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di Walter De Stradis

 

 

 

 

“La Signora del Lago” a Nemoli, “La Città dell’Utopia” a Campomaggiore, e attualmente “La Storia Bandita” al Parco della Grancia (in programmazione fino al 23 settembre): ormai il nome del regista e autore teatrale melfitano Gianpiero Francese qui in Basilicata è sinonimo di grandi attrattori in cui (parole sue) la tecnologia è al servizio della poesia e non il contrario.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r - Quello della vita è un viaggio meraviglioso, anche se bisogna essere consapevoli che ha un finale “triste”. Però il segreto della riuscita nelle cose che facciamo risiede nel mantenimento di relazioni sane. Mi piace avere una buona “ecologia” dei rapporti.

d - Ho letto da qualche parte che lei in realtà nasce come musicista e autore di canzoni.

r - Sì, ho sempre avuto questa passione segreta, sono nato con la musica e anche il teatro si può dire che sia stata una sua emanazione. Tant’è vero che una delle prime cose che facemmo a teatro fu una versione in chiave musical del romanzo “La fattoria degli animali”, con musiche originali, appunto. Fino ai vent’anni si suonava anche ai matrimoni, si faceva di tutto di più, ma poi il teatro ha preso il sopravvento.

d - Recentemente lei ha fatto anche un disco (“Già”).

r - Un disco, sì, ma già a trent’anni registravo spesso le mie canzoni al Little Italy di Campomaggiore. Un giorno, dopo una sessione, me ne stavo tornando a Melfi, e mi chiamarono al telefono: mi dissero che a Mango erano piaciute le mie canzoni. All’inizio credetti a uno scherzo, ma poi feci inversione e tornai subito a Campomaggiore. E così lo conobbi.

d - Poi avete collaborato per diverso tempo.

r - Sono stato quattro anni insieme a lui. Mi diceva: «Sei un cantautore che canta bene».

d - Che ruolo aveva nell’entourage di Mango?

r - Col fratello Armando cercavo di produrre un disco che poi non c’è stato. Però scrissi una canzone che Pino amava tantissimo, “Io che non ho”, e dopo averla ascoltata lui mi invitò come ospite in una sua tournée. Si fermava a metà concerto e mi dava la possibilità, con la SUA band, di cantare canzoni mie; dovevo fare poche date, ma alla fine furono un’ottantina, partendo dalla Svizzera, girando tutta l’Italia, e toccando anche il teatro Ariston di Sanremo. Mango mi invitò anche a partecipare a molte puntate del Festivalbar: suonavo la chitarra acustica in “Goccia a goccia” (la chitarra solista era quella di Graziano Accinni).  

d - Una cosa che si è detta poco su Mango qual è?

r - Che era un grandissimo lavoratore. Andava in studio di registrazione anche alle nove di mattina, a lavorare. Gli piaceva tantissimo cucinare, anche per gli altri, ma poi tornava sempre al lavoro.

d - Per lei invece qual è stato il momento dell’epifania definitiva sul teatro?

r - Beh... proprio mentre suonavo con Pino, mi rendevo man mano conto che quella vita, fare il cantautore, suonare nelle piazze, trovarsi il 15 agosto a Marcianise, sempre “splendido”...beh, non faceva per me. Una volta Pino mi rimproverò sonoramente, perché sgattaiolavo e non firmavo gli autografi: “Un giorno anche questo sarà il tuo lavoro!”. Ma io già capivo che la mia natura non era quella del frontman, ma di uno dietro le quinte, a cui piace studiare. E piano piano mi sono allontanato dal mondo della musica, dedicandomi a cose che comunque facevo già in contemporanea.

d - In effetti immagino che gran parte del suo lavoro sia proprio lo studio, visto che molti dei suoi spettacoli sono parecchio radicati nella storia lucana.

r - E infatti il lavoro del regista è anche e soprattutto quello: stare sui libri, cercare aneddoti ed episodi strani, magari.

d - Lei, dopo aver partecipato attivamente già all’istallazione originaria, attualmente è tornato a “La Storia Bandita”, nelle vesti di regista. Però proprio sui briganti (argomento sul quale in Basilicata sembra che prima o poi scrivano tutti), c’è anche tanta retorica e approssimazione. Non so se è d’accordo.

r - Sì, come a volte capita. Si tratta di una storia controversa e a me piace approfondire: pertanto non mi piacciono i briganti dipinti come eroi, ma neanche quelli tratteggiati come mascalzoni. Mi piace invece l’idea di raccontare la storia di un popolo che è stato sempre vessato, questa è la verità. Se dobbiamo raccontare una storia, questa deve essere utile, portandoci a dire “Questa cosa non deve più succedere”. Come ben sa, si tratta di un discorso che è anche strumentalizzato politicamente: ci sono i neo-borbonici, c’è un mondo della sinistra che lo racconta alla propria maniera, ma me tutto questo non interessa. A me interessa la storia di un popolo che ha vissuto una storia molto triste, e anche violenta, e che adesso deve trovare la forza per rialzarsi.

d - Perché dice “adesso”? Secondo lei i Lucani sono ancora un popolo di sfruttati?

r - Guardi, ci sono nuove forme di sfruttamento. Dopo un po’ di tempo, sono di nuovo al lavoro su un testo teatrale, sono a metà dell’opera, e l’ho dedicato...si può dire alla “morte della classe operaia”?

d - Come no.

r - Ecco. Certo, è un work in progress, ma ciò che mi sta ispirando maggiormente è il lavoro di questi ragazzi alla Stellantis. L’idea è quella di un turno di notte in cui, mentre c’è una scossa di terremoto, gli operai restano chiusi e hanno la possibilità di fare un confronto. Ci saranno i ragazzi de La Ricotta, Dino Paradiso, per cui c’è anche satira, ma è un lavoro agrodolce, semiserio. Tuttavia, lavorandoci su, mi accorgo che al di sopra di certe cose c’è una macchina complessa, che io non riesco magari a decifrare nei suoi meccanismi perversi, mentre noi siamo solo dei piccoli anelli che pensano di muoversi in assoluta libertà. E non è così.

d - Lei ha detto che uno dei suoi primi lavori è stato “La fattoria degli animali di Orwell”...

r -...oggi sarebbe attualissimo! Spesso ci chiediamo se non sia il caso di riprenderla.

d - In quel libro c’è la famosa frase: “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri” (riferita agli uomini). Vale anche per i Lucani? Ci sono dei Lucani “più uguali” degli altri?

r - E’ quasi sempre stato così. Bisogna farsi spazio all’interno della meritocrazia.

d - E c’è la meritocrazia in Basilicata?

r - Io posso parlare di me: non sono mai stato aiutato, anzi, a volte i politici hanno loro chiamato me, per farsi aiutare in qualche progetto (lo dico con un pizzico di presunzione).

d - Non ha mai avuto “sponsor”.

r - No, non ho mai avuto “sponsor”, eppure ho fatto il mio e sono felice che la mia passione sia diventata un lavoro. Secondo me, dunque, si può fare, altrimenti sarebbe una gabbia insopportabile, la vita.

d - Qual è lo spettacolo per il quale vorrebbe essere maggiormente ricordato?

r - (Ci pensa). Sono molto legato alla Città dell’Utopia, un esperimento complicato: un attrattore, sì, ma teatrale, con degli attori bravissimi che recitano dal vivo, mentre attorno a loro ci sono delle modalità di attrazione modernissime, come la danza aerea e vari escamotage tecnici. Mi sono sempre sforzato di mettere la tecnologia al servizio della poesia, e non il contrario.

d - La canzone che la rappresenta?

r - “E ti vengo a cercare” di Battiato. Perché la mia vita è sempre stata una ricerca.

d - Il libro?

r - “Le memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar: c’è un momento in cui il protagonista è affrancato sia dalla religione sia dallo Stato, e questa libertà assoluta mi ha sempre affascinato. E’ un libro anarchico.

d - Il film?

r - Guardi, il cinema mi piace, ma non sono un appassionatissimo. Ho provato anche a farlo, ma è un linguaggio “pazzo” che io non prediligo. Il film che però mi ha segnato è senz’altro “I ragazzi della via Pal”. Mi fece conoscere le potenzialità di quella macchina infernale, perché da bambino, nel vederlo, piangevo come un vitello.

d - Fra cent’anni cosa vorrebbe fosse scritto sulla sua lapide?

r - Ma io non ci sono, a quel punto sono già altro. I cimiteri sono posti vuoti, sono già andati tutti via. Ecco, si potrebbe scrivere “Sono già andato via”.