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di Walter De Stradis

 

 

 

Due persone, due lucani, diversi per sesso, età, provenienza, istruzione, formazione e linguaggio, ma che sono accomunati dalla scelta della musica “folk” (seppur in due accezioni, anche qui, differenti) come mezzo per raccontare il loro paese e la loro regione. Li abbiamo incontrati lo stesso giorno, il 14 settembre scorso, mentre a Sasso di Castalda le campane suonavano, perché c’era la festa del Crocifisso, e a Tito (a pochi chilometri, sempre in provincia di Potenza) suonavano e basta.

La giovane è Chiara D’Auria, trentenne lucana che negli ultimi anni ha insegnato Lettere a Milano, ma che a un certo punto ha deciso di tornare nella su Tito, anche per “spingere” il suo cd d’esordio, il primo mai registrato in dialetto titese, intitolato significativamente “Fèssë a cchi muórë” (Liburia).

Il veterano è il settantenne Michele Doti, di Sasso di Castalda, muratore per una vita, e musicista “da piazza” da oltre cinquant’anni. Anche lui ebbe una, più breve, esperienza al Nord (in Piemonte), ma la decisione cruciale fu la stessa di Chiara: tornarsene al proprio paese, perché, può sembrare anche strano, ma si vive meglio.

CHIARA D’AURIA: «Il lucano tutta questa voce non ce l'ha»

d - TITO (Pz) - Come mai, tra Rap, Trap, Maneskin e quant’altro, una giovane come lei -oggi come oggi- decide di fare un disco folk in dialetto locale?

La domanda è legittima. La mia non è mai stata una scelta fatta a tavolino. Semplicemente, quello che avevo da raccontare, ha spinto affinché prendesse questo tipo di forma. E questo perché il dialetto è la lingua dell’anima: è la prima lingua che ho ascoltato in casa, nei momenti più intimi della mia famiglia, la lingua che parlo quando sono a mio agio, con gli amici storici. E’ la maniera più genuina con la quale ho potuto esprimere le mie storie, che poi sono quelle del popolo, che narrano della mia terra, della mia gente, guardandone la storia dal basso. E non potevo raccontare diversamente.

d - Il disco s’intitola “Fèssë a cchi muórë” e cioè “Fesso chi muore”. Perché?

E’ “fèssë” chi muore da rassegnato spiritualmente, chi muore spiritualmente, senza aver mai provato a cambiare le cose (per quel che si può). Qui nelle nostre zone spesso ci lamentiamo, senza pensare che tutti dovremmo assumerci una responsabilità e fare qualcosa.

d - Spesso leggiamo intellettuali affermare che i Lucani sono un popolo di rassegnati: è davvero così?

A me fa molto male quando incontro dell’immobilismo, che c’è, ed è altrettanto vero che c’è rassegnazione perché da qui si scappa, c’è la fuga di noi giovani. Tuttavia io non critico, in quanto io per prima sono andata via per studiare e lavorare fuori, tra Napoli e Milano. So dunque che è facile parlare, ma è pur vero che in questo modo lasciamo la nostra terra in mano agli altri, non difendiamo determinati valori e non c’è evoluzione.

d - E quali sono i valori che un lucano dovrebbe difendere con le unghie e con i denti?

Si tratta di portare in giro, con orgoglio, la nostra tradizione, ma non atteggiandosi a “conservatori”, bensì proiettandola in un’evoluzione. E’ importante conoscere la propria storia, ascoltando gli anziani, i portatori di questo patrimonio culturale dal quale io ho attinto molto. Quando stavo a Milano, e di tanto in tanto tornavo qui a Tito per vedere i miei cari, avvertivo la necessità di parlare con mio nonno. Vivendo in una metropoli iniziavo a sentirmi smarrita, sentivo disperdere la mia identità. Volevo dunque riappropriarmi delle mie radici, ma non volevo che il tutto si limitasse all’oretta del pranzo domenicale. E così iniziai proprio ad uscirci, con mio nonno, a parlare con i suoi amici in piazza, a registrare le loro storie, a prendere appunti. Insomma, sono andata alla ricerca di chi aveva memoria, un po’ come facevano alcune artiste degli anni Cinquanta e Sessanta, non solo in Italia (Caterina Bueno e Rosa Balistreri), ma anche all’estero, donne come Violeta Parra e Mercedes Sosa. Sono questi i miei modelli, subisco molto il fascino di queste “guerrigliere culturali”, che danno voce a chi non ce l’ha. E in effetti, i Lucani non hanno tutta questa voce: sono ovunque nel mondo, abbassano la testa, fanno sacrifici (e sono noti per questo), ma sono molto silenziosi. Lo diceva anche Sinisgalli. Oddio, non è un problema, questo, ma come dicevo, la mia paura è disperderci, dimenticare, perdere la memoria di ciò che siamo.

d - Le canzoni del disco sono scritte da lei, ma vi sono anche echi di canti popolari, di filastrocche?

Sì. Una cosa del genere la ritroviamo nel brano “Pigliada d’uógghi”. Il titolo fa riferimento a una formula per scacciare il malocchio. La faceva mia nonna a mia madre, ma allora io ero piccola e quindi non la ricordavo. E così, per riappropriarmene, facendo finta di avere il mal di testa a seguito di una “pigliata ad occhio”, mi sono recata da una signora che ancora pratica il rito. E così quella formula, che calzava a pennello, è diventata proprio il ritornello della mia canzone.

d - Parliamo degli altri temi del disco, che all’ascolto appare caratterizzato da una certa valenza “sociale”.

Mi interessava immortalare l’anima della gente lucana, raccontandoci per quello che siamo, miserie e storture comprese, senza abbellire. I temi riguardano il territorio lucano, ma sono estendibili al Meridione. Vi troviamo la “zitella” del paese che oggi (ed ecco l’evoluzione), dal punto di vista di una ragazza lucana del 2023, quale io sono, diventa un uccello di bosco che non si è lasciato acchiappare dalla prima mano gelida che voleva ghermirla. C’è poi l’emigrante, un uomo di nome Nicola, che se n’è andato in America per aiutare la famiglia; il suo è un dissidio interiore, e la sera, ballando nelle quadriglie organizzate dai compaesani, si sente in colpa per moglie e figli rimasti a casa. Ecco, questo è un altro atteggiamento tipico nostro: il Lucano lavora, lavora, lavora, e poi poco sa godersi la vita. Intanto, la moglie di Nicola, rimasta sola in paese, diventa la “cleptomane”, perché non le sono rimasti nemmeno gli occhi per piangere.

d - Il suo è stato un ritorno, volontario, in Basilicata: ha mai pensato che qui sarebbe stato più difficile promuovere un disco? E’ difficile fare musica in Basilicata? Le istituzioni aiutano?

E’ difficile fare musica qui, ma ci ho pensato dopo. Questo non è un disco fatto per avere successo o per diventare famosa. L’ho fatto per diventare parte attiva, e questo mi fa sentire bene, perché sto facendo qualcosa per il territorio, poi quel che succede succede. Sì, è difficile fare musica in Basilicata e trovare spazio. Mi fa tanta rabbia questa cosa, ma questa rabbia è solo carburante per abbattere dei muri.

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SASSO DI CASTALDA (Pz) - Michele, le iqui a Sasso di Castalda è il cantante folk “storico”.

Sì, da cinquant’anni ho ancora la fortuna di cimentarmi nelle piazze. E anche questa sera eccomi qui a cimentarmi nel mio bellissimo paese. Questa sera (14 settembre – ndr) qui si celebra la Festa del Santo Crocifisso, l’ultima della stagione...

d - Il suo gruppo, “I ragazzi del Melandro”, esiste dunque dagli anni Settanta.

Sì, dal maggio del 1971. Sono stati cinquantadue anni gloriosi, ricchi di soddisfazioni. Stasera siamo al gran completo. Siamo da sempre un gruppo amatoriale, non prendiamo niente, e chi ci vuol chiamare ci pagherà soltanto le spese di viaggio e ci offrirà il pranzo. Siamo tutti in pensione e lo facciamo con piacere.

d - Il gruppo “storico” è rimasto sempre lo stesso?

Eravamo i “Ragazzi” del Melandro e oggi, se ci guarda a uno a uno, abbiamo tutti la testa bianca, ma siamo rimasti esattamente gli stessi.

d - Come nacque il gruppo?

Da una mia pazza idea, con la voglia della fisarmonica, e poi pian piano nacque il gruppo, un po’ per gioco. In partenza eravamo in tre, in quattro col professore Aguglia, che non c’è più: un siciliano bravissimo al clarinetto, che viveva a Brienza. Fui suo allievo per sette lunghi anni, ma nel 1978 Gesù se lo chiamò in Cielo. E io presi in mano la situazione.

d - Perchè lei definisce la sua musica “Folk di pastasciutta”?

Perchè in casa discografica mi dissero che gli artisti di solito si mettevano un altro nome, e siccome il soprannome di famiglia, da secoli, era “asciutto”...

d - Lei ci ha aggiunto la pasta.

Esatto! (sorride)

d - I vostri brani sono tradizionali o sono stati scritti da voi?

Personalmente curo il genere folk, ho scritto una trentina di pezzi, pubblicati in tre cd. Sono tutti cantati, organetto e fisarmonica. Quelli del gruppo, invece, sono specializzati nelle più belle canzoni del ‘900, da “Generale” a “Tanta voglia di lei” a “Io vagabondo”.

d - E le canzoni dei contadini, quelle dei vostri nonni...?

Quelle le curo io. Con il mio “quattro bassi”, faccio le canzoni più belle (risalenti agli anni Cinquanta e Sessanta) della buonanima Donato Beneventano, un grande della musica folk, per Sasso, la Lucania, e in tutto il mondo.

d - Di cosa parlano queste canzoni? Di amore? Di lavoro?

Sono tutte belle. Si parla anche di come si viveva ai tempi di Mussolini, c’è la tradizionale tarantella, quella dei “Zitielli”, c’è la polka lucana, che è sempre la più bella e tutti la suonano, c’è “Lu pastore” (che viveva sulle montagne e trascurava la moglie), e tante altre. Le canto tutte, e sono una più bella dell’altra.

d - Se non sbaglio lei era muratore.

Esatto, muratore nato. L’ho fatto sin da piccolo. Con la fisarmonica cominciai a cimentarmi nel lontano 1966, e poi, a furia di insistere, fondai il gruppo che suonerà questa sera.

d - Ha sempre vissuto qui a Sasso?

Il primo anno da sposato me ne andai nel Piemonte, ma dopo un solo anno, capii che non era necessario stare lontano, e che si poteva vivere bene anche qui, se mi fossi organizzato. E così è stato.

d - Quindi diciamolo: è bello vivere in questi paesi.

E’ bello, sì, soprattutto se sei un autodidatta...io cominciai a scrivere le mie canzoni e poi ho fatto migliaia di serate, matrimoni etc. Mi diverto da morire e insieme a me si divertono anche gli altri. La vita in questi piccoli borghi? Bisogna anche saperla prendere, accontentarsi, perché non si può avere tutto. Certo, anche a me è mancato qualcosa...

d - …ma ci può essere un vantaggio nello scegliere di vivere qui, piuttosto che a Potenza, Matera, Salerno...

Il vantaggio c’è sicuramente. Qui ho fondato le mie radici, basta che mi guardi attorno e mi accorgo che tutti mi vogliono bene, come io ne voglio a loro. Anche non avendo un euro in tasca, come può capitare tante volte, non ci sono problemi, vivi contento comunque.