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di Walter De Stradis

 

 

 

 

«Elisa era una creatura di luce, l’amica che tutti vorrebbero. Aveva grandi sogni, grandi ideali, s’indignava di fronte alle ingiustizie sociali».

Lo scopo, dichiarato, del libro della giornalista lucana Mariagrazia Zaccagnino, “Sono io Elisa Claps” (Edigrafema) è proprio quello di restituire una dimensione, quella più importante, quella umana, a chi per trent’anni è stato solo un nome, vergato nei rapporti di polizia, negli atti d’indagine su un omicidio, negli articoli di stampa o nei romanzi.

d: Avendo a lungo militato in “Libera”, ed essendo molto vicina alla famiglia, lei conosce molto bene il caso Claps, ma qual è la genesi di questo libro molto particolare? Trattandosi di un testo che riporta i passaggi di un diario personale, ritengo che l’iniziativa venga anche dai familiari.

r: Certo. Conosco la famiglia Claps da quindici/sedici anni, e ciò in virtù del mio lavoro, ma anche della mia militanza in “Libera”, associazione che li ha sempre supportati nella ricerca della verità. E della giustizia. Ma quando conosci Filomena, Gildo e tutti gli altri, non puoi non affezionarti, perché sono persone splendide. Nonostante ciò che hanno vissuto, o forse proprio in virtù di quello, non hanno perso quell’animo buono, che poche persone hanno. Il rapporto, dunque, è andato molto oltre il lavoro, tramutandosi in una grandissima amicizia, soprattutto con Filomena che -da quando sono madre anch’io- è diventata il mio modello. Nel corso delle visite di questi anni, lei mi raccontava cose di Elisa “inedite”, ovvero l’aspetto intimo e familiare. Mi parlava, insomma, di Elisa viva, perché di Elisa viva si è parlato davvero poco: noi l’abbiamo conosciuta sempre dal 12 settembre 1993 in poi. Tutto ciò che è stato raccontato (articoli di giornale, inchieste, libri e ora anche fiction) parla di Elisa da morta. Elisa ha vissuto nella luce per sedici anni, ed è stata nel buio -di un sottotetto- per diciassette. In questo libro cerchiamo di riportarla alla luce.

d: L’idea del libro è stata sua o di mamma Filomena?

r: Io credo che lei avesse questo desiderio, ma non aveva il coraggio di chiedermelo, sapendo che sono una madre lavoratrice. E’ fatta così: si preoccupa prima degli altri, e poi –forse- di se stessa. Però mi diceva sempre: “«Prima o poi ti farò leggere i diari di Elisa». Soltanto lei, che li aveva custoditi gelosamente, aveva letto quelle pagine. Nemmeno i fratelli...

d:...quindi le hanno lette tramite il suo libro?

r: Sì. Rispettando la privacy della sorella, non avevano mai sfogliato quei quaderni. Io lo capisco, perché in quelle pagine, come tutte le adolescenti, Elisa raccontava i suoi pensieri, la sua quotidianità, le sue paure, i turbamenti e anche i primi interessi per amiche e amici. Ci sono dunque alcune emozioni che è giusto che rimangano tra lei e la mamma.

d: Quindi non ha pubblicato tutto?

r: Assolutamente no. Ho fatto una selezione. Quando Filomena mi ha consegnato i diari, sono stata un tantino timorosa, e infatti li ho lasciati in un armadio per qualche giorno. Ogni tanto aprivo e li guardavo, ma non avevo il coraggio di sfogliarli, proprio perché mi sembrava di entrare troppo nella privacy di una persona, che tra l’altro non c’è più e che quindi non mi ha autorizzata a leggere. Però l’ha fatto la madre e quindi ho capito che era una cosa che potevo fare. Leggendo, ho scoperto una ragazza incredibile. E pertanto ho capito subito perché la famiglia ha sempre sostenuto che Elisa non sarebbe MAI andata via di sua volontà. Un’ipotesi, quella dell’allontanamento volontario, che era l’unica che NON andava seguita.

d: E perché l’ha capito leggendo il diario di Elisa?

r: Perché Elisa era INNAMORATA della famiglia. Era una ragazza solare, entusiasta, felice, serena. Non era un’adolescente con problematiche tali da spingerla ad allontanarsi per cercare una propria dimensione. Lei non desiderava evadere. Certo, voleva la sua libertà, ma da adulta. Aveva infatti molti sogni, studiare, diventare medico, realizzarsi nella vita professionale. Ma non aveva alcun desiderio, né bisogno, di allontanarsi. Oltre che della famiglia, Elisa era innamorata anche della città, vi si trovava benissimo.

d: Cosa le piaceva di Potenza?

r: Si sentiva...protetta, stranamente, nella sua dimensione. Quando Gildo suggeriva di andare via e cercare altro, Elisa diceva «Ma no, si sta così bene a Potenza».

d: Elisa si sentiva “protetta” da Potenza; ritiene che la città a un certo punto l’abbia tradita?

r: La città L’HA tradita. Quando è scomparsa, soltanto la famiglia e le amiche d’infanzia non hanno creduto alla tesi dell’allontanamento volontario. Come spesso accade, Elisa è stata ri-vittimizzata dopo la sua scomparsa. Nel libro c’è un capitolo che s’intitola “Quante volte ti hanno ucciso”, perché Elisa non è stata uccisa solo nel 1993. Non soltanto le forze dell’ordine, quelle della prima fase, non hanno battuto la pista investigativa più consona, ma anche la città, dal canto suo, ha cercato di “giustificare” la scomparsa, affermando cose non vere, ovvero che Elisa un po’ se l’era cercata, che se la faceva coi militari, che era incinta etc. Addirittura, un ex capo della squadra mobile, in una intercettazione telefonica disse: «Da quella famiglia sarei scappata anch’io». E quindi quale fiducia potevano avere i Claps nelle forze dell’ordine, se chi è deputato alle indagini parte con un pregiudizio del genere?

d: Il libro raccoglie passaggi dei diari di Elisa, ma l’autrice è lei. Cosa c’è di Mariagrazia Zaccagnino in questo testo?

r: Amo dire che è un libro scritto a sei mani: ci sono quelle di Elisa (i diari), quelle di Mamma Filomena (i suoi ricordi) e poi le mie. Cerco di fare un po’ da collante tra queste due anime che si rincorrono e dialogano. Faccio poi alcuni necessari cenni al contesto storico e giudiziario.

d: Vorrei che commentasse alcuni titoli di giornale risalenti a ieri (12 settembre – ndr). Alcuni sono dei virgolettati. Il primo: “La comunità ha lasciato sola la famiglia Claps”. Un po’ ha già risposto.

r: Sì, in un primo momento è stato così, ma oggi la famiglia Claps sente forte l’abbraccio della città, che esce fuori anche dai confini regionali.

d: La comunità ha forse avuto bisogno, anch’essa, di tempo per capire?

r: Sicuramente sì. Il trascorrere del tempo sicuramente ha aiutato: a volte, per capire bene qualcosa, bisogna allontanarsi e mettere a fuoco. In questo ha aiutato anche la ricostruzione di Pablo Trincia col suo podcast, perché ha aiutato a riannodare i fili. Tanta gente che magari prima ignorava molti aspetti, adesso non potrà più dire di non conoscere. E’ come se la città avesse preso piena consapevolezza di ciò che è accaduto, e anche del fatto che la famiglia Claps era stata lasciata effettivamente sola. Nelle manifestazioni come quella di ieri (la marcia organizzata da Ulderico Pesce ndr), all’inizio c’erano solo i Claps, don Cozzi e qualche altro vicino di casa. Oggi le sale sono piene.

d: Altro titolo: “Una città mafiosa che ancora giudica i Claps”.

r: Più che di “mafia”, vera e propria, io parlerei di “atteggiamento mafioso”, che si concretizza nell’omertà, in un atteggiamento omertoso. Si tratta di un girarsi dall’altra parte, un “questa cosa non mi riguarda”. Tuttora, c’è ancora uno “zoccolo duro” che resiste nel non prendere consapevolezza e nel non immedesimarsi nel dolore di questa famiglia. C’è anche chi ha pensato che la famiglia abbia potuto lucrare su questa storia. Fandonie. Pensi che Gildo -poichè Elisa voleva fare il medico- aprirà un laboratorio di analisi a suo nome, in Africa (e vi contribuirò anch’io coi diritti d’autore di questo libro). Le malelingue ci sono sempre, dunque, ma sicuramente si sono ridotte.

d: Uno degli ultimi sviluppi di questa vicenda è stata la riapertura al culto della Trinità. Qual è la sua posizione in merito?

r: La famiglia Claps non era contraria alla riapertura in sé e neanche io. Il fatto è che c’era un’attività di mediazione che andava avanti da tempo e che a un certo punto ha conosciuto una battuta di arresto. La curia potentina ha deciso di riaprire. Se la decisione fosse spettata a me, io avrei riconvertito lo stabile, o l’avrei riaperto dopo un’ammissione di responsabilità. Non parliamo di “colpe”, necessariamente, ma di “responsabilità” sì. Faccio un esempio: Papa Francesco ha chiesto scusa per i preti pedofili. Non è certo lui sul banco degli imputati, ma è lui che ha la responsabilità della Chiesa. La dottoressa Barbara Strappato, capo della mobile di Potenza all’epoca del ritrovamento del corpo di Elisa, prendendo le mani di Filomena tra le sue, chiese scusa alla famiglia Claps in quanto rappresentante dello Stato e delle forze dell’ordine (e anche qui, come vede, c’era stato un cambio di atteggiamento, rispetto a quando quell'altro capo della mobile aveva detto «da quella famiglia sarei scappata anch’io»). La chiesa dunque poteva essere riaperta? Sicuramente, ma tutto doveva passare da un atto di riconciliazione. La riconciliazione, per come la vedo io -da credente- passa attraverso l’ammissione della colpa, la remissione dei peccati passa attraverso l’ammissione delle responsabilità.

d: Sempre a proposito di “riconciliazione”, spesso -in alcuni editoriali- si è letta la frase “ricucire lo strappo” (nella comunità potentina). Cosa ne pensa.

r: Io credo sia possibile, anche perché ho visto l’abbraccio e il coinvolgimento, addirittura un “mea culpa” per non aver compreso prima la gravità della situazione, il non essere entrati nella carne viva del dolore di questa famiglia. La città si può “ricucire”, ma non servono i “punti di vista”.

d: E cosa, allora?

r: Una responsabilità, il non avere più un atteggiamento omertoso. Ci vuole consapevolezza.

d: Da tutta questa storia, cosa deve imparare la nostra città, una volta per tutte?

r: Non ho da insegnare nulla, ma a me questa storia ha insegnato a non mollare mai. La famiglia Claps, in questi anni, ha “congelato” la sua vita. Gildo si è improvvisato investigatore privato, e se Danilo Restivo è stato processato e condannato, si deve anche a questo. Fu infatti Gildo a scoprire che in Inghilterra c’era stato un omicidio che aveva delle similitudini col caso Claps...

d: Cosa ne pensa di coloro che comunque hanno deciso di tornare a frequentare la Trinità?

r: Io penso che ci sono tanti modi per dialogare con Dio. Non credo sia necessario andare in un tempio piuttosto che in un altro. Non condanno chi in quella chiesa ci va, ma ritengo che poi debba avere anche il coraggio di guardare i Claps negli occhi. Io, personalmente, in quella chiesa non ci entrerò