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di Walter De Stradis

 

 

 

Se i suoi calcoli sono corretti, qui a Potenza potrebbe aver allenato sette/ottomila ragazzi.

Francesco Castrataro, per tutti “Mister Cecchino”, è stato infatti per quarant’anni l’allenatore del settore giovanile del Potenza Calcio, ma sicuramente anche qualcosa di più, dal punto di vista umano.

La sua casa in via Anzio è piena di trofei, fumetti e giornalini (di cui è amatore e collezionista), ma soprattutto di ricordi, cristallizzati in un gran numero di foto, ammucchiate in scatoloni o appese sulle pareti di stanze in cui Cecchino, se può, evita di entrare. Per non essere sommerso dalle emozioni.

d - Perché la chiamano tutti, da sempre, mister “Cecchino”?

r - (Ride) Perché ero un “bomber”.

d - Lei di dove è originario?

r - Di Sala Consilina, in provincia di Salerno.

d - Quindi lei si è trasferito qui a Potenza da giovane?

r - Sì, avevo vinto il concorso a Roma per la Ragioneria generale dello Stato. Per ragioni di famiglia (mia madre era sola, poiché mio padre era morto in guerra, in Africa Orientale), chiesi di essere trasferito proprio a Potenza. Mi volevano mandare a Napoli, ma rifiutai. Che bello, mi ricordo ancora quando arrivai qui con la macchina, e c’era la neve.

d - E Potenza vi è piaciuta per quello?

r - Ahhh, che cosa bella. I ricordi sono tanti.

d - Com’è che avete iniziato a fare l’allenatore delle giovanili del Potenza?

r - Alla Ragioneria Regionale qui a Potenza, conobbi Cerverizzo, un dirigente della società, che veniva in ufficio a riscuotere i mandati di pagamento, poiché aveva una sua impresa. Parlavamo sempre di calcio, finché lui non mi portò al Potenza.

d - Lei infatti aveva già avuto esperienza di calcio.

r - Avevo giocato nella Pollese e in altre squadre campane. Ma grazie all’invito di Cerverizzo iniziò un’altra vita. Cominciai ad allenare i giovani, era più o meno il 1964. E quante avventure. A Matera, poi, non ne parliamo.

d - La sfida eterna.

r - Con le giovanili, a Matera avevamo sempre perso. Arrivato io, si fecero le finali regionali. Chi vinceva, andava a fare i campionati nazionali, era una sfida che si ripeteva ogni anno. Quella volta Peppe Catalano (che poi andò a giocare in serie A) fece tre gol meravigliosi e per noi finì l’incubo Matera.

d - Quanti altri calciatori importanti ha allenato?

Colonnese, Stenta... Vito Stenta l’ho cresciuto io.

d - Ma, in quarant’anni, più o meno, quanti ragazzi potentini (o del circondario) ritiene di aver allenato?

r - Mah...nell’altra stanza ho uno scatolo pieno di cartellini, coma usava allora. C’è tutto lì.

d - Immagino che solo una parte di questi ragazzi poi siano effettivamente diventati calciatori; tutti gli altri ve li siete ritrovati chi in banca, chi al comune, chi al catasto...

r -...per la miseria! C’è chi è maresciallo dei Carabinieri... Ricevo telefonate continue. Nelle foto appese in casa mia...lì ci sono tutti i giocatori.

d - E quando ne incontrate uno...cosa vi dicono, di solito, i vostri ex allievi?

r - Mi vogliono troppo bene. Per loro sono il ricordo più bello. Oltre a essere un allenatore di calcio, li seguivo in tutto e per tutto. Persino a casa loro, se fumavano, io mi arrabbiavo moltissimo. «Se fumate, non giocate più», gli dicevo.

d - Vi sentivate quindi anche un educatore?

r - Un educatore, sì.

d - Qual è il valore più importante che avere sempre cercato di inculcare nei vostri giovani giocatori?

r - La serietà, lo studio, il rispetto e l’essere uomini.

d - Quanta gente vi deve dire grazie?

r - Senza esagerare, sette o ottomila persone.

d - E c’è stato qualche ingrato?

r - Uno solo.

d - E’ diventato famoso?

r - Sì.

d - Un ricordo su tutti?

r - Sono tanti. Tanti e tanti... Avrei dovuto scrivermeli. Ricordo la finale dei Campionati italiani Allievi. Tra gli avversari c’era Ancelotti, che giocava, non so, mi pare fosse la Carrarese. Le squadre allora andavano per semestri, era questione di pochi giorni perché un giocatore passasse dagli Allievi negli Juniores; e proprio lui che era “fuori semestre”, e non avrebbe potuto giocare, segnò il gol della vittoria contro di noi.

d - E quindi il suo ricordo più bello è una sconfitta?

r - No, il ricordo più bello è stato a Castelfiorentino, dove ho conosciuto Roberto Baggio. Perdemmo in finale con la sua squadra, e Baggio ci fece due gol. In porta noi avevamo Catalano, diventato successivamente preparatore dei portieri del Potenza Calcio. Era il periodo di Pasqua, e il torneo durava cinque giorni; l’autista era fidanzato, però, e ci lasciò a piedi a Castelfiorentino. Avevo la responsabilità di ventidue ragazzi, fortuna che ci ospitò il convento! Comunque, un nostro giovane giocatore era proprio di Castelfiorentino, e morì purtroppo in un incidente stradale, mentre tornava nel suo paese. Se volessi raccontare tutto, ci vorrebbe un mese. Di ricordi belli però ce ne sono tanti...dovrei aiutarmi con le foto.

d - Il calcio lo segue ancora?

r - Porca loca!

d - E oggi, secondo lei, è cambiato il modo di intendere il calcio, anche da parte dei giovani?

r - Male, male. (scuote la testa – ndr). Oggi nel vivaio del Potenza, giocatori di Potenza, a parte qualcuno, quasi non ce ne sono. Io invece curavo tutti i ragazzi della città. Erano tutti di Potenza.

d - Vi piace il Potenza di adesso o vi desta qualche preoccupazione?

r - Tira a campà.

d - Quale consiglio dareste all’allenatore o al presidente attuale?

r - Non saprei dire, perché so che non è una cosa facile.

d - Quale deve essere, in primis, la caratteristica di un buon allenatore?

r - Essere un padre. Un allenatore scorbutico strada non ne fa. Mi ricordo che l’allenatore del Potenza, Mancinelli, mi voleva bene, e veniva a vedere le partite della mia squadra in giovanile. In buona parte le giocavamo al campo della Figc. E Mancinelli, che si sedeva sempre in tribuna a vedere le nostre finali regionali, diceva: «Cecchino è il più grande allenatore del settore giovanile».

d - E come cittadino, Potenza vi piace ancora?

r - Per me Potenza è sempre meravigliosa.

d - Cosa direste al sindaco?

r - Nulla, perché ognuno sa il suo. Potenza mi piace. Qui mi vogliono bene tutti.

d - Fra pochi giorni compie 90 anni. Cosa vorrebbe come regalo?

r - Il regalo già me l’hanno fatto gli allievi, organizzando una festa che si terrà il 22 ottobre, giorno del mio compleanno.

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Con un timbro vocale pacato e una leggera inflessione pugliese (è originario di Molfetta), da pochi giorni l’ingegner Domenico De Pinto è il nuovo Comandante Provinciale dei Vigili del Fuoco di Potenza. Nella sua carriera, ha ricoperto importanti ruoli tecnici e operativi, partecipando alle attività di soccorso in occasione di diversi eventi sismici di rilevanza nazionale, tra cui il terremoto delle Marche nel 1997, dell’Aquila nel 2009 e dell’Emilia Romagna nel 2012

d - Comandante, lei viene qui a Potenza a ricoprire un ruolo molto importante, che nello scorso anno e mezzo è stato ricoperto -ad interim- dallo stesso direttore regionale.

r - Sì, il posto era rimasto vacante, ma in quel periodo è stato ricoperto egregiamente da Vincenzo Ciani, che ha una grandissima esperienza di comando, oltre che di direttore. Grazie a lui, quindi, il Comando non ha subito alcun contraccolpo e tutti i servizi sono andati perfettamente in linea. Tuttavia, va da sé che in ogni Comando provinciale ci vuole una figura di Comandante, con la sua presenza fissa, continua, e i suoi rapporti con le istituzioni locali e soprattutto con il personale: quest’ultimo ha bisogno di vedere la figura di riferimento, che è appunto il Comandante.

d - Trattasi di una figura operativa che...

r - ...è una figura assolutamente operativa. Nella mia carriera ultra-trentennale ho partecipato a numerosissimi interventi di soccorso, anche a livello di calamità nazionale.

d - E adesso si ritrova qui a Potenza, territorio sismico.

r -E’ così. So anche che è in fase di conclusione un piano di emergenza provinciale, nel quale un eventuale sisma rientra tra gli eventi presi in considerazione.

d - Lei è pugliese, quindi un nostro vicino: quali sono le caratteristiche della nostra provincia da attenzionare maggiormente?

r -Mi sono insediato da una settimana e ho bisogno di studiare bene il territorio. Il mio ultimo comando è stato a Foggia, un territorio molto differente; oltre a Foggia stessa, che conta 160mila abitanti, sono presenti tre grandi centri urbani (Cerignola, San Severo e Manfredonia), che insieme ne contano almeno altri 160mila. Per non parlare di una lunga superficie costiera, delle isole Tremiti, del Parco del Gargano e del Subappennino Dauno, che è poi quello che più si avvicina al territorio della provincia di Potenza. Quest’ultima, invece, consta di molti più comuni, più piccoli, su cui si riversano problematiche diverse.

d - A cominciare dai collegamenti.

r -Sì, ho visto: in alcuni casi per raggiungere un posto ci si impiega anche due ore, due ore e mezza. Fortunatamente, Potenza è anche baricentrica rispetto all’estensione della provincia. Tuttavia devo dire che i nostri distaccamenti coprono perfettamente il territorio. Abbiamo una copertura a Nord e un’altra a Sud, alle quali poi sia aggiungono anche due distaccamenti volontari, che per me sono una parziale novità. A Milano, dove ho lavorato, c’erano, ma a Foggia e Barletta no.

d - Interessante. Ci spiega meglio di cosa si tratta?

r -I distaccamenti volontari sono formati da persone che non sono vigili del fuoco permanenti (assunti per concorso); fanno un altro lavoro, ma “a chiamata” raggiungono il distaccamento, si tolgono il cappello da operaio o da professionista, e diventano vigili del fuoco a tutti gli effetti. I due nostri distaccamenti sono a Terranova di Pollino e a San Chirico Raparo. Sono molto operativi e noi facciamo grande affidamento su di essi.

d - Diceva, quindi, che questa cosa non è presente ovunque.

r -No. Cioè, al Nord è quasi normale avere distaccamenti volontari (Torino ne ha una quarantina), che vanno avanti anche per tradizione familiare (con passaggi di testimone tra padre e figlio) e includono anche imprenditori che -come in Brianza- proteggono le numerose strutture presenti, attivando una sorta di auto-tutela (anche se, come vigili del fuoco, ci sono anche per tutto il resto e costituiscono un rafforzamento degli strumenti dello Stato).

d - Come si diventa vigile del fuoco volontario?

r -Di solito l’iniziativa parte dal Sindaco. Nel fare richiesta, questi mette a disposizione una struttura (un “piccolo comando”, che deve essere vagliato da noi, con camerate, bagni, autorimesse, etc.); dopodichè emette un bando, a cui possono partecipare anche i residenti delle città limitrofe. Dopo alcune visite mediche predisposte da noi, superate queste, i vincitori del bando partecipano a un nostro corso, di 120 ore; a quel punto mandiamo tutto l’incartamento al Ministero per l’iscrizione nei quadri volontari dei Vigili del Fuoco. E’ quindi una procedura abbastanza lunga, non è una cosa semplice, ma se c’è la volontà, si fa.

d - Lei ha già incontrato il Prefetto. Cosa si aspetta dalle altre istituzioni?

r -Nulla, perché ho già trovato totale disponibilità. La necessaria collaborazione inter-istituzionale già c’è, quindi non devo fare altro che continuare su questa linea.

d - Cosa chiede invece al cittadino?

r -Non vorrei utilizzare delle frasi fatte, parlando di “coscienza civica”, ma da quel che ho capito, qui già c’è.

d - Però, in base alla sua esperienza, quanti incendi, quante calamità dipendono dal comportamento o dalla negligenza umana?

r -Se pensiamo agli incidenti stradali, agli incendi boschivi etc. direi che un 50% è dovuto a un errore umano, a una negligenza, a un atto, anche non doloso. Ma noi ci siamo anche per questo.

d - Che impressione le ha fatto la città di Potenza?

r -Bellissima.

d - Addirittura.

r -Non è per piaggeria. Potenza non la conoscevo, né il suo territorio. Sono arrivato non sapendo cosa mi aspettasse, sia dal punto di vista del Comando sia dal punto di vista del territorio. Son quindi “salito” -dico bene?- un paio di volte in città...

d - Sì, da noi si dice proprio “salire”, perché il Centro è in alto.

r -Invece Foggia, da dove provengo, è completamente piatta, e io a volte mi muovevo addirittura in bicicletta. Qui ho verificato che forse l’unica difficoltà è “salire” e trovare parcheggio. Però il centro storico...c’è una bella piazza, ci ho passeggiato, c’è bella gente, ci siamo fermati a prendere un bel caffè in un bel bar...

d - Si è sentito a suo agio.

r -Mi ha tolto le parole di bocca, ma mi sono sentito subito a mio agio anche qui al Comando.

d - Ecco, che tipo di situazione ha trovato? E’ soddisfatto del numero di mezzi e di personale?

r -Ho avuto già una prima impressione quando, saputa la mia destinazione, sono venuto a trovare il direttore Ciani (che è stato il mio comandante a Foggia e col quale c’è un grande rapporto di intesa); ho attraversato il piazzale, e ho sgranato gli occhi. Ho visto dei mezzi, nuovi, tenuti in efficienza, puliti, pieni di attrezzature. E li guardavo con un po’ di invidia, perché in quel momento ero ancora in servizio a Foggia. (sorride)

d - Beh, allora, qui a Potenza, una volta tanto, possiamo dare i punti agli altri.

r -Assolutamente sì. E considerate che io ho fatto anche il reggente vicario del Comando di Bari per sei mesi: ovviamente quella struttura ha un’altra grandezza, ma Potenza, in quanto a mezzi, non ha nulla da inviare a nessuno.

d - Vorrei chiudere con una riflessione. A microfoni spenti abbiamo fatto cenno ai due vigili del fuoco di Matera morti questa estate nell’adempimento del loro dovere, e lei mi ha detto che, poco prima di trasferirsi qui, un suo capo-reparto di Foggia aveva perso la vita. Che tipo di riflessioni nascono in un vigile del fuoco quando succedono queste cose?

r - (Silenzio) Guardi, avevo i brividi mentre mi faceva questa domanda. Non è una frase fatta: i vigili del fuoco sono una famiglia. Noi abbiamo una famiglia di sangue (genitori, figli, nipoti) e poi quella dei Vigili del Fuoco. Lavoriamo in turni da 12 ore, siamo sempre insieme, lavoriamo in squadra, perché da soli non siamo nessuno. Si forma quindi un legame affettivo, magari si litiga anche, ma poi si torna come prima: si mangia insieme, si riposa insieme, si festeggia insieme e soprattutto si lavora insieme. E in team lavoriamo guardandoci negli occhi. Quando si perde un collega, si perde un familiare. Nel mio caso, quel collega lo conoscevo praticamente da vent’anni. E l’avevo incontrato due giorni prima dell’evento: c’era stata una bomba d’acqua, lui tornava da un intervento di soccorso ed è stato sommerso dalla piena di un canalone. La sua famiglia adesso è diventata anche la mia.

d - Oltre al dolore personale, in questi quasi c’è magari anche, non so, un rammarico?...Vi sentite tutelati sul lavoro?

r -Noi siamo SEMPRE tutelati sul lavoro. Per salvare gli altri, per tutti gli interventi di soccorso, noi operiamo sempre con tutti gli accorgimenti. Se il soccorritore non opera in sicurezza, mette a rischio se stesso e gli altri. Ci sentiamo assolutamente tutelati, abbiamo mezzi e procedure all’avanguardia. Ovviamente, ci sono degli eventi imprevedibili: un’onda di piena non te l’aspetti, il vento che cambia direzione mentre sei nel fuoco e ti intrappola, non lo puoi prevedere. Ma c’è sempre un lavoro di squadra e un’attenzione altissima, che garantiamo sempre.

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di Walter De Stradis

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intitola “La Spiritualità dell’Arte”, la sua ultima mostra pittorica (visitabile fino al 31 ottobre) allestita presso il Museo Provinciale di Potenza. Il potentino Nino Tricarico, ottantasei anni, è però anche scultore, poeta e scrittore, insomma un “Uomo del Rinascimento”, come dicono gli anglosassoni, che al pari di un fisico quantistico, ultimamente si interroga particolarmente sulla dimensione “Tempo”.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r - In funzione della voglia di volare. A quattro anni ebbi infatti la fortuna di capire il mito del vento. E questo mi ha consentito di mettere in rapporto la mia vita, non solo con la natura, bensì anche con la leggerezza. Quest’ultima, proviene dalla cultura di Napoli, ove ho studiato. Il Napoletano ha infatti la capacità di trasferire tutto, anche le tragedie, in forma di leggerezza. Le racconto un aneddoto: da ventenne ero solito mangiare in un ristorante partenopeo, perché il pasto costava venti centesimi in meno rispetto alla mensa universitaria; e io ordinavo sempre una porzione di spaghetti, chiedendo al ristoratore che fosse abbondante. Puntualmente, invece, gli spaghetti erano pochi, e alle mie rimostranze, quello rispondeva: "Dotto’, non si sono ancora gonfiati!".

d - (risate) Anche il Potentino ha la capacità di trasferire tutto in leggerezza?

r - Sì. Non a caso nella mia mostra c’è un dipinto intitolato “La Città verticale”. Uno storico dell’arte mi disse che l’immagine risultante della città, con tutte quelle “scatole” messe una sull’altra, fosse troppo bella, per Potenza stessa. Ma io la amo, questa città, nonostante tante piccole cose che non vanno.

d - Ci arriveremo. Quando, nella sua vita, ha capito che sarebbe stato un pittore?

r - Beh, sono figlio d’arte: mio padre era decoratore e a suo modo anche poeta (aveva il compito di intrattenere sette figli, di cui io sono il sesto!). A suo tempo aveva lavorato a Stresa, e quando chiedevo a mia madre come mai si fosse innamorata di lui, lei rispondeva: "Perchè aveva i baffetti da spadaccino senza spada, ma soprattutto perché parlava 'di lassù'". Era stata affascinata, insomma, da un tipo di linguaggio che non le apparteneva.

d - E l’arte oggi riesce a parlare il linguaggio del fruitore, del cittadino?

r - Io credo che un pittore non può fare esattamente quello che vuole il cittadino, ma deve essere soggetto al Tempo in cui lavora. Il nostro compito è quello di rappresentare l’estetica e il senso dell’essere a questo mondo, con un’etica molto forte.

d - E com’è cambiata, nel tempo, la sua pittura?

r - Per molti anni ho fatto l’acquerello, perché ti dà la possibilità di dipingere in breve tempo. L’acquerello non vuole il ritorno, è superstizioso: insomma, o lo fai bene alla prima, o è da buttare. In una giornata ho fatto anche acquerelli di due metri per due, perché li avevo davvero dentro. In questa mostra ce n’è uno, “La bolla”, al cui interno c’è il volto di un animale preistorico e il segno di un libro, a coniugare l’ancestrale con l’esigenza di acculturarsi per ogni cosa.

d - Perché questa sua nuova mostra si intitola “La spiritualità dell’arte?”.

r - Quando cammino per Potenza e osservo, non è la percezione che debbo rappresentare, ma la coscienza di ciò che io guardo. C’è dunque una farfalla che transita per discesa San Gerardo, e quando la osservo mi chiedo se il suo tempo sia limitato soltanto al momento in cui vola a destra o a sinistra, o se esso comprenda anche qualche momento precedente, quando era larva e prima ancora bruco. Insomma, ciò che guardiamo e rappresentiamo è la sommatoria di tutti i tempi che lo riguardano. Pertanto, se vogliamo parlare di spiritualità, dobbiamo partire da una nostra presenza specifica nel Tempo che abitiamo.

d - Le faccio dunque una domanda che è rappresentativa del modo di percepire la cultura a Potenza: quante volte le hanno chiesto “Ma tu fai SOLO il pittore?”. A me spesso chiedono se nella vita faccio “solo” il giornalista.

r - Certo. La mostra, è tutto quello che sto facendo, è dedicata a mia moglie, che non c’è più. Ricordo che una sua amica le chiedeva spesso ove trovassi il tempo per dipingere, scrivere poesie e romanzi, andare in tv a fare esperienze da giornalista.... Mia moglie rispondeva: "Va a dormire all’una di notte e si alza alle sei del mattino". Per trovare il tempo di fare tutto ciò che vuoi, devi sottrarre tempo al sonno.

d - Torniamo allora a quelle “tante piccole cose che non vanno” nella città di Potenza.

r - Parlo di una cosa che mi tocca molto da vicino: la provvisorietà delle cose che fanno a Potenza. Non hanno sempre tutti quella professionalità necessaria per fare il lavoro al meglio del proprio ruolo. Ricordo di un libro, e anche di un film, in cui c’è un uomo che pulisce i cessi, ma lo fa con una grande sacralità, perché felice di farlo: questo non accade spesso nelle strutture che sono i nostri luoghi della cultura. Spesso ci sono persone collocate politicamente, nei luoghi sbagliati.

d - C’è dunque la vexata quaestio delle amicizie, delle appartenenze, dell’esterofilia (Tufano sul nostro giornale lamenta spesso la ricerca spasmodica di nomi “da fuori”).

r - Farò ora qualche esempio di quella cultura potentina che è stata messa all’indice e costretta ad andare via dalla città. Il poeta Giandomenico Giagni, di cui è uscita -finalmente- una monografia, per aver detto su un settimanale nazionale cosa mancasse a Potenza (luce, acqua, che si andava ancora a prendere coi secchi), fu costretto ad allontanarsi dal capoluogo (anche a seguito del chiacchiericcio insensato che qualcuno fece circolare su di lui). Qualcosa di simile accadde anche a Vito Riviello, che su richiesta di “Crimen”, adeguandosi allo stile della rivista, aveva scritto di incappucciati potentini che facevano autoerotismo al telefono con le amanti. Ma, d’altronde, se leggiamo le poesie dello stesso Orazio, scopriamo che questi fu incoronato poeta a Roma, una volta andato via da Venosa...

d - “Nemo propheta in patria”.

r - Sempre così è. Vorrei poi fare una riflessione più ampia. Io continuo a interrogarmi sull’essenza del Tempo. In realtà è un battito di ciglia. E la mia mostra è lì a testimoniarlo. Per dimostrare cos’è il Tempo ho riempito una vasca di piccoli pezzi colorati con un motorino per dare movimento all’acqua: all’insegna del “panta rei”, “tutto scorre”: se io spengo il motorino, ottengo sempre un’immagine di quel tempo, che è colorato. Il pittore, se vuole guardare qualche cosa, gli deve dare il colore del Tempo.

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di Walter De Stradis

 

 

A rileggere la trascrizione dell'intervista, si evince che il suo verbo preferito è probabilmente “spingere”.

E ben si comprende, visto che il 25enne Donato Telesca (da qualche mese entrato nella Polizia di Stato come atleta-poliziotto), nel sollevare (cioè spingere in alto) pesi, ha vinto e stravinto dappertutto, battendo record mondiali e collezionato medaglie, ultima in ordine di tempo quella di bronzo ai recentissimi Giochi Paralimpici di Parigi.

L’atleta pietragallese in questi giorni è stato dunque celebrato e festeggiato dappertutto (a cominciare dal suo paese) e quando lo incontriamo al ristorante ha appena ricevuto, assieme alla fiorettista potentina Francesca Palumbo, una medaglia commemorativa dalle mani del presidente del Consiglio regionale Marcello Pittella.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r - Cercando di lasciare un segno, di ispirare le persone. Come? Dimostrando, non a parole, ma con un esempio concreto, che è possibile non arrendersi mai e raggiungere i propri obiettivi nonostante le difficoltà.

d - A sua volta, mi pare di ricordare, lei è stato ispirato dall’esempio di qualcuno.

r - Ho incontrato Alex Zanardi quando ero piccolino. Eravamo in ortopedia e a entrambi stavano preparando le protesi. Conoscere un campione dello sport paralimpico per me è stato importantissimo e sicuramente ha influenzato molto le mie scelte, inculcandomi l’idea di potercela fare. Si può dire che è stata la proverbiale luce in fondo al tunnel. Il faro di cui avevo bisogno.

d - E perché lei scelse la pesistica?

r - Iniziai a praticarla in palestra molto giovane. Capii di aver imbroccato la strada giusta fin dall’inizio, poiché spendevo tutto me stesso, ma non mi pesava. Capii che gareggiare in quel mondo, rapportandomi con le giuste persone, era ciò che mi piaceva davvero.

d - A parte Zanardi, c’è un personaggio a cui deve dire grazie?

r - Sicuramente ad Arnold Schwarzenegger, un idolo che mi ha ispirato col suo esempio: “non importa da dove parti, ma dove vuoi andare”. Lui era un ragazzo con dei sogni, che una volta arrivato in America ha fatto diventare realtà, prima nel bodybuilding, poi nel cinema e poi ancora addirittura nella politica!

d - Schwarzenegger è stato infatti governatore della California per tanti anni; anche lei sogna, magari più in là, di entrare in politica?

r - Guardi, onestamente non so rispondere. Sicuramente vorrei lasciare un segno anche in altri ambiti...se poi il destino vorrà che io entri in politica, beh, dovrà essere in un ruolo che mi consentirà davvero di fare delle cose, perché a me non piace parlare a vuoto. Sono un uomo di sport e se ci sono le condizioni per dare il mio vero contributo, sono lieto di farlo. Mi percepisco come un uomo al servizio della Patria e del popolo.

d - Lei è di Pietragalla, comune in provincia di Potenza. Quando un Lucano ce la fa, siamo un po’ tutti portati a porci una domanda, che le rigiro: lei è andato alla conquista del mondo, ma è stato difficile partire da un piccolo centro della Basilicata?

r - Assolutamente sì. Molto difficile. Qui manca davvero tanto: le visioni, la reale voglia di fare, le persone giuste che ti possano accompagnare. Io ho sopperito a tutto questo con una estrema voglia di farcela, la voglia di spingere più forte degli altri. Ce l’ho fatta, ma non nascondo che è stato difficile. E infatti uno dei miei grandi progetti è proprio quello di consentire alle generazioni future di aver il giusto “ecosistema”, il giusto posto, per raggiungere alti livelli. Ho avuto già modo di accennarne, proprio oggi, al Presidente del Consiglio Regionale, Pittella: cambiare il tessuto sportivo della Basilicata, con il mio esempio e con la mia esperienza. Lui mi è sembrato molto ricettivo e chissà che nel giro di due-tre anni non accada già qualcosa.

d - Ma cosa è mancato finora? Le strutture, il personale formato, le società sportive...?

r - Un po’ tutto. Ma in ogni cosa ce la si può fare comunque, basta mettersi al lavoro con caparbietà e sistemare le situazioni varie. Io l’ho fatto, ma quanto è stato difficile! Il 99% delle persone non ce l’avrebbe fatta. Come dicevo, ci vuole tantissima forza di volontà e a volte si tratta di rimetterci anche di tasca propria. Quante persone lo farebbero? Questa è la vera domanda. Dunque va data una possibilità a tutti quanti, il che di conseguenza porterebbe a più persone formate e a più strutture.

d - Con Pittella ha parlato di un progetto: può essere più specifico?

r - L’idea è quella di una specie di centro regionale, multi-sportivo, di preparazione olimpica. Non parlerei però di “palazzetto”, perché quel tipo di modello ritengo non sia vincente, bensì di una palestra polivalente. Negli ultimi sei anni mi sono allenato nei più grandi centri di preparazione italiani e anche nelle palestre americane, e quindi ho compreso quale può essere il sistema vincente, utile a ospitare atleti, persone che amano lo sport e coloro che vogliono semplicemente allenarsi.

d - Lei attualmente, per ragioni sportive, vive in Campania. Tuttavia, come già accennato, gira per il mondo e spesso fa la spola da e per la Basilicata. Quando torna in questa terra, dopo aver osservato le altre le realtà, qual è la “carenza” che più di altre le salta all’occhio?

r - Quando torno in Basilicata noto desolazione, una situazione molto “spenta”, tanta rassegnazione. C’è una specie di paura del cambiamento, perché non ci è mai stata data la possibilità di vederlo accadere, e siamo scoraggiati. La mia non è una critica rivolta ad alcuno, per carità, ma sono per natura portato a osservare una situazione e a pensare a cosa si può fare in merito. Mancano le infrastrutture? Bene, mettiamoci al lavoro, perché le situazioni di altre regioni dimostrano che non è impossibile ottenere certi risultati. Sa, da sportivi noi siamo abituati a rimbeccarci le maniche, il discorso ci viene più facile.

d - C’è un qualche tipo di domanda, su di lei o sullo sport paralimpico in generale, che la stampa le rivolge sempre e che magari le infastidisce? (Sperando di non avergliela già fatta io).

r - Non credo ci siano domande scomode, se uno ha sempre il coraggio di rispondere. Più che altro a volte c’è il luogo comune, tra la gente, che ci vede come persone con grandi difficoltà che non riescono a fare tante altre cose. La verità è che fra il mondo paralimpico e quello olimpico non c’è alcuna differenza; anzi, nel nostro aumentano le difficoltà. La competitività degli atleti paralimpici ormai ha raggiunto livelli tali da raggiungere quella degli atleti olimpici.

d - Anche a livello mediatico, lo sport paralimpico, ormai da anni, non è più una semplice “curiosità”, come poteva esserlo tempo fa.

r - Certamente. Il mio amico Simone Barlaam, fortissimo nuotatore, nell’ultima gara ha stabilito un nuovo record mondiale: 23”90 nei 50 metri stile libero. Si tratta di velocità che non coprono nemmeno le persone “normali”. Pertanto, se una persona a cui magari manca un piede, riesce a ottenere certi risultati, beh, dimostra che parlare di “sport minori” è ormai quantomeno riduttivo.

d - Anche lei riesce a fare cose che la maggior parte delle persone non potrebbe mai fare.

r - Sì, è così.

d - Il film che la rappresenta?

r - “Rush”: è la storia, vera, dei due corridori Niki Lauda e James Hunt. L’idea è sempre quella di andare sempre oltre, di continuare a spingere sull’acceleratore, di spingere una vita ai limiti delle proprie possibilità.

d - Niki Lauda subì un incidente che avrebbe stroncato la carriera a chiunque.

r - E lui si è rialzato e ha spinto più forte che mai.

d - La canzone?

r - Non saprei dire, non sono un appassionato.

d - Il libro?

r - Beh, il mio! (risate). S’intitola “In piedi” e racconta la mia storia nel dettaglio.

d - Tra cent’anni scoprono una targa a suo nome: cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

r - Domanda profonda. Direi: <<A colui che ha dimostrato che i limiti sono fatti per essere infranti>>.

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di Walter De Stradis

N

onostante avesse 102 anni di età, la notizia della scomparsa di Padre Vitale Dartizio ha colpito la città Capoluogo come il proverbiale fulmine a ciel sereno. Quando lo intervistammo “a pranzo” (solo simbolico, a causa della pandemia), nell’aprile del 2020 (in occasione del suo 98esimo compleanno), su queste pagine lo definimmo un “Inno alla Gioia che cammina su due gambe”. Oggi, nel refettorio di quello stesso convento dei frati minori sito nel rione Santa Maria a Potenza (ove il francescano era stato parroco, per poi tornarci a vivere negli ultimi dieci anni), abbiamo voluto incontrare un suo confratello, il vicario parrocchiale Frate Antonio Monaco -un “giovane” barbuto di cinquant’anni- che si è particolarmente distinto nel cercare di portare avanti quella “fiaccola”, anche attraverso un mezzo di comunicazione che Padre Vitale prediligeva: la radio.

d - Frà Antonio, proprio nello spirito di Padre Vitale, che per tanti anni è stato anche speaker radiofonico coi suoi programmi religiosi, lei conduce dagli studi di “Radio Cantiere”, che si trovano qui in parrocchia, un programma con ospiti, assieme al cantante e poeta Vito Viglioglia.

r - Si tratta di una radio che vuole innanzitutto propugnare i valori cristiani; poi, dal canto mio, seguendo i dettami di San Francesco, cerco di seguire la “via della Bellezza”, tragitto sul quale si incontra Dio. E lo facciamo senza parlare di Fede in modo diretto, ma attraverso gli incontri, soprattutto, con personaggi del mondo musicale e artistico. Abbiamo infatti ospitato musicisti come Graziano Accinni, Danilo Vignola, Antonio Nicola Bruno e il poeta Domenico Brancucci.

d - Lei è infatti appassionato di musica.

r - Sì, mi sono anche cimentato nel songwriting, con alcuni cantautori del napoletano, e ho avuto modo di seguire per due anni un laboratorio di scrittura con Gnut. Il mio genere d’elezione è il country, ma nell’esperienza diretta mi rifaccio al cantautorato italiano, seppur con quel tipo di venature.

d - Dunque non c’è il rischio che i confratelli qui in convento le chiedano di abbassare il volume dello stereo!

r - (Sorride) No, no, io ascolto di tutto. E poi nella buona tradizione conventuale usiamo le cuffie! (risate)

d - Quella di Radio Cantiere è la sua prima esperienza?

r - No, ne ho fatta un’altra, quando vivevo in Campania, nell’ambito della “Gioventù Francescana”. Il programma, assai legato al mondo giovanile, si chiamava “Parlami d’amore”, e io curavo una rubrica musicale. In ogni puntata commentavo un brano di un cantautore. Si trattava anche in questo caso di una web radio.

d - Torniamo a Padre Vitale, col quale lei ha convissuto fianco a fianco qui in convento negli ultimi due anni, e che lascia un grande vuoto in questa città. Aveva 102 anni: è stato lucido fino all’ultimo?

r - Certamente. Poche ore prima di avere il malore, era come sempre lì al telefono, a chiamare gente. Pensi che solo qualche settimana prima aveva portato un gruppetto di persone in pellegrinaggio a Monte Carmine; a maggio, quasi senza dirci nulla, aveva organizzato praticamente da solo un altro pellegrinaggio, a Pompei. Era una figura davvero energica.

d - Celebrava ancora la messa?

r - Certo. Qui a Santa Maria, per via della struttura, concelebrava, ma a contrada Dragonara, nella rettoria del Divino Amore, celebrava ogni domenica, fino all’ultima, prima di avere il malore.

d - Si sentiva tranquillo negli ultimi tempi?

r - Sì, l’unica cosa che diceva -e noi un po’ sorridevamo- era che iniziava a sentire “il peso degli anni” (sorriso generale). Tuttavia continuava a progettare nuovi pellegrinaggi...

d - Ma secondo lei qual era “il segreto” di Padre Vitale? Non so, mangiava poco...

r - No, mangiava come tutti e non aveva nessun segreto particolare. Per come l’ho vissuto io, se dovessi definirlo con alcune parole, direi “Tra tenacia e testardaggine”. Era molto ostinato nelle sue cose e forse era questo il suo segreto. In aggiunta, era un grande ottimista. Una delle sue parole ricorrenti era “futuro”. Aveva sempre questa proiezione. E in una persona di 102 anni, certo faceva riflettere. Era molto attento alle notizie di cronaca e seguiva con molta passionalità tutte le situazioni di conflitto nel mondo; e quando leggeva di un qualche spiraglio di pace, lui subito esultava, come se la guerra fosse già finita. Le cose andavano poi diversamente, come sappiamo, ma lui non smetteva mai di sperare.

d - Lei ha praticamente già anticipato la mia prossima domanda: qual è il più grande insegnamento che le ha lasciato e in che modo lei cercherà di darvi seguito?

r - Portando avanti proprio questo senso di speranza, molto forte. Quando Padre Vitale incontrava qualche giovane gli diceva sempre di andare avanti, di guardare verso il futuro. E poi, nel mio piccolo, come mi ha fatto notare lei (io non ci avevo mai fatto caso!), continuare in questo discorso della radio, raccogliere questa fiaccola e portarla...

d -...nel futuro.

r - Esatto!

d - Tantissimi sono stati i messaggi di cordoglio, sia da parte dei cittadini sia da parte delle istituzioni. Ce n’è stato uno che lei ritiene particolarmente significativo?

r - Più che una frase (in un momento del genere, come sa, le parole sono tante), mi è rimasto impresso un episodio, che più che altro mi ha fatto sorridere. L’altra sera una signora è venuta a pregare davanti al feretro e a un certo punto ha esclamato: «Ah, non ha neanche una ruga!». Questa cosa mi ha divertito, perché è sintomatica dell’impressione di “eternità” che Padre Vitale trasmetteva: molte persone non avevano cognizione di avere di fronte un uomo di 102 anni. Se proprio devo citare una frase, durante le esequie, il Generale dell’Ordine dei frati minori, nel suo messaggio ha ricordato con parole anche divertenti la tenacia di Padre Vitale. Il nostro Provinciale, infatti, a un certo punto -vista l’età- gli aveva chiesto di riconsegnare la patente di guida, e lui a sua volta aveva scritto al Generale, per poter continuare! Ma poi, piano piano, Padre Vitale ha compreso che la guida gli costava fatica e ha accettato serenamente. Mi colpiva davvero, questa sua tenacia.

d - Tornando alla musica, qui in parrocchia, questa estate avete ospitato un evento, “Note di Pace”, che ha visto protagonisti molti importanti artisti lucani e che ha avuto anche un piccolo “riconoscimento”.

r - Lo scopo dell’evento era una raccolta fondi da donare alla popolazione di Gaza, in cui è presente una piccola comunità cristiana. All’inizio, in realtà, dovevamo devolvere soltanto a questi ultimi, ma poi abbiamo deciso di allargare. Abbiamo raccolto una somma non grandissima, ma quei 600 euro ho avuto la possibilità di consegnarli direttamente nelle mani del Patriarca di Gerusalemme, Sua Beatitudine Pizzaballa (che era venuto nella nostra provincia religiosa, a Cava De’ Tirreni, per ordinare quattro frati che sono diventati sacerdoti). In risposta, lui ci ha inviato un ringraziamento formale. “Note di Pace” l’ho organizzata insieme a Vito Viglioglia dei Meteopanik e al presidente dell’associazione “Il Cantiere”, Franco Mastrangelo (che gestisce anche la radio) e stiamo riflettendo sul ripetere questa esperienza, perché è stato anche un momento di riflessione sulla musica lucana, che è così poco conosciuta. In ogni caso, le attività del “Cantiere” continueranno, e ci sono dei progetti che vorremmo inserire nell’ambito di “Potenza Città dei Giovani”...

d - Ma Potenza, secondo lei, è davvero “a misura di giovani”?

r - (Sorride) Secondo me “potrebbe”. Ci sono molti spazi vuoti che potrebbero essere utilizzati per i giovani (in ambito artistico o sportivo), tipo lo slargo a via Mazzini, sovrastante le scale mobili.

d - Un messaggio, un consiglio al sindaco Telesca?

r - Gli chiederei, da vero potentino (fino ai 24 anni ho vissuto sempre qui), di valorizzare una città che ha tante potenzialità, e che deve riscoprire. Gli direi di guardare lontano, non soltanto alle urgenze, ma sopratutto alle possibilità.

 

 

 

 

 

lopez_e_de_stradis.jpgdi Walter De Stradis

 

 

Quando, ogni

notte, negli

studi romani

di Via Teulada,

un ospite di

Sottovoce” sceglie il “suo”

brano, è Dina Lopez ad

eseguirlo al piano e a cantarlo.

Ebolitana di nascita,

«orgogliosamente venosina»

d’adozione, residente a

Potenza da sempre, la cantante

e maestra di canto, da un paio

d’anni, nel celeberrimo salotto

televisivo di Gigi Marzullo su

Rai Uno, sta probabilmente

vivendo il momento più felice

della sua già lunga carriera,

ma senza perdere mai di

vista i “valori” che la musica

può infondere alla vita. E

viceversa.

d- Come giustifica la sua

esistenza?

r- Lo scopo della mia vita è

fare del bene e credere in

Dio. Tutto ciò che faccio è in

funzione di Gesù.

d- E si può far del bene

cantando?

r- Assolutamente sì.

d- Sant’Agostino diceva “chi

canta prega due volte”. Più

in generale, invece?

r- Più in generale, la musica è

aggregazione, un momento

sicuro per voler del bene a

qualcuno. Pertanto credo che

essa stessa sia un dono di Dio.

d- Tuttavia, di recente, al

Premio “Brassens” di

Marsico Nuovo (lei era in

giuria), dal palco è stato più

volte detto che la musica pop

italiana di oggi ha preso una

deriva preoccupante, per

quanto attiene al contenuto

dei testi. Esiste dunque

anche la musica negativa?

r- Assolutamente sì.

d- E qual è?

r- La musica che non viene

guidata, curata, quella che

cresce magari in contesti...

in una società diversa da

quella in cui, fortunatamente,

abbiamo vissuto noi. I

contenuti pertanto spesso

sono sterili, e penso sia una

situazione irrimediabile.

d- Indietro non si torna?

r- Io credo di no. E ci ho

provato, anche, con i ragazzi

della nostra scuola di canto.

Molti non sono assolutamente

disposti a tornare indietro. Ho

trovato, con alcuni di loro,

una vera barriera; con molti

altri, per fortuna, si riesce a

trasmettere il concetto che la

musica è un’altra.

d- Certi ragazzi, insomma,

sembrano attratti da quella

Trap” (chiamiamola così)

con contenuti a volte anche

sessisti.

r- ...sessisti e pieni di parole

sconce. Non mi ci rivedo

affatto. La musica è anche

comunicazione, e comunicare

certi concetti sterili, e a volte

anche aberranti, per me non è

certo una cosa positiva.

d- Magari certi giovani

pensano che quello sia un

modo per avere successo

subito.

r- Purtroppo sì, e a volte

utilizzano persino un

linguaggio che io non capisco.

Ma noi siamo lì apposta, per

poterli ridimensionare, anche

e soprattutto dal punto di vista

tecnico.

d- Una volta perlomeno si

cantava.

r- (sorride) Infatti. La musica

di una volta prevedeva

le cosiddette “fioriture”:

melismi”, “acciaccature”,

mordenti”. Oggi sembra

quasi il contrario: se lei ci fa

caso, in un “Talent show”,

se un concorrente fa cose

del genere, viene subito fatto

fuori. Whitney Houston?

Sorpassata”. Christina

Aguilera? “Troppo blues”. E

così si privilegiano melodie

più “lineari”, con dei testi

a volte privi di significato,

con arrangiamenti sempre

uguali. Sono queste le cose

che piacciono nei “Talent”.

Ma anche le voci stanno

diventando tutte uguali, e

a volte è davvero difficile

distinguere un brano da un

altro.

d- Facciamo un passo indietro:

lei quando ha capito che

nella sua vita avrebbe fatto

la musicista di professione?

r- Devo tutto a mio padre,

il primo ad accorgersi di

questo mio, chiamiamolo

così, talento. A due anni e

mezzo già cantavo bene e a

tre anni e mezzo mi ritrovai

allo “Zecchino D’Oro” col

Mago Zurlì. Vinsi due volte

le selezioni regionali e poi fu

chiamata a far parte del Coro

dell’Antoniano di Bologna.

Ero già stata presa, mancava

solo la firma, ma purtroppo

questa cosa avrebbe stravolto

la vita della mia

famiglia e per

i miei genitori

non fu possibile

acconsentire.

d- La mette nel

c u r r i c u l u m

questa cosa

dello Zecchino

d’Oro?

r- Sa che spesso

mi dimentico

di farlo? Però

di recente

credo di averlo

scritto. Poi sa,

in verità, è mio

marito Stefano

che si occupa

di tutte queste

cose, perché io

spesso faccio

c o n f u s i o n e !

(ride)

d- Molti anni

dopo quella

d e l u s i o n e ,

però, si è presa una

rivincita”, approdando alla

trasmissione “Sottovoce” di

e con Gigi Marzullo.

r- Sì. E’ successo che ho mandato

un provino, ma devo dire

che nel corso degli anni ho

conosciuto diverse persone che

si sono rivelate fondamentali

per il mio percorso musicale.

Ringrazierò per sempre

Enzo Campagnoli (maestro

d’eccezione a Sanremo, dal

curriculum impressionante);

e poi ho avuto contatti con

Mario Rosini, con gente di

grande valore, insomma.

Tutto ciò mi ha convinto che

potevo andare avanti, e quindi

ho fatto il provino, e sono

piaciuta. Marzullo ha deciso

di farmi lavorare con lui.

d- Marzullo le ha detto

qualcosa in particolare?

r- Assolutamente no. E’ successo

che sono andata a fare questo

provino, e c’era il presentatore

di “Agorà”, Roberto Inciocchi

-che io stimo moltissimo- e

ho eseguito un brano di Pino

Daniele (“Vivo come te”). In

realtà quello doveva essere

solo un provino, appunto,

una “puntata zero”, e invece

è andato in onda!  Per me

è stata una vera e propria

apoteosi, mi sono commossa,

sulle prime non capivo

cosa stesse succedendo. Poi

finalmente ho realizzato... e

grazie a Dio sono ancora lì.

d- Fa la pendolare Potenza-

Roma?

r- Sì, e non so se mi trasferirò

mai. Vivere Roma è molto

difficile, ho notato. E poi

non vorrei lasciare la nostra

scuola di canto (“Pianeta

Voce”), che esiste da dieci

anni. Se me ne andassi,

lascerei i miei ragazzi in balia

delle onde.

d- In balia della Trap.

r- Eh sì! (risate). Ma non

generalizziamo, perché ci

sono artisti che comunque

valgono.

d- Lavorare in Rai con

Marzullo l’ha in qualche

modo cambiata?

r- Direi di no, perché io

vivo e continuo a vivere

nell’umiltà. Certo, è un lavoro

impegnativo, che non tutti

possono fare, in cui non ci si

può permettere di sbagliare.

d- A chi le piacerebbe

rivolgere una domanda

marzulliana”?

r- Non ci ho mai pensato.

Marzullo è introspettivo, e le

sue domande non sono mai un

caso. L’ho notato nel corso

delle puntate, quando gli

ospiti si fermano a riflettere,

perché vogliono rispondere

bene.

d- Le suggerisco allora la

domanda che sottopongo a

tutti: “Se potesse prendere

il presidente della Regione

sottobraccio, cosa gli

direbbe?”.

r- Eh. Purtroppo, credo che

qui da noi la musica debba

ancora crescere. Spesso

abbiamo umilmente chiesto

degli interventi, degli aiuti,

ma è difficile essere ascoltati.

Credo che ci voglia un po’ di

varietà nello scegliere anche

gli aspetti musicali e artistici.

Pertanto direi al Presidente:

Per piacere, ci vuole aiutare

a crescere? E magari aiutare

anche persone che non

possono permettersi di pagare

un corso di canto?”.

d- Lei ha fatto anche studi

di etnomusicologia. Se

non ricordo male, una sua

registrazione effettuata “sul

campo” ha portato anche a

una piccola scoperta.

r- Già. Francesco Foschino,

della redazione del giornale

MATHERA”, mi contattò

perché voleva delucidazioni

sul ritrovamento di un canto di

tradizione orale, che si diceva

fosse pugliese. Invece, grazie

ai miei studi -del 2000- sulla

tradizione orale acheruntina,

si è scoperto che quel canto,

presente nella mia raccolta,

potrebbe essere anche lucano.

Il condizionale in questi casi

è d’obbligo, ma l’articolo che

poi pubblicò“MATHERA”

aveva per titolo: «Un caso

risolto».

d- La mia domanda

tormentone: sarà mai

possibile creare qui in

Basilicata, così ricca di

tradizioni musicali, un

evento della portata de “La

Notte della Taranta”?

r- Penso di sì, ma, come dicevo

prima, ci dev’essere la

collaborazione della Regione

e dei comuni. Penso che il

problema sia quello: di natura

economica.

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Nuovi chiarimenti dal ministero del Lavoro per la compilazione del rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile. Il documento, ricorda la Consigliera di parità della Regione Basilicata, Ivana Pipponzi, è un obbligo per le aziende pubbliche e private con più di 50 dipendenti, che quest’anno hanno tempo fino 20 settembre per presentarlo.

Alle aziende è chiesto di riportare informazioni dettagliate sulle assunzioni, sulla formazione, sulle progressioni di carriera e le qualifiche, sull’intervento degli ammortizzatori sociali, sui licenziamenti, i pensionamenti e i trattamenti retributivi del personale. Tutti i dati devono essere suddivisi per genere.

Il ministero, evidenzia la Consigliera Pipponzi, ha chiarito i criteri per il computo della forza aziendale minima di 50 lavoratori al 31 dicembre 2023, specificando nella nota esplicativa che “i lavoratori intermittenti devono essere considerati indipendentemente dall’orario di lavoro svolto; i dipendenti trasferiti nel 2023 in caso di operazioni societarie, devono essere considerati come nuovi assunti dalla società incorporante, la quale deve indicare nelle note del prospetto la ragione sociale e il codice fiscale dell’incorporata estinta; i tirocinanti e lavoratori in somministrazione sono esclusi dal computo”.

Per quanto riguarda, invece, i dipendenti in Cassa Integrazione, per garantire un quadro completo della situazione aziendale sulla mobilità e sul trattamento retributivo “devono essere inclusi nel rapporto tutti coloro che nel corso del 2023 hanno fruito di almeno un giorno di cassa integrazione”.

In riferimento ai dati retributivi, inoltre, “le somme da indicare nel rapporto, comprese le competenze accessorie, devono essere quelle imponibili a livello fiscale e previdenziale”.

Per le aziende con meno di 50 dipendenti la redazione del rapporto è su base volontaria. “L’invito rivolto al mondo imprenditoriale – conclude Ivana Pipponzi – è quello di non sottrarsi all’adempimento ma di compilare in ogni caso il rapporto che, fotografando le varie realtà, ci offre un quadro chiaro del lavoro in Basilicata fornendo un contributo importante per la parità di genere”.

 

 

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landi_e_de_stradis.jpgMentre parliamo, non posso

fare a meno di notare alcuni

dei suoi (molti) tatuaggi.

Due sono dedicati ai

fi gli, un altro, sul braccio

sinistro, raffi gura un leone, probabilmente

il suo lato “animale”. Ma ce n’è ancora di

spazio, su due metri e tre di altezza, per

futuri ornamenti.

Aristide Landi, trentenne campione di

basket potentino (ha vinto gli europei

con la nazionale under 20 nel 2013 ed

è attualmente in forza al Torino, in A2),

fi glio d’arte (il padre Edmondo è stato

una leggenda locale), da quindici anni gira

per l’Italia con successo (Bologna, Roma,

Trieste, Milano), ma ogni volta che torna

nella sua Potenza, man mano gli si delinea

in testa con più chiarezza un “disegno” che

riguarda la sua città.

D - Come giustifica la sua esistenza?

R - La ricollego certamente all’ambito sportivo.

Devo tutto a mio padre, poiché è lui che

mi ha trasmesso questa grande passione,

andavo a vedere le sue partite quando

ancora ero nella pancia di mia madre.

Quest’ultima, invece, giocava a pallavolo;

insomma ho avuto due genitori sportivi

che da sempre mi hanno accompagnato e

assecondato questa mia voglia di emergere.

D - Le sarà mai capitato di sentirsi dire nella

sua carriera: “Ah, sei di Potenza? Ma

Potenza dove si trova? “

R - Sempre. Tutti i giorni. Ma lo vivo come un

punto a favore, è un orgoglio. Anche se torno

a casa una volta l’anno per me rimane una

gioia immensa. Per me questa è casa e guai

a chi me la tocca.

D - In realtà mi ha fornito uno spunto. Suo

padre è stato un grande personaggio del

Basket potentino, mi pare di aver letto a

tal proposito su Facebook un post di un

personaggio politico locale nel quale si

sottolineava che proprio suo padre qui

non è mai stato celebrato come merita.

Lei è d’accordo?

R - In realtà con quel politico, Smaldone, ho

avuto modo di incontrarmi di persona e di

intrattenere una piacevole chiacchierata.

Sono rimasto particolarmente legato

nel tempo alle parole dell’ex assessore

Ginefra il quale aveva dimostrato la

volontà di intitolare il Coni in memoria

di mio padre. Sono a Potenza da qualche

giorno e, insieme alla mia compagna, mi

è capitato di apprendere che ci sarebbe

la volontà, sempre in merito alle sorti del

Coni, di destinarlo ad un progetto differente

e ai cosiddetti “sport minori” come le arti

marziali. Le dico la verità, ne ho sofferto

molto. Mi sarebbe piaciuto che proprio lì,

nella sede del Coni, ci fosse stato un campo

da Basket, magari dedicato a mio padre.

Quando ho saputo che sarebbero stati

privilegiati altri sport un po’ ne ho sofferto.

Io sono nato in quella palestra, andavo a

vedere mio padre giocare anzi, dico di più,

avrei voluto dare una mano durante le fasi

della ristrutturazione, sarebbe stato anche

un modo per fare emergere qualche nuovo

talento locale nella pallacanestro. Con

Pierluigi Smaldone, come dicevo poc’anzi,

c’è stata una piacevole e produttiva

chiacchierata, speriamo che qualcosa si

muova. Vedere il Coni in quelle condizioni

fa male al cuore. Quando si parla del Coni a

Potenza l’associazione con la Pallacanestro

è immediata.

D - Lei è uno dei pochi sportivi di successo

che ho sentito, che parla di fare qualcosa

per la città. Magari al termine della sua

carriera da giocatore ha intenzione di

ritornarci e riversare qui le competenze

e le abilità acquisite?

R - Io ho ancora molti amici che sono rimasti

qui e che sono degli sportivi. Quello che

non riesco a comprendere è come sia

possibile che oltre a me non ci sia stato più

nessun giovane ad emergere nel basket.

Qui ci sono tante società, ma ognuna

lavora per conto suo. Quando stavo a

Bologna, ad esempio, c’erano la Virtus

e la Fortitudo, il top a livello italiano nel

settore giovanile. Ebbene anche tutte le

altre società collaboravano tra di loro. Tutti

facevano squadra per provare a fare un

settore giovanile di qualità. Semplicemente

ci si metteva tutti insieme, mentre qui

questa cosa non accade, ognuno coltiva il

suo orticello. È visibile a un occhio esperto

come il mio che tra le società locali non ci

sia armonia. E questo purtroppo è il nostro

limite.

D - È per questo, secondo lei, che rimane

l’unico a essere emerso?

R - Magari ho avuto la fortuna di nascere con

un talento, ma dietro ci sono tanti sacrifici e

un duro lavoro. Io devo ringraziare Gaetano

Larocca che mi consentiva di tirare al

campetto nei giorni di libertà. Ci rimanevo,

a volte, anche fi no alle due di notte. Vorrei

tanto provare e fare qualcosa di bello per

la mia città, anzi, dopo la chiacchierata

con Smaldone ho buttato giù qualche idea,

magari per la prossima estate.

Non voglio costringerla ad anticipare

qualcosa, ma secondo lei cosa si potrebbe

fare?

Un camp professionale per i giovani. Voglio

metterci la faccia e perché no, sponsorizzare

una società, ma coinvolgendo tutti.

Vedremo.

E secondo lei a strutture sportive come

siamo messi? Potenza è stata anche Città

europea dello sport, ma non se n’è accorto

nessuno.

Di certo c’è molto da lavorare. Io ho

trascorso buona parte della carriera nelle

città top italiane ove non mi sono mai potuto

lamentare delle strutture. Qui ce ne sono

tante, forse pure troppe per le dimensioni

della città stessa, quindi è normale che non

si riesca ad averle tutte perfette, poiché i

costi sono elevati. Le strutture principali

come il Pala Rossellino o la Palestra Vito

Lepore -grazie anche al supporto delle

società che se ne servono- devono però

essere riqualifi cate, specialmente per ciò

che concerne il parquet, i canestri o le

dimensioni del campo. È ovvio che le società

da sole non ce la possono fare, pertanto si

rende necessario anche il supporto delle

istituzioni competenti.

Quando le capita di tornare, come “vede”

la sua città?

Ho trovato tanti locali nuovi e un bel

fermento, specialmente durante il weekend.

Si mangia bene e si beve altrettanto bene.

In merito ai collegamenti direi qualcuno

buono, altri peggiori, ma le buche purtroppo

non mancano mai. Ma qui sto bene e non mi

lamento.

D - Come immagina il suo futuro postbasket?

R - Per ora non ci voglio pensare. Mi piacerebbe

però molto allenare o, chissà, mi dedicherò

agli investimenti che ho fatto.

D - Qual è il suo più bel ricordo in ambito

sportivo?

R - Quando ho vinto l’Europeo Under 20

o la promozione con la Virtus Roma. O

forse anche il mio rientro a seguito di un

bruttissimo infortunio durato otto mesi. Mi

ero fatto male durante una semifi nale per

lo scudetto con l’Under 17, se non sbaglio.

Mi sono rotto il crociato e ricordo che

nonostante tutto mi allenavo otto ore al

giorno solo per fare terapia. Quando sono

rientrato in campo è stata una bellissima

soddisfazione.

D - Viviamo in un Paese di calciatori e

allenatori. Nel caso specifico del Basket,

vi sentite un po’ trascurati dai media?

R - È normale rispondere sì. In Italia gira tutto

intorno al calcio. Qui c’è poca spinta sulla

pallacanestro.

D - Però forse la pallacanestro è anche più

salutare?

R - Tutti dicono che lo sport fa bene, ma non

hanno visto le Tac e le Risonanze (risate

generali, ndr). Insomma lo sport fa bene, ma

puoi avere in futuro qualche problemino.

D - La canzone che la rappresenta?

R - “The show must go on”, anche perché mi

ricorda un periodo duro della mia vita. Ma

ascolto un po’ di tutto.

D - Il libro?

R - Le dico la verità: non sono un lettore.

D - In cosa spera che la Basilicata vada a

canestro”?

R - Bella domanda! Spero che riparta dai

giovani e dallo sport, che penso sia un

elemento che possa in qualche modo

salvare, nel caso specifico, Potenza. Ho

seguito un po’ il Potenza Calcio e ho visto

che c’è un presidente che ha investito

molto. Spesso qui nel Basket non accade,

perché ognuno vuole comandare ed essere

al centro. Basterebbe investire in una sola

società e mirare a giocare in B.

de_stadis_e_votta.jpg

 

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Guardalinee: il signor

Votta da Moliterno”.

Un tempo Ameri, o magari Pizzul,

avrebbe sicuramente annunciato così l’esordio

in serie A (avvenuto

a maggio scorso), del trentaduenne Federico

Votta, giovane dall’aplomb inglese che “nella

vita” segue il commerciale in una ditta di

trasporti e logistica. Linguaggio d’altri tempi

a parte (ma è doveroso segnalare il mancato

aggiornamento in materia dello scrivente), è

opportuno precisare (e anche l’interessato pare

tenerci) che gli “assistenti arbitrali” (termine

più moderno) con la bandierina, al pari degli

arbitri, nel gergo sportivo vengono abbinati al

comune della sezione arbitrale (in questo caso

Moliterno) e non a quello di nascita (sempre in

questo caso, Marsico Nuovo).

D - Da bambini un po’ tutti sognavamo di

diventare calciatori...lei invece sognava di

diventare arbitro?

R - (Sorride) No, a dire il vero, sognavo anch’io

di fare il calciatore, ma poi una serie di

vicissitudini mi ha portato a intraprendere il

percorso arbitrale, di cui mi sono innamorato.

Quel che è certo, è che di base ci vuole

comunque una grande passione per il calcio.

D - Lei ha iniziato come arbitro in mezzo al

campo, facendo molta esperienza in serie

D, e successivamente è diventato assistente

arbitrale, quello che una volta si chiamava

guardalinee”. In questa veste, il 13 maggio

scorso, ha esordito in serie A, nella partita

Fiorentina-Monza.

R - Sì, in serie D ero arbitro, ma non sono

riuscito a passare in C; ho quindi fatto un

corso di qualificazione (messo a disposizione

dall’Associazione Italiana Arbitri); l’ho

superato e ho iniziato dalla serie superiore,

ovvero la C, il percorso di assistente arbitrale.

Dopo cinque anni, ho ricevuto la promozione

alla CAN( Comitato Nazionale Arbitri serie A

e B).

D - Rispetto all’arbitro un assistente arbitrale

ha maggiori o minori pressioni?

R - E’ una cosa molto soggettiva, che in realtà

dipende molto dal nostro approccio. Se guardo

indietro alla mia carriera, mi accorgo che

provavo più tensione in una partita di Prima

Categoria di un certo tipo, rispetto, magari, a

quella di serie A che ho fatto.

D - I calciatori sono molto scaramantici. Gli

arbitri pure? Anche lei fai gli scongiuri

prima di una partita?

R - (sorride). L’arbitro è molto scaramantico, e lo

sono anch’io. E anch’io, come tutti, ho i miei

riti, prima della gara, dopo la gara, o durante

gli allenamenti.

D - E’ difficile ammettere un errore? Cosa si

prova, in quel caso, rivedendosi in tv?

R - I primi ad addolorarsi per un eventuale errore

siamo proprio noi. Ma fa parte del gioco. Così

come un giocatore può sbagliare un calcio di

rigore, un arbitro o un assistere arbitrale può

sbagliare su un fuorigioco o su un fallo. La

chiave di volta risiede in come reagiamo.

D - Lei in serie D ha arbitrato in tutta Italia. Ha

notato differenze tra Nord e Sud?

R - Sicuramente al Sud mi è capitato di arbitrare

gare con un clima ben diverso, magari, rispetto

a gare del Nord, ove c’è un clima più sereno.

Questo dal punto di vista ambientale. Dal

punto di vista tecnico, invece, non ho notato

grandi differenze.

D - Sono sicuro che di aneddoti, anche coloriti,

da raccontare ce ne sono. Le è mai capitato

di dover essere scortato dai Carabinieri? Ha

mai ricevuto minacce?

R - Di aneddoti in effetti ce ne sarebbero. Ricordo

in particolare una gara di Interregionale,

a Palmi, in Calabria. La gara andò bene,

ma c’era comunque molta animosità e i

Carabinieri preferirono scortarci all’uscita

dalla stadio. Ma niente di particolare, in realtà.

Episodi molto eclatanti non ce ne sono stati.

D - Una cosa che in campo la fa particolarmente

arrabbiare?

R - Non me ne viene in mente nessuna, anche

perché sul campo bisogna essere pacati,

evitando di “arrabbiarsi”.

D - C’è una figura alla quale si inspira, in

particolare?

R - Di sicuro, ma preferisco tenerla per me.

(sorride)

D - Ci può dire almeno chi è stato, a suo avviso,

il miglior arbitro italiano?

R - Anche questo lo tengo per me (sorride).

D - Dopo l’esordio in serie A, ci saranno altre

partite?

R - Dipenderà tutto da me. Ogni anno si riparte da

zero. Sicuramente la designazione di serie A è

stata qualcosa di emozionante, un sogno che si

è avverato.

D - Come avviene materialmente?

R - E’ l’arbitro che chiama il team arbitrale. E

quindi, molto semplicemente, mi ha telefonato.

Di lì è scoppiata la gioia.

D - Facile immaginare che finora, sia il ricordo

più bello.

R - Beh, ce ne sono tanti altri. Sa, ciò che ci lascia

questa carriera è anche tutto ciò che c’è

intorno: l’Associazione, la conoscenza di tante

persone in giro per l’Italia, le amicizie che

nascono e che ti porti dietro per anni, anche

fuori dal contesto sportivo.

D - Quanto dura la carriera di un arbitro? E’

più lunga di quella di un calciatore o magari

oggi corre in parallelo?

R - Dai quattordici anni ai quaranta è possibile

frequentare il corso. Poi, tutto dipende dalla

capacità e dalla bravura del singolo nel

superare le varie categorie. Una cosa è certa:

tutti partono dallo stesso punto, ovvero il

settore giovanile, per poi approcciarsi alle

categorie maggiori. In generale, però, la

tempistica è comunque soggettiva.

D - Lasciando lo sport vero e proprio per un

attimo e concentrandoci sulla nostra regione

in generale, la domanda viene facile: per

quali aspetti, la Basilicata, è ancora in

fuorigioco”?

R - Va spesso in fuorigioco perché ancora non ha

una mentalità del tutto aperta su certi temi.

Tende a chiudersi, piuttosto che ad aprirsi,

piena com’è di opportunità e potenzialità.

D - Su cosa siamo ancora... “chiusi”?

R - Direi istruzione, trasporti, logistica. E poi i

collegamenti. Siamo ancora indietro rispetto

ad altre regioni, in termini di treni e aerei, e

questo certo non ci apre alle opportunità che si

potrebbero cogliere.

D - Lei lavora proprio nei trasporti: anche le

nostre strade non sono messe benissimo.

R - Beh, quello dipende un po’ anche dalla

morfologia del territorio, ma è il mio personale

pensiero.

D - A chi dare il cartellino giallo, o addirittura

rosso? Alla politica? Ai lucani stessi?

R - (Sorride). Non mi permetto di dare cartellini

rossi...

D - Almeno un giallo, su.

R - No, no, io faccio l’assistente. Sicuramente,

posso dire che abbiamo margini di

miglioramento, sotto tutti i punti di vista,

dal lato associativo- senz’altro- dal lato

politico e anche imprenditoriale. Qualcosa sta

sicuramente cambiando e stiamo progredendo,

ma si può fare meglio. Dal momento in cui

vedremo il successo di un’altra persona come

un’opportunità per tutta la collettività, e non

come un ostacolo, potremmo sicuramente

giovarne tutti.

D - Ecco, dopo il suo esordio in serie A, la

politica l’ha chiamata per complimentarsi?

Non so, ha ricevuto una targa...

R - Sì, assolutamente. Devo infatti ringraziare

sia il sindaco di Marsico Nuovo, Massimo

Macchia (che mi ha trasmesso la gioia di

tutta la comunità), sia il sindaco di Moliterno,

Antonio Rubino, che tra l’altro è un collega,

nominato da poco presidente degli arbitri

regionali. Mi sono stati vicino entrambi. Hanno

sentito come loro, anche, il raggiungimento del

mio traguardo. Ma anche la classe calcistica

lucana ha gioito di questo risultato.

D - Come presidente dell’Aia di Moliterno, cosa

possiamo dire del rapporto dell’Associazione

con le istituzioni e col territorio? Tutto bene

o qualcosa potrebbe andare meglio?

R - In questi tre anni di presidenza ho sempre

avuto il supporto delle istituzioni per le nostre

iniziative. Va detto, infatti, che noi ricopriamo

anche un ruolo sociale importante: i ragazzi

hanno realmente e concretamente la possibilità

di crescere come persone, di portarsi

l’esperienza arbitrale nella vita.

D - Se dovesse fare uno “spot”, rivolto a un

bambino o a un giovane, cosa direbbe a

proposito della carriera arbitrale?

R - Che ti fa crescere come persona, migliorando

le cosiddette “soft skills” da utilizzare anche

nella vita e nel lavoro.

D - E a lei, nella vita e nel lavoro, cos’ha dato

l’essere arbitro e assistente arbitrale?

R - Mi ha fatto maturare come persona, come

genitore e come sportivo a tutto tondo.

D - Le ha dato più autocontrollo?

R - Mi ha permesso di trovare la versione migliore

di me, anche se è un percorso in continua

evoluzione.

D - Il film, il libro e la canzone che la

rappresentano?

R - Il film “Inside Out”; la canzone “Vado al

massimo” di Vasco; il libro “Semplici strategie

per grandi miglioramenti”, della

bravissima

 

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di Walter De Stradis

 

 

Una volta la curva del Viviani gli dedicò uno striscione in cui si invocavano -anziché i soliti “11 Leoni”- “11 Nolè”. Oggi, a 40 anni, dopo una carriera notevole, arrivando a militare in serie B con Messina e Ternana (e, come ci racconterà, sfiorando anche la A), la seconda punta potentina, Angelo Raffaele Nolè, non sa ancora se continuerà a giocare nel suo Francavilla (serie D, in cui milita dal 2019), o se magari farà “il grande salto”.

d - Raffaele, noi la stiamo intervistando in un momento “di attesa” della sua carriera sportiva.

r - Sì, c’è questo bivio. Stiamo valutando con la società del Francavilla...c’è anche la possibilità di diventare allenatore della prima squadra.

d - Dunque lei ha già il patentino.

r - Sì, l’ho preso a Coverciano quattro anni fa.

d - Quindi, in ogni caso, non sarà un “ex” del calcio.

r - Sicuramente no.

d - Le faccio solo adesso la domanda iniziale: come giustifica la sua esistenza?

r - Col sacrificio. E col non accontentarsi mai. E’ stata questa la mia forza, che mi porto dietro sin da bambino. Ho iniziato a giocare, da solo con i grandi, a sedici anni, in Eccellenza con l’Asc Potenza (dopo il percorso nell’Asso Potenza e prima ancora nella vecchia “Paolo Ferri”).

d - Qual è stato il momento della sua vita in cui ha capito che avrebbe giocato a calcio per professione?

r - Non saprei, è stato un percorso naturale. Già a cinque/sei anni andavo alla scuola calcio, sicuramente ero già proiettato verso questo sport.

d - Tra l’altro lo sport è di casa: sua sorella Francesca è una nota pallavolista. Desumo che i vostri genitori vi abbiano sempre supportati, piuttosto che pretendere -che so- lauree in medicina a tutti i costi.

r - Non si sono mai intromessi, spingendoci casomai a fare con serenità ciò che ci piaceva e ci rendeva felici. Anzi, direi che il problema di oggi è la troppa ambizione e le troppe pressioni che alcuni genitori infondono nei loro figli, aspettandosi che diventino subito come Cristiano Ronaldo.

d - Immagino parli con cognizione di causa.

r - A Coverciano qualcuno ci disse: “Se aprite una scuola calcio, appendente subito uno striscione con la scritta: NON VOGLIAMO I GENITORI”.

d - Addirittura.

r - Eh, sì, se il bambino vede i genitori sugli spalti che lo incitano o lo rimproverano, beh, gli viene l’ansia. E tutto ciò crea difficoltà anche al mister.

d - Vanno a rompere le scatole pure a lui.

r - Ripeto, è un problema che sta avendo questa generazione.

d - Immagino che a Coverciano abbia conosciuto ex calciatori molto famosi.

r - Mi sono ritrovato, da tifoso juventino, con uno dei miei giocatori preferiti, Barzagli, un vero combattente. Ma c’era anche Sorrentino...eravamo un gruppo di sessanta, tutti provenienti da serie B e serie A.

d - Da questi grossi personaggi c’è sempre e comunque da imparare, o magari a volte si riamane delusi?

r - Un po’ e un po’. Di alcuni di loro ti accorgi subito che sono portati per la carriera di allenatore o di dirigente; di alcuni altri ti rendi conto che sono arrivati lì... con un pizzico di fortuna.

d - Il famoso fattore “C”. Lei è soddisfatto della sua carriera?

r - Molto. Perché sono partito dalle “parti basse”, dall’Eccellenza, e sono salito di categoria, ma non grazie al supporto di qualche procuratore, bensì vincendo i campionati: prima l’Eccellenza, poi la D, poi la C2 (la famosa partita col Benevento) e poi ancora la C1 (con la Ternana). Sono infine arrivato in serie B, ma mi è mancato quel piccolo “gradino” finale per salire ancora. E qui c’è un po’ di rammarico, perché mi sono infortunato nel mio momento più bello: avevo ventisette anni, l’età della maturità, e avevo già quasi firmato il contratto col Parma, in serie A. E invece il 26 dicembre mi ruppi il crociato a Padova, in serie B. Tutto sfumato.

d - Come si fa a risalire dopo una grande delusione del genere?

r - E’ stato un momento difficile, perché calcisticamente ero al mio apice (da poco il mister mi aveva dato anche la fascia di capitano). Però, come dicevo, sono uno nato “dal basso”, mi sono fatto da solo, e ho continuato a crederci, col sacrificio.

d - Lei ha sottinteso che i procuratori possono favorire anche le carriere di giocatori mediocri.

r - Beh, sa, un procuratore importante ha un gruppo di giocatori, in cui ci sono di solito alcuni calciatori di fama. E quindi conosce direttori importanti, coi quali a loro volta si consigliano i dirigenti delle squadre minori. Accade quindi che un procuratore del genere “piazzi” un giocatore importate in una squadra, “abbinandogli” anche qualcheduno meno bravo, suggerito sempre da lui. Quel pizzico di fortuna, poi, come dicevo, fa il resto.

d - E qui, nella sua città, ritiene di aver dato tutto quello che poteva o si aspettava di dare?

r - Io iniziai con l’Asc Potenza, che poi si fuse con l’Fc Potenza. Facemmo tre anni in serie C2, vincendo infine il campionato (poi fui acquistato dal Rimini). Direi che il mio sogno si è realizzato, dal momento che ogni bambino sogna di giocare nel Potenza e di vincerci qualcosa. E mi porterò sempre dietro una cosa: la curva rossoblu, che per sua scelta non ha mai tifato il singolo, quanto l’intera squadra, mi dedicò uno striscione gigantesco, con la scritta: VOGLIAMO 11 NOLE’.

d - Tra l’altro “Nolè” è quasi l’anagramma di “Leone”.

r - (ride) E’ vero!

d - Qualcuno di quella curva è diventato anche sindaco, assessore. E’ contento di questo?

r - (sorride) Certo, mi ha fatto piacere.

d - Lo ha anche votato?

r - (ride). In quel periodo ero fuori, non avevo modo.

d - Negli ultimi tempi è approdato a Francavilla. Abita anche lì?

r - Sì, mi portai la famiglia durante il Covid. Poi mia figlia ha iniziato la scuola, e quindi, anche per fare contenta lei che si è fatta gli amici, sono rimasto lì.

d - Lei è tornato nella sua regione solo da qualche anno, dopo essere stato fuori per molto tempo: come ha trovato Potenza?

r - Dispiace vedere tanti giovani che vanno via. Così si perde un po’ di “anima”. Tuttavia rimango fiducioso e confido che si punti su di loro.

d - Potenza è stata Città Europea dello Sport, ma non se n’è accorto nessuno, anche a causa della pandemia. Come siamo messi a strutture sportive?

r - Ho avuto la fortuna di giare un po’, e devo dirlo: siamo abbastanza indietro rispetto ad altre città. Se non escono fuori tanti atleti di talento è anche per quello: non sono messi in condizione di migliorare. E qui da noi è difficile: una volta c’è l’infiltrazione nel palazzetto, una volta manca l’acqua da un’altra parte, una volta è la mancanza di campi di calcio...In altre città non succede: si trova subito l’alternativa o la soluzione. Sono molto più avanti rispetto a noi.

d - Spostiamoci sulla Nazionale, che ha fatto una figura tremenda agli Europei di calcio. Cos’è successo?

r - Mi ha colpito la totale assenza di cattiveria agonistica, da parte di giocatori giovani che stavano vivendo un’occasione più unica che rara. Mi è molto dispiaciuto. Non penso si sia trattato di paura (dopotutto giocavamo con la Svizzera, con tutto il rispetto). Forse il problema è generazionale: coi giovani di oggi sembra che tutto sia loro dovuto, non hanno quella voglia di conquistarsi qualcosa.

d - Da cosa bisogna ripartire per salvare il calcio italiano?

r - Cercando di eliminare l’obbligo dei giovani in campo. Prima il posto bisognava conquistarselo, mentre adesso -grazie a questa norma- si sentono già appagati, col posto assicurato e meno disposti a migliorare in allenamento. E anche il loro comportamento negli spogliatoi ne risente, in quanto si sentono protetti dalle società.

d - Non c’è anche un problema di troppi giocatori stranieri nei campionati?

r - Guardi, purtroppo devo riconoscere che hanno più “fame” di noi. Andando in giro, non vedo più i ragazzini giocare nei parchi; si accontentano di quell’oretta di scuola calcio. Una volta, invece, si migliorava tantissimo, proprio perché, giocando anche in mezzo alla strada, toccavi il pallone cinque/seimila volte in più, e miglioravi in ogni aspetto. Persino la prospettiva di vincere un gelato ti faceva migliorare nella “cattiveria”. Tutto ciò è sfumato, ecco perché non escono più talenti. Altrove, invece, è diverso.

d - Il film che la rappresenta?

r - “Quasi amici”, perché mi reputo un buono e cerco di aiutare sempre il prossimo, senza aspettarmi niente.

d - La canzone?

r - Vasco Rossi, ma non saprei sceglierne una in particolare.

d - Il Libro?

r - Confesso che non leggo tanto. Mi coglie spiazzato (ride).

d - Spesso i suoi colleghi si salvano in calcio d’angolo, citandomi la biografia di un calciatore.

r - (Risate). Beh, sì, non volevo dirlo.

d - La vita di un calciatore che l’ha colpita?

r - Quella di Cristiano Ronaldo, perchè si è costruito ed è stato costante.

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