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di Walter De Stradis

 

 

A Potenza, lui, Michele “Lello” De Novellis, settantaduenne con voce pacata e leggera inflessione partenopea, e la sua famiglia, in quanto gestori dello storico bar, sono molto conosciuti. Tuttavia in pochi, ci dice, conoscono il loro cognome. Per tutti, e da ottant’anni, sono “quelli della Stazione”.

D - Come giustifica la sua esistenza?

R - Nel Dopoguerra mio padre si trovò a dover gestire brevemente il bar della Stazione (oggi Centrale). Doveva essere una cosa di una ventina di giorni, ma poi è durata ottant’anni.

D - Quali sono i suoi primi ricordi del bar della stazione di Potenza?

R - All’epoca la Stazione era un terminal di trasporto, con la funzione di accogliere -cinquanta chilometri a sud e cinquanta chilometri a nord- tutti i paesini limitrofi. E poi sul piazzale c’era lo stazionamento dei pullman, che raggiungevano quei comuni non provvisti di fermata ferroviaria. Questo trasbordo continuo rendeva la Stazione molto accorsata e popolata. L’unica cosa che oggi resiste, insieme a noi, è il barbiere: tutti gli altri sono andati via, perché economicamente non ce l’hanno fatta.

D - Gli altri sarebbero?

R - La storica edicola, una biglietteria a largo raggio...una rimessa di noleggio.

D - Perché non ce l’hanno fatta? Per la crisi economica o magari perché la zona è stata tagliata fuori?

R - E’ stata tagliata fuori da quel vecchio progetto di viadotto che doveva collegare la zona della Stazione con la superstrada. Un pezzetto ne è rimasto davanti all’Anas, ma tutta quell’operazione si è rivelata essere opportuna per la costruzione delle cosiddette “due torri”, abitazioni civili che sono di fronte. Ne consegue che però è stata del tutto “tagliata” la vecchia scorciatoia, che -asfaltata e rimessa posto- collegava la Stazione, viale Marconi con il Rione Francioso. E dava un “circuito” alla viabilità. “Tagliata” quella, la Stazione è rimasta strada...chiusa. Immagino che anche i vostri, di affari, siano calati. Siamo a un terzo di quello che era prima il movimento, perlomeno rispetto agli anni Novanta.

D - Non avete mai fatto presente questa situazione a chi di dovere?

R - (Scuote la testa) Mi ricordo una citazione, sentita in Stazione, anche se non so a chi attribuirla: “Gente di Basilicata avvezza, da sempre, a gratuite riverenze”. Questa cosa un po’ è rimasta a tutti: quando si tratta di rivendicare qualcosa, ci sembra sempre di essere, non so, presuntuosi.

D - Quindi per “pudore” lei non ha mai detto niente.

R - Sì, per “pudore”. Mi piace questa parola.

D - Oggi però ci sono più famiglie che dipendono dal vostro bar.

R - Senza esagerare, diciamo che sono tre.

D - E se dovesse provare a chiedere una cosa, attraverso questo giornale...?

R - Per parlare di una cosa possibile, partirei dalla scala mobile, o meglio, di una frazione della scala mobile. Quel piazzaletto pedonale costruitovi davanti è sicuramente, dal punto di vista architettonico, eccellente. Uno dei fautori, un architetto, è un mio amico. Impostato in spazi quattro volte più ampi, era assolutamente ben collocato, ma oggi, quello spazio che è stato preso dal giardinetto pedonale ha praticamente “annullato” il piazzale della Stazione (che è già chiuso verso il Francioso ed è privo di sbocchi). Una volta, nel piazzale, trovavano spazio vitale per il movimento anche i pullman, che potevano fare inversione, mentre adesso si è tramutato in una strada, il che rende tutto molto più complicato.

D - E quindi lei cosa chiederebbe?

R - Di ridurre quello spazio lì davanti.

D - Però presto dovrebbero partire i lavori di riqualificazione della Stazione, per gentile concessione dei fondi Pnrr.

R - Sì, per sentito dire, quest’opera di restyling atterrà più che altro all’interno della Stazione. In pratica, il camminamento per accedere ai servizi (bar, tabaccaio, biglietteria), comporterà una specie di riapertura di quell’arco che adesso, nel mio esercizio, è murato. Verrà aperto un tantino più a lato, con dimensioni più grandi, dando una visione più frontale, sino alla biglietteria. I lavori risolveranno anche quei piccoli problemi di barriere architettoniche, rappresentati ad esempio dai gradini (che sul lato binari sono molto evidenti). Lei è la memoria storica della Stazione: qualcuno vi ha chiesto dei consigli in merito? Beh, sì, i massimi esponenti del restyling si sono a lungo fermati a colloquiare con noi. Credo che il tutto dovrebbe partire a fine aprile, penso in coincidenza della chiusura per lavori della tratte per Foggia e Taranto-Napoli. Ma è sempre un sentito dire.

D - In ottant’anni di gestione familiare, ha un ricordo, di un fatto o di una persona, che l’ha segnata particolarmente?

R - Non si tratta di un solo fatto o di una sola persona. Prima esisteva un vero e proprio “Rione Stazione”, con le abitazioni di un gran numero di addetti (e famiglie) delle Ferrovie. C’era una gran bella vita sociale. Il passaggio continuo di gente che andava avanti e dietro dai paesi creava una rete di conoscenze e di “piccola solidarietà”.

D - La famosa “solidarietà di vicinato” che si racconta esistesse in Centro... ...c’era anche alla Stazione.

R - Quando ancora non erano ancora obbligatorie le cassette del pronto soccorso, nei cassetti del nostro banco c’erra sempre almeno un cerotto, dello iodio, del disinfettante, alcool denaturato, cachet per il mal di testa. C’erano, perché servivano spesso ai viaggiatori, dopo lunghi tragitti in treno. Tutto iniziò a finire quando mi fu intimato -dal medico del posto di infermeria appena istituito in Stazione- di non concedere nulla a nessuno, perché era reato. Quel posto di infermeria durò solo sei mesi, ma a noi rimase la paura di fornire quegli aiuti (di ordinaria amministrazione) e da quel momento venne un po’ meno quell’ “input emotivo”, su tutte le cose.

D - Lei è ancora oggi testimone delle differenti dinamiche del via-vai alla Stazione. Cosa ci racconta, tutto ciò, della Basilicata di oggi?

R - Di ragazzi che partono in realtà ne vedo pochi, poiché autobus e pullman privati, con orari e velocità più “spicci”, hanno praticamente assorbito il 90% dei movimenti. Senza tema di smentite, chi oggi usa il treno (o i sostitutivi) vi è costretto dagli orari di lavoro, che non gli consentono altro. E arrivano sempre un po’ scoraggiati, scoraggiati dalle lungaggini dei tempi di percorrenza. Si tratta più che altro di qualche professore del Conservatorio, di qualche impiegato di concetto che si intrattiene una decina di minuti e -senza voler apparire presuntuoso- magari ci ringrazia pure per l’esistenza di questa “isoletta”, di questa “oasi”, in questo squallore, in questo deserto.

D - Speriamo allora che campi a lungo il bar della Stazione.

R - Questa speranza ci ha sempre accompagnati. Vede, per noi quel posto è stato via via la culla, il parco giochi, la via Pal, il luogo ove si tornava al tramonto, dopo le escursioni in viale Trieste e in via Pretoria (che per noi della Stazione erano zone lontane e ambite). Noi qui ci abitavamo. Intorno c’era tutto verde, la collinetta. Qui ci ho trascorso la vita, dunque, e quindi oggi ti ritrovi a considerare il profitto in seconda posizione, rispetto ai ricordi.

D - La vostra, lo dico io, a conti fatti è anche una piccola “missione”, quella di mantenere vivo quel presidio di socialità.

R - Io non posso dirlo.

D - Cosa, di quel passato che ha descritto, si può realmente recuperare?

R - Torno a dire che ridurre l’ “anti-scala mobile” ridarebbe un pochino di agio alla “rotabilità” della piazza. Molti con le auto non ci vengono, perché è un imbuto. E poi, naturalmente, i treni regionali -oggi sacrificati sull’altare degli autobus, che sono dislocati dalla Stazione sono la vocazione della Stazione stessa, non certo le lunghe percorrenze, che ci sfiorano e vanno via.