporanea o permanente, ma potrebbero aiutare anche tanti Lucani ad attivare canali di interesse professionale, culturale, che sono fondamentali per far sì che la Basilicata non viva nel suo solito isolamento. Io ci credo molto, e l’ho visto, e credo che ci sia una dinamica che vada tutelata e valorizzata. Poi, se questo porta qualche politico, consigliere comunale, regionale, a farsi la vacanza, beh, credo che sia inevitabile, beati loro. L’importante è che però questo rapporto e questi processi vengano governati con una visione; anche al di fuori del folklore, perché spesso il problema è che l’immigrazione esaurisce la sua rappresentatività in letture stereotipate o appunto folkloristiche. Questo non deve avvenire. Anche perché l’immigrazione ha una storia, e in quanto storia ha una sua scientificità e va affrontata problematizzandola.

d - Quali differenze ci sono tra l’emigrazione lucana di allora e la “fuga dei cervelli” di oggi?

r - Sono proprio contrario alla retorica della “fuga dei cervelli”, perché sennò cadiamo in una lettura condizionata, viziata, per cui tutti quelli che restano sono i fessi e non hanno valore, e tutti quelli che vanno fuori sono i migliori. Non è così. E’ chiaro, però che maggiore è il know-how, maggiore è la possibilità di emigrare, perché chiaramente le opportunità di impiego di quell’intelligenza qui non ci sono (ed è anche giusto conoscere il mondo). Tuttavia le dinamiche che caratterizzano l’attuale situazione migratoria, soprattutto dei più giovani, rispetto all’emigrazione di 150 anni fa, sostanzialmente sono sempre le stesse: la ricerca e il riconoscimento della dignità. Un ragazzo che studia e si forma vuole che la sua professionalità venga riconosciuta innanzitutto per una questione di dignità personale, che poi si lega anche a una forma di soddisfazione. Tra quelli che vanno via, sia ieri sia oggi, c’è chi ci riesce a farsi riconoscere questa dignità, ma c’è anche chi non ci riesce. Quindi la dinamica è esattamente la stessa. Che cosa ci dice questa cosa? Che dovremmo essere molto più attenti a valutare con dignità le forme di espressione professionale e culturale. A prescindere dai lavori che si svolgono. Anche perché ormai ad emigrare dalla Basilicata non sono mica solo i “cervelli”. Ci sono anche i giovani a bassa formazione che vanno in altre regioni a svolgere mansioni a bassa qualifica.

d - Quale dovrebbe essere la prima regola per riconoscere, qui in Basilicata, questa dignità? La meritocrazia?

r - No, il salario. La prima regola è pagare il lavoro per quello che vale, per quello che esprime. E in una situazione di inflazione galoppante, nonostante in Basilicata il costo della vita sia ancora mediamente accettabile, ci sono anche salari mediamente più bassi. Per cui, riconoscere e pagare il lavoro dignitosamente è la prima forma per trattenere le persone su un territorio. E soprattutto per farle ritornare.

d - Lei ha anche fatto una ricerca sulla devozione alla Madonna di Novi Velia, che accomuna il territorio di Lauria, tutta l’area sud lucana, al Cilento. Cosa chiederebbe alla Madonna di Novi Velia per la Basilicata?

r - Da studioso, da lucano e da agnostico, chiederei una società che sappia conservare la sua capacità di integrare le necessità. Io sono tornato in Basilicata dopo tanti passati anni all’estero e in giro per l’Italia, e sono tornato perché qui avverto ancora il senso di comunità. Però, chiaramente, essendo il nostro un territorio inevitabilmente marginale, è anche più fragile, e quindi questa comunità è insidiata anche dalle dinamiche di carattere consumistico, individualistico che segnano il nostro tempo e mi piacerebbe che invece fosse una terra di resistenza verso queste forme dell’isolamento umano.

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

Amico, farmacista professore, avvocato, sindaco, ragioniere, senatore, deputato, consigliere; se sei cancellarese, un po’ di salsiccia a qualcuna di queste persone la devi pur dare, specie se ti ha fatto un favore (o simili).

Il professor Giuseppe Biscione, già docente di lettere, “battezza” l’intervista con i versi di una sua poesia dedicata, ovviamente, alla salsiccia di Cancellara (Pz), e agli aspetti “socio-politici” del goloso salume. Biscione, infatti, da diversi anni dedica la sua attività di scrittore, poeta e saggista principalmente al recupero della memoria, della tradizione e del dialetto del suo paese d’origine, che –a suo dire- può essere sì specchio di una certa realtà comune a tutta la Basilicata, ma con qualche…”aggravante”.

D - In questa poesia ci sono due punti che trovo molto interessanti. Il primo è questa sorta di “maledizione”, cioè il dover regalare, in quanto cancellarese, la salsiccia un po’ a tutti, specie per ricevere favori. Quanta salsiccia è circolata per queste ragioni?

R - Tanta, tanta, perché poi il cancellarese -e non so se è un pregio- si affida molto agli altri; e per ricevere favori che cosa può dare di buono se non il salame di Cancellara? Diciamo che è quasi una forma di baratto.

D - Quindi è lecito pensare che sia professionisti sia anche amministratori e politici abbiano mangiato la salsiccia di Cancellara.

R - Sicuramente. Io stesso ho fatto mangiare un appuntato barese per non fare il militare, e ci sono riuscito grazie alla salsiccia.

D - E poi c’è un altro punto importante che lei tocca verso la fine della poesia: ci sono degli eventi dedicati alla salsiccia cancellarese (la sagra di san Biagio il 3 febbraio e il festival che cade al settembre), ma poi il paese si svuota.

R - Il paese sta morendo. E’ in atto proprio un esodo e anche quei giovani che risiedono ancora a Cancellara, per strada non si vedono (ormai lavorano -o meglio giocano- o studiano in casa). Quando ero giovane io, eravamo in tanti per strada, mentre adesso non c’è più nessuno e sono rimasti gli anziani. I figli degli emigrati non ci vengono più, perché non trovano più i nonni. Non hanno più nessun motivo per ritornare al paese delle radici e delle origini.

D - Questo è un ritratto che si può adattare a moltissimi -se non a tutti- i paesi lucani.

R - A Cancellara ancora di più. Nella vicina Oppido, per esempio, c’è già più vita. Noto che ci sono maggiori manifestazioni, anche culturali, nei paesi limitrofi. A Cancellara c’è una sorta di apatia, e io cerco di smuovere culturalmente attraverso queste pubblicazioni.

D - Freschissimo di stampa, non ancora presentato, c’è questo “L’astinenza, l’anello, la patrùna: tre commedie al femminile nel dialetto di Cancellara”, tratte da Aristofane, Terenzio e Goldoni.

R - “L’astinenza” è un adattamento da Aristofane. Il testo originale parla delle donne ateniesi e spartane che optano per la castità, pur di convincere i mariti a porre fine alla guerra. Io ho trasportato questi avvenimenti nell’ambito ristretto cancellarese, laddove è capitato -in passato- che famiglie intere non si parlassero più per colpa della politica. E nella mia versione è la moglie del sindaco in primis a convincere tutte le donne a non concedersi più, fino alla fine delle ostilità. “L’anello”, da Terenzio, presenta un riscatto della signorilità sia della nuora sia della suocera (spesso figure vituperate). Ne “La patrùna”, tratta da Goldoni, ci sono tutti gli stessi personaggi del “La locandiera”, ma spostati da Firenze a Cancellara. La motivazione alla base del libro è quella di abituare i ragazzi alla recitazione, al teatro, e in più, riscattare le donne che si sono sentite offese da una mia precedente pubblicazione.

D - Infatti, a microfoni spenti, mi accennava a quel suo libro, “Proverbi detti e sentenze, una bibbia laica tramandata in dialetto”...

R - Nel testo c’è una sezione riservata alle donne e al matrimonio e quindi c’è tutta una successione di proverbi “in negativo”; e così parecchie signore, dopo la presentazione, nel farsi mettere la dedica sul libro si lamentarono di essere state “maltrattate”. Io, ovviamente, feci presente che si trattava di proverbi tramandati dagli antenati, non certo opera mia. E allora ho cercato di rifarmi con queste tre commedie al femminile.

D - Tra l’altro, lei mi diceva che detti e motti locali sono un po’ tutti uguali in Basilicata.

R - Non solo! Ci sono proverbi che si ritrovano anche in Germania, in Francia. Questi proverbi hanno di solito due tipi di derivazione: ci sono quelli tramandati oralmente dagli anziani, ma anche quelli che sono ripresi da frasi, da citazioni di autori universali (Cicerone, Sallustio); sono rimasti nelle orecchie di chi le ha sentiti, sono stati tramandati e si sono riversati via via in Cancellarese, Oppidano, Acheruntino, così come si ritrovano persino in Friuli.

D - Ma perché questi vecchi proverbi maltrattano le donne?

R - Beh, prendiamo quel detto che si può tradurre con “Femmine, ciucci e capre hanno tutti la stessa ‘capa’”. O “chi dice donna dice danno”. Sono il frutto di una misoginia che era tipica del passato. Basti pensare a come erano trattate le donne greche, che non potevano partecipare a certi eventi etc; il guaio è che questa cosa ancora persiste, nonostante tutto il rumore che si fa per il femminismo. Margherita Hack diceva che bisogna ammirare Eva, piuttosto che denigrarla come causa del peccato originale, perché era comunque una donna curiosa.

D - Il suo libro d’esordio è stato “Parole per non dimenticare”, una sorta di dizionario cancellarese...

R - E’ un dizionario, però sui generis, ove ci sono indicazioni sulle origini delle parole (molti vocaboli nostri derivano dal greco, ad esempio). E’ quello a me più vicino affettivamente, perché molte parole -alcune riportate anche in copertina- me le scriveva mamma per darmi un numero di termini su cui ragionare.

D - Lei è d’accordo con quello che ci ha detto la professoressa Del Puente, ovvero che salvaguardare il dialetto significa non far sparire alcune cose, perché se sparisce la parola, sparisce dalla memoria anche l’oggetto o il concetto a cui si riferisce?

R - Con la Del Puente sono d’accordo su tutto, specialmente sul suo accanimento in positivo per il dialetto lucano; ha fatto tanto e sta facendo tanto, anche se non è ben sovvenzionata. Diciamo che la parola dialettale è “plastica”: se dico “salita” o se dico “discesa”, io so cosa significa, ma non vedo, non immagino. Se invece dico “cap’ a mont’”*, mi figuro con la testa verso il monte; se dico “cap’ abbadde”*, vedo la testa verso la valle. Quindi c’è plasticamente la raffigurazione del significato di quei significanti. Nel dialetto c’è tutta la nostra storia.

D - Quindi non si tratta di recuperare parole, detti e proverbi solo in chiave “museale”. Come spiegare a un giovane di Cancellara che il suo dialetto è importante, persino utile?

R - Io l’ho fatto anche insegnando il Latino. Dicevo ai miei studenti, ad esempio, che “discrimen” è sì una parola latina, ma che loro ce l’avevano tutti in testa: la scriminatura! Ho utilizzato il volgare per far capire che è attuale, anzi, che è molto più vicino alla nostra lingua madre che l’Italiano stesso. Ad esempio, nel cancellarese non c’è il condizionale (“veness’ se putess’”*), ma il condizionale non c’è neanche in Latino. Così come il tempo futuro non esiste in cancellarese: non dico “verrò”, ma “aggia venì”* cioè “devo venire”. Dunque il cancellarese molto spesso serve pure per capire la dinamica della lingua.

D - Perché, secondo lei, non esiste il tempo futuro in diversi dialetti lucani? Può suonare come una metafora?

R - Mmm...perché siamo fatalisti, evidentemente; “così deve andare”, diciamo noi. Non ci sono slanci, proiezioni in quello che sarà, perché francamente non abbiamo la strada spianata.

*l’ortografia è dello scrivente

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di Walter De Stradis

 

Il 24 giugno 2025 si è spento Alvaro Vitali, attore simbolo della cosiddetta “commedia sexy all’italiana”, quella delle maestrine, delle infermiere di notte, dei buchi voyeristici nella doccia e …di Pierino. Con la sua scomparsa, si chiude definitivamente un capitolo del nostro immaginario collettivo, forgiatosi in un’Italia diversa, magari a tratti più “pecoreccia”, ma sicuramente meno retorica.

Curiosa e toccante la coincidenza: esattamente quindici anni fa, il 6 giugno 2010, Vitali si esibiva in una delle sue ultime apparizioni pubbliche a Potenza (o forse proprio l’ultima), in contrada Montocchio, durante i festeggiamenti del “Santissimo Redentore”. Una serata di periferia campagnola, semplice e autentica, dove il pubblico accorse numeroso per salutare “Pierino”, un po’ più vecchio e bolso, sì, ma sempre lui. Una vera maschera della commedia dell’arte popolare.

Quel giorno, immortalato da un articolo pubblicato il 12 giugno 2010 su Controsenso Basilicata, Vitali fu il cuore pulsante della festa. Non solo per lo spettacolo atteso sotto il palco, ma per la sua incredibile disponibilità fuori scena: firmava autografi, posava per foto con anziani, bambini e coppie, scambiava battute e raccontava aneddoti con la spontaneità di sempre. “Una cosa rara, con tutti questi vip che se la tirano” commentava Mario Bellitti, organizzatore della serata. Durante l’intervista rilasciata allo scrivente a margine dell’evento, Vitali ripercorse con disincanto e ironia la sua carriera: dagli esordi con Federico Fellini, che lo scelse per “Amarcord” colpito dalla sua genuinità, fino ai successi travolgenti nei panni di Pierino, emblema di un'Italia spensierata, ma anche desiderosa di leggerezza.

Con lucidità anche amara, Vitali rifletteva sulle difficoltà del cinema comico popolare a ritrovare spazio negli anni Duemila. Denunciava la scomparsa dei grandi caratteristi (“Renzo Montagnani, Mario Carotenuto...”), ma anche la trasformazione delle attrici che un tempo spiava “dal buco della serratura”, ora divenute produttrici affermate e distanti da quel mondo. Non mancavano le critiche al cinema dei Vanzina, “volgare e strapagato”, a suo dire troppo ricco di parolacce gratuite e poco genuino: “Io le dicevo al momento giusto”.

Significativo anche il ricordo del suo tentativo di emanciparsi dal ruolo comico con “Malìa – Una Vergine di nome Maria”, film del 1975 sequestrato dalla magistratura, e l’amarezza per i tanti progetti mai andati in porto: “Pierino Stecchino”, “Gli antenati tua e de Pierino”, tutti bloccati tra questioni legali e beghe produttive. Eppure, in quella domenica a Montocchio, Vitali non aveva smesso di sognare: annunciava con entusiasmo una nuova sceneggiatura, “Pierino in villeggiatura”, in cui avrebbe recitato accanto alla moglie e compagna di scena Stefania Corona.

Non è mai certo se quel film fu realmente girato. Ma oggi, a distanza di quindici anni, quella sera di festa assume un sapore speciale, quasi da proustiana madelaine “cinematografica”. Non una première hollywoodiana, non un festival blasonato, ma una sagra di quartiere, tra panini, bicchieri di vino e bambini (di tutte le età) che intonavano il motivetto di “Se sei come me…”.

Alvaro Vitali non è stato solo Pierino. È stato –nel bene e nel male- un’icona nazional-popolare, un interprete di razza, spontaneo e senza sovrastrutture, un attore che ha saputo far ridere milioni di italiani con un semplice sguardo di traverso, un gesto, ma anche con la satira di grana grossa: si pensi a “Pierino medico della Saub” del 1981, nel quale l’impareggiabile eterno ripetente rimedia addirittura una laurea in medicina ad Addis Abeba (!) e va lavorare in una struttura pubblica. Pensate un po’.

Ci mancherà.

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

Pr e s s o c h é

nell’indifferenza

generale, dopo

novantatrè anni

di onorato servizio, chiude

la libreria più antica di

Potenza, la “Paoline” di

via Mazzini. L’unica di

quel "brand" (che cura

prevalentemente, ma non

solo, editoria cattolica)

rimasta in regione. Il 30

giugno prossimo, infatti,

sarà l’ultimo giorno di

lavoro per le gentilissime

Ilaria Calia (che vi lavora

da 29 anni) e Donatella

Lorpino, in un esercizio

che ha quasi un secolo

di vita. Un documento

dell’Istituto "Pia Società

Figlie di S. Paolo" (a capo

delle Edizioni Paoline),

datato 30 marzo 1982,

conferma infatti che –a

seguito di una concessione

del vicario generale mons.

Enrichetti del 1930- la

libreria “Paoline” fu

aperta a Potenza nel 1932

«in fondo al Corso, cioè

vicino a Porta Salsa» e

che «alla fi ne del 1932

la libreria fu trasferita in

via Pretoria». A seguito

del Terremoto dell'80, ci

spiegano le due libraie, la

sede fu spostata (nel 1981)

dal locale sito nei pressi

della chiesa della Trinità

(ove ora insiste una nota

gioielleria) in quello,

divenuto altrettanto

storico, di Via Mazzini.

Dopo il 30 giugno, il

locale in questione,

dal canto suo, sarà

probabilmente venduto,

anche perché le Suore

Paoline, proprietarie,

non sono più presenti nel

capoluogo, avendo ritirato

la comunità di Potenza nel

1991.

Ma come e perché si è

giunti alla chiusura di un

presidio culturale così

importante per la Città?

«Si vende poco, non si

realizza il necessario per

pagare i fornitori e noi

dipendenti»: i motivi

a monte sono vari, ci

spiegano Ilaria e Donatella,

e vanno da ragioni di

carattere generale (la crisi

dell’editoria, specie quella

cattolica, gli acquisti

online che –maggiormente

dopo il Covid- hanno

messo in ginocchio il

commercio al dettaglio),

ad alcuni di rilievo più

propriamente “locale”.

E qui vengono le dolenti

note, perché la chiusura

della libreria più vecchia

di Potenza (decisa dal

Governo della Provincia

Italiana delle Suore

Paoline) è uno degli effetti

d e l l ’ i m p o v e r i m e n t o ,

culturale e non solo, che

ormai da anni stringe in

una morsa, sempre più

tenace, il Capoluogo.

«Tutto ciò accade in una

città che sta morendo,

nell'indifferenza, sotto

tanti punti di vista –

affermano Ilaria e

Donatella- I seminaristi

a Potenza ormai sono

pochi rispetto al passato,

e se prima venivano qui in

libreria settimanalmente,

adesso la maggior parte di

loro (quei pochi) acquista

online. Si aggiunga che

L’Istituto di Scienze

Religiose, altra risorsa

importante per noi, è stato

spostato a Matera. Le

parrocchie? Sono poche

quelle che si fanno vedere

da queste parti».

Nonostante le due librarie

abbiano ampiamente

diffuso a mezzo social

e whatsapp la notizia

(mentre parliamo entra

un cliente che esprime

il proprio rammarico),

Ilaria e Donatella –che

saranno le prime, col

licenziamento, a subire

gli effetti della chiusura finora

non hanno ricevuto

visite né messaggi di

solidarietà da parte delle

istituzioni, tanto laiche

quanto religiose: «Le

suore hanno sicuramente

parlato con la Curia,

ma noi, almeno una

parola dalle istituzioni

(politiche e religiose)

ce l’aspettavamo. Non

accusiamo nessuno,

ci mancherebbe, e ci

rendiamo conto che ci

sono tante priorità, ma

almeno un confronto lo

avremmo gradito». Dal

canto nostro, al momento

di andare in stampa, non

abbiamo trovato alcun

tipo di comunicato (né

da parte del Comune,

né da parte della Curia),

relativo alla chiusura della

storica libreria. Ilaria e

Donatella ci tengono però

a ringraziare sentitamente,

col cuore cioè, tutti coloro

che hanno sostenuto la

libreria in questi anni.

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«M

i definisco una “suonatrice di arte”, perché vengo dallo studio accademico e quindi dalla tradizione classica; tuttavia, a un certo punto, ho intrapreso lo studio della tradizione dei "musicanti girovaghi", sia dal punto di vista puramente musicale sia soprattutto antropologico. Da quel momento c’è stata una svolta totale nel mio approccio alla musica e all’arte in generale».

Si definisce una “outsider”, l’arpista e cantante Daniela Ippolito, quarantaduenne nativa di San Mauro forte (Mt), che è stata anche una pupilla prediletta di Antonio Infantino, forse per la sua capacità di intonare i canti tradizionali con una voce a tratti davvero “contadina”. Ma sulle corde della sua arpa “viggianese” (procuratevi il cd “Disincantati incanti”, del 2021) persino il rock e il blues sono di casa.

d - Daniela, spendiamo due parole su questi “musicanti girovaghi”, ricordo in merito un bel testo di Graziano Accinni.

r - Questa tradizione -soprattutto tra Sette e Ottocento- ha caratterizzato inizialmente Viggiano, ma poi anche altri paesi della Val d’Agri e della Val Saurina. Non a caso si parla di suonatori di “arpe viggianesi” che hanno intrapreso viaggi “temporanei” alla volta del mondo, e non esagero. Ciò che li caratterizzava era il fatto di svolgere d’estate altri lavori (in particolare erano contadini), per poi d’inverno spostarsi, all’inizio soltanto alla volta di Napoli, e poi anche verso Parigi, a Londra, addirittura ci sono tracce in Russia e negli Stati Uniti d’America. E questo in un’epoca in cui anche spostarsi da una contrada all’altra era problematico. Le loro arpe “viggianesi” erano un po’ più leggere rispetto anche a quelle celtiche, ma era peculiare che loro le portassero a spalla.

d - Lei tuttavia è della provincia di Matera...

r - Già, ho conosciuto questo strumento quando ero in collegio a Matera e studiavo in conservatorio; circolava un cd (frutto delle ricerche del professor Pino Gala) con della musica “superstite” di questa tradizione (che in realtà alcuni davano per estinta già ai tempi della Prima guerra mondiale). E mi prendevano in giro perché io studiavo musica classica, con tanto di spartito. Pertanto sembrava quasi una sfida, il fatto di doverla suonare a orecchio, questa musica, ma poi col tempo è diventata la “mia” musica.

d - La sua musica è condita anche di altri generi, molto diversi. Le è mai capitato che qualche “integralista” le contestasse di suonare con l’arpa persino il rock?

r - Eh sì, è capitato perché ci sono gli integralisti nel mondo classico e ci sono gli integralisti negli altri generi musicali; ma quello che mi ha affascinato della tradizione è proprio il valicare tutti questi confini, non solo geografici, perché la musica evolve in maniera naturale ed è chiaro che se c’è uno scambio -persino anche un contrasto- tra generi musicali o esseri umani, ne nasce sempre qualcosa.

d - Pertanto è probabile che qualche arpista di Viggiano, trovandosi a New York, con l’arpa abbia suonato anche jazz.

r - Secondo me è probabile tutto: non abbiamo testimonianze scritte, però da ciò che si legge -soprattutto dai giornali e interviste coevi al fenomeno- si evince che quei giorvaghi alla fine erano in grado di suonare qualsiasi melodia ascoltassero. Ecco, mi piace credere -forse anche un po’ pretestuosamente- che loro abbiano per certi versi inventato quella che oggi chiamiamo “musica etnica”, o “world music”.

d - Una volta Viggiano e la Val D’Agri erano noti per i musicisti girovaghi, oggi per il petrolio: cos’è successo nel frattempo?

r - Io penso che si tratti del naturale cambiamento degli eventi; alla fin fine, una terra così piccola come la Basililicata sta evolvendo come sta evolvendo il resto del mondo, ci piaccia o meno.

d - I musicisti possono avere un ruolo in tutto questo?

r - Lo chiede alla persona sbagliata, perché io sono una “outsider” per definizione, proprio per il mio modo di approcciare la musica che è estremamente libero e anche “borderline”, mi conceda il termine.

d - Cioè la musica non deve per forza avere un significato, non deve essere per forza una forma di ribellione?

r - Secondo me, fare il musicista di professione -oggi come oggi- in una regione come la Basilicata, piena di associazioni senza scopo di lucro, è già una forma di ribellione.

d - Cosa vuol dire essere musicista professionista qui da noi?

r - Vuol dire combattere con la propria autonomia stilistica di pensiero e anche con il proprio esempio di vita, nel bene e nel male.

d - Le istituzioni aiutano i musicisti locali o il musicista non deve avere bisogno della politica?

r - Io penso che non debba avere bisogno della politica, credo che questo status di professionista lo si possa ottenere lavorando in autonomia, appunto con una partita IVA. Tutto il resto mi pare soprattutto un modo per non considerare come un lavoro quello del musicista. E, chiaramente, venendo io da quella tradizione in cui comunque la figura del “musicante” non era inquadrabile dal punto di vista giuridico, mentre di fatto rappresentava una forma di sostentamento, mi sento più vicina a quel mondo che a quello attuale.

d - Ma si riesce a vivere di musica in Basilicata?

r - Sì, se si riesce a guardare non solo alla Basilicata, ma anche a quello che offre il mondo. Rispetto ad altre regioni, diciamo che noto delle differenze nei meccanismi di ingaggio, perché quando mando un progetto fuori dalla Basilicata, la prima cosa che mi chiedono è se sono “in regola”, invece qui tutto passa un po’ ...così (sorride).

d - Il pubblico nostrano ama la tradizione solo alle feste e d’estate?

r - Nel pubblico lucano -pur proponendo degli spettacoli abbastanza “estremi” (arpa e voce "a nudo" non sono di facilissimo ascolto)- comunque noto che c’è tanto affetto e anche tanta voglia di conoscere ciò che fa parte delle origini, e c’è anche una sorta di orgoglio quando vengono recuperati canti antichi, e da questo punto di vista ho avuto sempre riscontri positivi qui in Basilicata.

d - In che maniera si è documentata sulla tradizione?

r - Come tutti, attraverso ricerche precedenti alle mie, tuttavia per quanto riguarda il canto tradizionale, non mi sono documentata, sono nata in un contesto, quindi per me è stato estremamente naturale riprendere quello che ascoltavo da bambina e che continuo ad ascoltare oggi in giro per le colline. Allora le mie vicine di casa cantavano a San Mauro, così come si cantava nelle cantine durante le feste, durante le processioni e da lì insomma è iniziata la passione per il canto.

d - In che misura oggi questa cosa esiste ancora, per esempio a San Mauro?

r - A San Mauro rischiava di sparire perché non c’era più la processione del Venerdì santo e neanche quella del Sabato santo, in cui era tradizione appunto cantare, però negli ultimi anni c’è stata una sorta di “presa di coscienza”, soprattutto da parte di quei pochi giovani, e si è ripreso a cantare anche alcuni temi tradizionali. Però ci sono anche dei paesi in cui fino a pochi anni fa si è continuato a cantare con i cori, tipo a Oliveto Lucano, ove c’era una tradizione di canti devozionali in dialetto magnifica, e alcune cose sono riuscita a recuperarle. Ci sono dei canti meravigliosi, commoventi, addirittura un rosario, un canto di devozione a Sant’Antonio, a San Cipriano...

d - Ecco, siamo giunti al punto. Tutto questo ricchissimo e variegato patrimonio lucano (che altrove ci invidiano) riusciamo -come politica, come associazioni, come artisti, come giornalisti- veramente a preservarlo e a promozionarlo come merita?

r - Io credo che valga molto di più l’iniziativa di ogni singolo suonatore, musicista, cantore, cantante eccetera, perché non si può sempre far conto su “forze esterne”, o dall’alto; bisogna comunque valorizzare quello che si ha e a un certo punto anche senza aspettative. Personalmente, ho notato proprio che quando si sono abbassate le aspettative ho lavorato in maniera molto più serena. Bisogna anche accettare un po’ l’idea che le cose possano cambiare e basta.

d - C’è un canto, una canzone che è sua o che lei esegue nei live, che in qualche modo dovrebbe fungere da colonna sonora di questa intervista?

r - Proprio perché siamo a giugno, mi viene in mente un canto su Sant’Antonio, di Oliveto Lucano. È molto, molto triste e commovente, ma a un certo punto fa emergere la vera pietas, come dire, il vero amore, la vera fede (ne canta alcuni passaggi- ndr). Mi fermerei su questa strofa, con questa donna che vede passare la giustizia, e cioè le forze dell’ordine, ma a un certo punto il figlio le muore. “Perché?” chiede a Sant’Antonio, e questi le dice che a quindici anni sarebbe stato impiccato, quindi, alla fin fine, le ha fatto una grazia. E come si dice, “O c’è grazia o c’è giustizia”.

 

 

 

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GO AND VOTE

Referendums are crucial opportunities for democratic participation, allowing citizens to directly shape the future on issues related to fundamental rights and the direction of Italian society as a whole. These being abrogative referendums, they would require at least 50% plus 1 of the eligible voters to make them work.

On Sunday, June 8, and Monday, June 9, 2025, Italian citizens eligible to vote are called to the polls to express their choice on five abrogative referendums as provided for by Article 75 of the Constitution. The questions, declared admissible by the Constitutional Court concern key issues related to labour and citizenship. The labour referendums seek to restore job reinstatement for workers unfairly dismissed, going beyond the simple financial compensation currently provided. The other question is on reduction from 10 to 5 years of legal residence in Italy required for the non-EU adults to apply for citizenship. This reform would bring Italian citizenship law in line with many European countries, promoting greater social integration for long-term residents. It would also allow faster access to civil and political rights, such as the right to vote, eligibility for public employment, and freedom of movement within the European Union.

This particular referendum has been widely, but mistakenly, confused with earlier debates around ius soli and ius scholae focused on granting citizenship to children born or educated in Italy. In contrast, the current referendum is more narrowly focused: it aims to amend Italy’s 1992 citizenship law by adjusting the timeframe for naturalization and not its foundational principles. We need to remember that in most European and Western democracies, five years of legal residence is the standard requirement for naturalisation. Countries like France, the Netherlands, Belgium, Portugal, the United Kingdom, and Ireland adopt this threshold, often alongside integration requirements such as language proficiency and civic knowledge.

As of today, Italy has one of the lowest rates of naturalisation among the long-term foreign-born residents. Comparative estimates show that only 35 percent of immigrants with 20 to 24 years of residence in Italy have acquired citizenship, compared to the EU average of approximately 53 percent. Academic literature shows that access to citizenship has positive casual effects. Immigrants who naturalise and become citizens experience lower unemployment rates, earn higher income, they are less likely to be overqualified for their jobs and experience a stronger sense of belonging, which in turn encourages active participation in the labour market. These ‘’new’’ citizens are less into criminal practices mainly for the sense of belonging and the pride of being integrated. The last Eurobarometer on the integration of immigrants, reports that 87% of Italians believe that acquiring Italian citizenship is an important factor for the successful integration of immigrants in Italy. We only hope that a high number of that 87% would go to the polls on Sunday and Monday to give a sense of purpose to their expressed opinion.

Considering some of the advantages of being citizens; such as faster integration, reduction of crimes and delinquencies, this call for votes should be totally out of the usual debate between the right and the left-wing parties in the country’s polarised political environment of today. There ought not be any tactic urging people to abstain in order to invalidate the vote, for if the referendum succeeds in meeting the turnout threshold, it would mark a significant victory for efforts to modernise Italy’s citizenship legislation to the advantage of the whole country irrespective of the political creed.

Pura Vida

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

Quest’anno, in tema di festeggiamenti del santo Patrono (e di relativa Parata dei Turchi) ci saranno pure state diverse polemiche sul personaggio di “Civuddina” (o meglio, su chi doveva interpretarlo), ma –da otto anni- il volto di “Sarachella” (o “Sarachedda”) è indiscutibilmente quello di Valentino Dapoto, classe 1975, di professione panettiere, attore vernacolare per passione. Sarà infatti ancora lui, con l’inconfondibile coppola da commedia dell’arte di casa nostra, a cavalcare la “Iaccara” (condotta dai “Portatori” della stessa), il 29 maggio prossimo, nei panni della maschera ufficiale della Città di Potenza. E scusate se è poco.

d - Valentino, per chi non lo sapesse, chi era Sarachella?

r - Un giovane molto giocoso della Potenza di una volta, sempre con la battuta pronta. Uno che non la mandava mai a dire, ma il lavoro non faceva per lui. Di conseguenza, mangiava poco, quando poteva. Il nome “Sarachella” deriva dal fatto che mangiava sempre le “sarache”, le alici. E le portava sempre con sé. Un personaggio mitico.

d - Mitico, sì, perché fin qui abbiamo parlato delle ricostruzioni che hanno fatto scrittori e studiosi (in primis Lucio Tufano), sul personaggio reale che ha ispirato la maschera popolare.

r - Sì, infatti.

d - Lei da quanto tempo lo interpreta e perché?

r - Sono “Sarachella” da sette7otto anni. Tutto iniziò perché Tonino Centola (che quell’anno curava l’edizione della Parata), mi aveva visto a teatro (faccio parte della compagnia dialettale di Gigino La Bella) e -forse perché gli ero piaciuto- mi propose di fare il personaggio. Io accettai subito.

d - Anche se, a microfoni spenti, mi diceva che lei all’epoca non sapeva chi fosse Sarachella.

r - Infatti. Non lo sapevo, Poi, chiaramente, mi hanno spiegato tutto. E poi, man mano che lo interpreti…

d - …un po’ ci diventi.

r - Sì! Infatti, per strada, molti non mi chiamano Valentino, ma mi salutano con un “Uè, Sarachè!”. A Carnevale molti bambini si vestono da Sarachella, essendo diventata la maschera ufficiale di Potenza, e quando mi incontrano, mi riconoscono e vogliono farmi partecipe di questa cosa. E ti fa sentire orgoglioso di quel che stai facendo.

d - La sua vita un po’ è cambiata.

r - Ma sì, sinceramente sì. Oramai mi identificano con il personaggio. Mi fa piacere. E poi lo faccio per la mia Città; è bello far parte di una manifestazione che si aspetta per tutto l’anno.

d - Come funziona l’operazione “iaccara”?

r - La “iaccara” è un cero votivo, un fascio di canne che si porta a spalla. Io, durante la Parata, ci sto sopra (cosa non facilissima), mentre viene condotta dai “Portatori della Iaccara”. Io li sfotto un po’, ma so che fanno una fatica enorme: è lunga all’incirca dodici metri e pesa circa dieci quintali. La preparazione inizia a gennaio/febbraio, con la raccolta delle canne (di solito ci chiamano gli amici e ci dicono di andare nei loro campi) e la pulitura. Poi man mano si costruisce.

d - Con l’Associazione i “Portatori della Iaccara” quest’anno avete deciso di organizzare molti eventi nella piazza della Torre Guevara. Ci saranno mostre e altre iniziative.

r - E’ stata una scelta azzeccatissima, perché si tratta di ridare valore al Centro della città, avvalendosi di una risorsa che è stata “liberata” e che è giusto utilizzare. In questo modo si allunga tutto il tragitto della festa, fino alla Torre. La “Iaccara” dovremmo “salirla” in Centro questo sabato (oggi, per chi legge – ndr) e l’accensione avverrà, come sempre, davanti al Comune, in Piazza Matteotti, al termine della Parata dei Turchi.

d - La preparazione della festa di San Gerardo quest’anno è stata caratterizzata dalle polemiche sul personaggio del “Gran Turco”. Inizialmente si era parlato della sostituzione del figurante che da anni lo interpreta, poi -più recentemente- si è scoperto che i “Civuddina” quest’anno saranno due, visto che nella Parata è stata introdotta una figura molto simile, il “Visir”. Lei cose ne pensa?

r - Il mio parere personale è che “Civuddina”, uno è. Un altro “Civuddina”? La vedo sbagliata come idea, ma non sta a me decidere.

d - Ma se un domani venisse qualcuno a dirle, “Guarda, dobbiamo accontentare anche un altro che ci tiene a fare Sarachella”…

r - A quel punto sarei io a farmi da parte, tranquillamente, perché metterci due “Sarachella” sarebbe fare un Carnevale.

d - Tra l’altro lei di lavoro fa il panettiere, una cosa molto legata a Sarachella.

r - Legatissima! La leggenda vuole che lui –che viveva in uno di quei “sottani” di una volta - si riscaldasse nei pressi di un forno del Centro.

d - Cosa le piace di più della sua città?

r - Innanzitutto, ci tengo a premettere che sono tifosissimo del Potenza.

d - Quindi quest’anno è un po’ deluso?

r - No, affatto! E’ andata benissimo, ben oltre le aspettative iniziali. Per quanto riguarda la città in sé, si vive bene, si mangia bene, si sta tranquilli. Solamente, la città la pubblicizzerei un po’ di più, cercherei di far venire più turisti. Ripeto: dobbiamo valorizzare di più la Torre, adesso che ce l’abbiamo.

d - Quindi va tutto bene?

r - Sì, trovo sbagliato lamentarsi. Certo, ci sarà sempre chi la vuole cotta e chi la vuole cruda…

d - Ma se “Sarachella” potesse dire qualcosa al sindaco, o al governatore…

r - Gli direi: date, ma veramente, più spazio, al centro storico. Fatelo vivere! Non lo chiudete! I giovani vogliono vivere e il Centro è l’anima della città. Fate più iniziative.

d - Il Centro lo vede anche lei morente?

r - Sì, lo vedo in difficoltà, e anche i negozi chiudono, porca miseria. E’ un peccato! Il centro storico DEVE essere il cuore pulsante della città! Quando ero piccolo io, l’obiettivo era sempre andare “Sopa Putenz”. E quindi, “Sopa Putenz’ ‘anna viv!”.

d - Vogliamo fare un invito ai Potentini per queste festività patronali?

r - E’ anche inutile farlo, perché i potentini –specie negli ultimi anni- hanno sempre dimostrato attaccamento alla Parata. Da quando sfilo io, ho visto ogni anno sempre più gente, soprattutto dopo il Covid, quando c’era paura di uscire. E io ho visto una rinascita, vedo bella gente ed è una cosa stupenda.

d - Ma quando la Parata finisce, cosa succede?

r - Arrivati davanti al Comune, a evento finito, ci liberiamo. Ahhh! Perché portare la “iaccara” è una cosa pesante, ma c’è la gioia di avercela fatta, un altro anno ancora.

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«Si narra che la statua lignea di San Rocco fu abbandonata nelle campagne di Tolve dalle truppe francesi in ritirata nel XVI secolo - leggenda coerente sia con l’origine francese del Santo che con le guarigioni miracolose dalla peste che, nella realtà storica, venne diffusa proprio dalle truppe francesi.

Il crescendo del culto rocchiano è confermato dai registri dell’Archivio Parrocchiale di Tolve, dai quali si rileva come fra la fine del ‘600 e inizio del ‘700 il nome Rocco diventi il più diffuso nell’area.(…)

La salvaguardia e la conservazione del culto per il Santo viene tramandata e trasmessa nelle varie generazioni attraverso la processione annuale e il materiale dei pellegrini che lasciano in dono a San Rocco.

I fedeli dell’intera area dell’Alto Bradano e di tutta la Regione ogni anno, in due date separate si recano presso la città Santuario in segno di devozione a “Santi Rocco”».

Queste brevi note espunte dal sito istituzionale dedicato al “Patrimonio culturale intangibile della Regione Basilicata” (https://patrimonioculturale.regione.basilicata.it) possono risultare utili a comprendere -a quei quattro/cinque che ancora non lo sanno- il “peso” che il culto di San Rocco ha nel tessuto religioso e culturale di Tolve (Pz) e di tutta la Basilicata.

Nei giorni scorsi (per la precisione il 13 maggio) in tal senso si è registrato un evento di rimarchevole portata (anche per il modo peculiare in cui si è giunti al risultato), ovvero la presentazione ai fedeli dell’immagine sacra del Santo (cioè la “leggendaria” statua lignea), così come è stata restaurata. Un evento, come ci spiega il parroco della Basilica/Santuario, don Francesco Martoccia, che aveva tenuto in non poca apprensione i fedeli di Tolve.

«Dopo diversi mesi di restauro –afferma il parroco- è stata riconsegnata alla devozione dei fedeli l’immagine sacra di San Rocco. Qui nella basilica c’è stata la celebrazione della Santa messa e subito dopo un breve momento con la ditta Marinelli di Picerno -che ha realizzato il restauro- in cui è stato presentato ai fedeli l’intervento eseguito».

d - Entriamo maggiormente nel dettaglio.

r - E’ innanzitutto opportuno dire che, congiuntamente al restauratore Giuseppe Marinelli e alla dottoressa Barbara Improta della Soprintendenza (Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Basilicata - ndr), dopo la scorsa festa patronale (settembre 2024), avevamo notato diverse lesioni, oltre a distaccamenti pittorici, presenti sulla statua di San Rocco. Nell’approfondire -togliendo la parte superficiale di pittura e stucco- è emersa una lesione molto importante nella parte posteriore e pertanto di è dovuti intervenire, in maniera anche abbastanza repentina, per consolidare la scultura e consegnarla ai posteri nello stato migliore possibile.

d - Tra l’altro, mi risulta si sia reso necessario addirittura una sorta di esame “clinico” sulla statua stessa.

r - Sì, grazie alla disponibilità del dottor Domenico Maroscia e della dottoressa Patrizia Grignetti, sono state effettuate anche delle vere e proprie radiografie, proprio perché i restauratori avevano bisogno di capire cosa ci fosse all’interno (eventuali vuoti, inserzioni di ferro) per poter poi intervenire sulle parti più danneggiate.

d - Com’è stato accolto dalla comunità questo piccolo-grande evento?

r - Beh, all’inizio non bene, dobbiamo essere sinceri (sorride).

d - Come mai?

r - Sa, quando si mettono le mani su una scultura così importante dal punto di vista storico, artistico e soprattutto devozionale, è normale che tra i fedeli, specie la gente semplice, ci sia un po’ di apprensione. Noi abbiamo voluto che il restauro fosse effettuato qui in basilica, a Tolve, proprio per permettere a tutti i devoti di visionare le varie fasi del lavoro.

d - Temevano si rompesse del tutto.

r - Sì, il timore c’era, però in quanto parroco so di aver messo la statua in ottime mani. Il restauratore Giuseppe Marinelli e il figlio Nicola, oltre a essere restauratori lucani affermati, sono delle persone molto competenti. Hanno fatto davvero un ottimo lavoro.

d - Ripropongo un po’ il tema ricorrente nelle nostre interviste a esponenti della chiesa: secondo lei c’è qualcosa da “restaurare” nel rapporto con la comunità dei fedeli, o va tutto bene da questo punto di vista?

r - Beh, c’è sempre da fare qualcosa in più. Noi siamo in linea con le indicazioni della Chiesa universale; seguiamo il magistero del Papa; abbiamo accolto con grande gioia l’elezione di Papa Leone XIV. E poi seguiamo la spiritualità liturgica, sempre. La Chiesa ci esorta alla conversione, al miglioramento, al cambiamento. Ma anche nella pietà popolare, nella devozione del popolo, c’è sempre da migliorare; innanzitutto nell’adesione al Signore, e poi nel seguire i modelli, belli, della fede cristiana che sono la Vergine Maria e appunto San Rocco e tutti i nostri Santi.

d - Quindi lei non registra alcun “scollamento”, come magari ci è stato riferito e registrato altrove (capoluogo compreso)? Si ritiene soddisfatto dell’affluenza dei fedeli e del loro rapporto con la chiesa locale?

r - Io credo che i nostri piccoli paesi lucani siano ancora delle “isole felici”, all’interno delle quali la maggior parte degli abitanti ancora si definisce “credente”, “cattolica” e anche abbastanza praticante. E’ chiaro che, dopo il Covid, anche confrontandomi con altri sacerdoti e parroci, abbiamo notato un leggero calo delle presenze; tuttavia le persone che frequentano, vivono in maniera intensa la Fede nei confronti del Signore e la devozione verso la Madonna e i Santi.

d - Il Santuario di San Rocco è una risorsa anche turistica. Non è certo un compito che spetta a lei, tuttavia le chiedo ugualmente se ritiene che sia sfruttata bene o se magari sarebbe lecito aspettarsi più gente a Tolve e/o una migliore proposta.

r - Noi stiamo lavorando tanto. Negli ultimi anni la parrocchia ha collaborato molto con la Soprintendenza, con l’Apt, con l’amministrazione comunale, con la Regione Basilicata, proprio nel tentativo di rilanciare la devozione popolare anche dal punto di vista turistico. Stiamo cercando di restaurare e adeguare le strutture del Santuario, onde poter accogliere i pellegrini in maniera sempre migliore. Ovviamente, la questione prettamente turistica non compete a me (dovendo curare la dimensione spirituale, religiosa), però ci sono altre componenti della comunità (diverse associazioni locali) che curano bene anche questo aspetto.

d - Tocchiamo il tema dello spopolamento e della povertà: se il tolvese medio oggi dovesse chiedere un “miracolo” a San Rocco, secondo lei quale sarebbe?

r - La gente chiede il lavoro, per poter restare in Basilicata, una terra che ama molto, ma tante volte si è costretti a emigrare perché mancano occupazione e servizi. Purtroppo anche io, in questi miei anni di sacerdozio, ho visto tanti giovani andare via per mancanza di lavoro, e forse il miracolo che chiedono davvero, per intercessione della Madonna, di San Rocco e di tutti i Santi, è proprio quello. Se c’è occupazione, c’è benessere e le famiglie possono restare nei nostri paesi e arrestare questo brutto spopolamento al quale stiamo assistendo.

d - E se potesse avere un dialogo franco con il presidente della Regione, cosa gli chiederebbe/suggerirebbe?

r - Innanzitutto lo ringraziamo per quel che sta facendo in questi anni. Io sento la Regione Basilicata vicina al territorio e anche questa amministrazione si sta impegnando per fare tutto il possibile. I miracoli, ovviamente, li può fare solo il Signore; noi uomini possiamo solo mettercela tutta per prodigarci sempre più per il bene comune.

d - Cosa ne pensa del nuovo Papa? Il fatto che sia americano rasserena alcuni, ma “preoccupa” altri, in tema di politica e equilibri internazionali.

r - Ritengo che lo Spirito Santo abbia mandato nuovamente il Papa giusto al momento giusto. Papa Leone XIV mi sembra un uomo di grande spiritualità; noi sacerdoti e comunità cristiana siamo fortemente emozionati perché ha ridato nuovamente centralità alla figura di Cristo e al messaggio evangelico. E poi sicuramente si adopererà per fermare queste guerre che stanno dilaniando l’umanità e per far sì che la pace possa sempre di più affermarsi sulla Terra.

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Nella giunta comunale di Colobraro nominata dal sindaco con decreto n. 11 del 24 aprile scorso è assente la componente femminile. In una nota la consigliera di parità della Regione Basilicata, Ivana Pipponzi, ha diffidato l’amministrazione comunale ad annullare con urgenza e in autotutela il decreto sindacale e a nominare contestualmente la nuova giunta rispettando la quota di genere.

“E’ stata accertata – ha spiegato la consigliera – la presenza di donne elette nella compagine di maggioranza e la loro disponibilità a farne parte. E’ stata anche verificata l’assenza di azioni o procedimenti legalmente previsti per includere donne in giunta, come richiede la giurisprudenza consolidata del Tar di Basilicata. Anche se nei Comuni al di sotto dei tremila abitanti non si applica la legge Delrio, la rappresentanza di genere nelle istituzioni deve essere garantita ai sensi degli articoli 3 e 51 della Costituzione. E’ fondamentale includere le donne in tutti i processi istituzionali al fine di scongiurare e vincere quell’odioso divario che è ancora presente nelle nostre comunità. Invito, dunque, il sindaco a ritirare l’atto di nomina e a prevedere nella nuova giunta la presenza di donne. Questo è non soltanto un atto doveroso da parte del mio ufficio ma anche uno stimolo culturale volto all’inclusione femminile”.

Pipponzi ha ricordato che alla Consigliera di parità sono attribuiti poteri di controllo e vigilanza ai sensi del decreto legislativo 198/2006, riservandosi di ricorrere al Tar in caso di inottemperanza. La nota è stata inviata al Prefetto di Matera per i provvedimenti conseguenziali.

Fonte: https://agr.regione.basilicata.it/post/pipponzi-giunta-di-colobraro-senza-quota-di-genere/?fbclid=IwY2xjawKRiYtleHRuA2FlbQIxMQBicmlkETB4SFRpcTY4TTVoQ1dyVTJuAR6JCTaVKR5oWxSUXVrSw2hWz0Imr3Gx1LQmYZ-9MDtKxmx0ozwwaT_1Vcy8LA_aem_rpLgAN6RdKebeRJnNaIbSw

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