- Scritto da Redazione
- Sabato, 14 Giugno 2025 07:44
Cari Contro-Lettori,
è un mattino molto assolato a Fardella, piccolo comune lucano alle falde del Pollino. Provincia di Potenza. La gola è arsa e la bibita fresca presa al bancone del piccolo bar ha un che di miracoloso. Ma la notizia che in paese non ci sono più edicole è dura da mandare giù nel gargarozzo. La barista, a cui offriamo una copia del nostro giornale, lo sfoglia rapidamente con un misto di curiosità e nostalgia. Lo leggo dopo, dice, affaccendata. Un baffuto, anziano signore è seduto al tavolino con un cagnolone al guinzaglio che sonnecchia ai suoi piedi. Nel corso, un commesso (ma magari è il proprietario) del negozio di alimentari porta la spesa al domicilio di qualcuno, e scarpina veloce sotto il sole battente con tanto di giacca e farfallino. Non lo invidiamo, mentre posizionati all’ombra nei pressi della fontana, osserviamo le finestre di un negozio di giocattoli che non c’è più: dietro i vetri si scorgono ancora degli scaffali con la mercanzia. Ci dirigiamo più avanti, dalle parti della chiesa e della foresteria comunale: alcune signore non più giovani sono sedute sugli usci su piccole sedie. Il disco di fuoco picchia e ci invitano a sedere con loro o addirittura al posto loro. Cacchio se è bella, la Basilicata. A un certo punto scorgiamo una vecchissima porta in legno, sbarrata con delle assi. Sopra c’è una vecchia insegna: “Farmacia”. Una targa posta di fianco recita “1828”. L’immaginazione accaldata galoppa: chissà dietro quella porta cosa è rimasto, magari come nel negozio di giocattoli. In realtà ci mettiamo poco a scoprire che l’edificio, all’interno, è mangiato dalla vegetazione sotto un tetto di cielo. Uno spicchio di una giornata come tante a Fardella, questo ci è concesso vedere. Ma è questa la Basilicata poetica e “resiliente”? O invece, piuttosto, è la Basilicata dimenticata dalla politica e abbandonata a se stessa? Non lo sappiamo, davvero. Vorremmo chiederlo a una di quelle vecchiette sedute sull’uscio. Non sappiamo come attaccare, ma è una di loro a toglierci dall’imbarazzo: oggi è proprio una bella giornata, ci dice. E basta. E allora, dubbi amletici a parte, spunta prepotente una certezza: abbiamo ancora molto da imparare, dai nostri piccoli paesi.
Walter De Stradis
- Scritto da Redazione
- Sabato, 24 Maggio 2025 07:09
Cari Contro-Lettori,
gli antichi Romani solevano usare la locuzione “panem et circenses” per richiamare quella strategia politica che mira a tenere “buono” il popolo con “cibo e divertimenti”, utilizzati pertanto come “armi di distrazione di massa”.
La politica lucana, tuttavia, non è in grado di fare manco questo. Passi per il “pane” (nessuno oggi è così ingenuo da aspettarselo veramente da chi ci governa), ma se persino i “circenses” diventano un problema, allora siamo davvero, davvero, nei guai.
Tutto ciò si evincerebbe leggendo le dichiarazioni del sindaco di Potenza riportate a mezzo stampa, riguardanti il mancato arrivo dei fondi regionali destinati alla Parata dei Turchi, che lo avrebbe spinto a farne richiesta direttamente al Ministero.
«Ma che vuoi fare», commentano già i maligni sotto i portici di Piazza Prefettura «quelli della Regione forse sono soddisfati dell’esito della “distrazione di massa” fatta a suon di bonus gas, e quindi per loro può anche bastare quella. E poi, si sa, anche se la giunta comunale di Potenza è di un altro colore, i fondi per i Turchi arriveranno, prima o poi. Quindi, basta lamentarsi».
E in effetti, forse, è davvero così: la vera Festa la fa il popolo potentino, a prescindere che i cordoni della borsa di Palazzo si allarghino o si restringano, o che le manine della politica cerchino (o meno) di spostare o aggiungere pedine nello scacchiere della rappresentazione folkloristica.
Nei giorni dedicati al suo Santo la Città si ritrova una volta tanto unita, cementata nei ricordi collettivi, di piazza e di focolare, avvolta in una riviviscenza che –se ben incanalata- può fungere de fluido lubrificante e da benzina per i mesi successivi.
E allora, oggi e per sempre, che siate credenti o meno, Viva San Gerardo, San Gerardo Superstar.
Walter De Stradis
- Scritto da Redazione
- Sabato, 17 Maggio 2025 07:19
Cari Contro-Lettori,
C’è un filo rosso che attraversa le pagine di questo numero di Controsenso Basilicata. E non è l’insulsa e costosa “pista ciclabile” del Gallitello.
Dalle nostre parti il Giro d’Italia è passato, ma la fogna si romperà di nuovo, mentre la parata (delle cose turche) cresce e la città si ingorga. Una sequenza che, più che ciclistica, pare fantozziana. Ma è la fotografia nitida — e impietosa — di una regione che continua a confondere l’evento con la visione, la tappa/toppa con il progetto, la targa con il merito. Il tutto, il più delle volte, alle spalle dei cittadini.
Eppure, dentro questo quadro a tratti scoraggiante, si aprono spiragli di partecipazione e di cittadinanza attiva. I comitati di quartiere (per il momento solo “spontanei”), le mobilitazioni civiche, il fermento nelle scuole e nei territori raccontano una voglia di riscatto che merita attenzione e sostegno. Sono segnali che vanno raccolti non con paternalismo, o peggio ancora diffidenza, ma con responsabilità politica e visione amministrativa. Se qualcuno ne è ancora capace.
Le istituzioni locali devono oliare le rotelle delle loro inamovibili poltrone in pelle per tornare ad essere punto di riferimento, non soltanto nella gestione dell’ordinario, ma nella costruzione di un nuovo patto sociale con la comunità. Un patto che metta al centro i bisogni concreti delle persone: la mobilità, i servizi, il lavoro, la formazione, l’accesso alla cultura. Serve uscire dalla logica emergenziale da alluvionati della cosa pubblica per avviare percorsi strutturati e partecipati.
Eppure, ripetiamo, qualcosa si muove. Sotto il folklore (quello trito) e sopra le chiacchiere da praticoni politici (ritrite), tra le pieghe degli attivisti rionali (delusi dagli alfieri del cambiamento diventati profeti dello status quo) e dei giovani che tornano ai campi, sì, si intravede una Lucania che vuole contare, che pretende spazi, che chiede pane (soprattutto nel senso di rispetto) e non solo circo. Un territorio dove la cultura vera — quella che non chiede il permesso o il beneplacito ai notabili — si ostina a voler fiorire. Nonostante non manchi mai chi, scientemente, annaffia veleno.
La Basilicata merita di più. E questo “di più” va costruito con metodo, ascolto, trasparenza e soprattutto onestà intellettuale, quella che manca ai santoni “gasati” dal tuttappostismo. Lo dobbiamo ai giovani che restano, a chi ha scelto di tornare, a chi ogni giorno sceglie — con dignità e fatica — di credere ancora in questa terra. Ma non a chiacchiere.
Walter De Stradis
- Scritto da Redazione
- Sabato, 10 Maggio 2025 07:17
Cari Contro-Lettori,
in questi giorni trascorsi in attesa
di fumate bianco/nere, è andato in
alta rotazione sui social un vecchio
video di Carlo Verdone, irresistibile
nei panni di padre Severino, che
racconta un suo aneddoto, avente
appunto a che fare con la nomina
di un nuovo Pontefice. Per scacciare i
curiosi ammucchiatisi dietro la porta del
conclave -racconta Severino/Verdone- a
un certo punto si vede costretto a minacciarli
di scomunica, ma di fronte all’esito
pressoché nullo della sua azione, annuncia
che farà portare via col carro attrezzi tutte
le auto in divieto che si trovano in piazza
San Pietro. A quel punto -praticamente
all’unisono-i curiosi si dileguano. L’amara
conclusione di padre Severino? In Italia
la scomunica ormai non spaventa più nessuno,
il carro attrezzi sì.
La buttiamo sulla farsa, ma in realtà qui
si tratta di parlare di un problema serio,
figlio senz’altro del mondo che è mutato,
della scarsa incidenza dei valori di un
tempo e di fenomeni complessi che hanno
come nefasta filiazione la questione dell’
“emergenza educativa”, che è tornata -e
veniamo alle cose nostrane- anche questa
settimana nelle parole di un parroco
di quartiere, quale Don Federico della
comunità salesiana di Don Bosco. È evidente
che le istituzioni assieme alle famiglie
sono man mano chiamati a
una sempre maggiore presa di
coscienza in tal senso. Ciò lo
scrivevamo già alcune settimane
fa, ma dalle parole di don
Federico è emerso -ancora una
volta- anche quello che è il nodo
all’altro capo del pettine: gli anziani
sempre più soli. Alcuni di
loro (ce lo dicono le statistiche),
ovvero coloro che ne hanno la
possibilità, raggiungono i loro
figli e nipoti nell’esodo che dissangua la
Lucania; coloro che NON ne hanno la
possibilità, spesso e volentieri, rimangono
al chiuso e al buio delle loro case, privi di
assistenza, di compagnia (soprattutto nel
caso di vedove e vedove), urgenti di una
parola di conforto, di amore, di contatto
umano. A tal proposito, anni fa ci capitò di
parlare con esponenti delle forze dell’ordine
che fecero cenno ai loro interventi atti
a impedire tentativi di suicidio tra le mura
domestiche. E se questo accade nel Capoluogo
di Regione, si può solo immaginare
la situazione nei piccoli paesi e nelle aree
interne.
La chiesa, le parrocchie, le associazioni
(poche) fanno quello che possono, ma l’inestimabile
patrimonio (di valori, cultura,
amore, tradizioni e racconti) rappresentato
da questa -sempre più consistente- fetta
di popolazione lucana, andrebbe salvaguardato
il più possibile.
Walter De Stradis
- Scritto da Redazione
- Sabato, 26 Aprile 2025 07:46
Cari Contro-Lettori,
ogni qual volta muore un santo Padre, tutti i suoi figli si sentono soli e smarriti. La consapevolezza che- a stretto giro di posta- morto un Papa se ne fa sempre un altro, non giova ad alleviare il dolore e il senso di spaesamento che provano i fedeli -quelli veri- in quei giorni di “vacatio”. E questo accade al netto dei vari “vaticanisti” e “papisti” che sciorinano i loro “pro” e “contro” a proposito dell’illustre estinto, dagli schermi televisivi, dai social e più semplicemente al bar sotto i portici. I politici locali, dal canto loro, si affrettano a predisporre comunicati stampa non troppo dissimili -nello spirito- dai “coccodrilli” che sono già pronti da anni negli archivi di giornali e agenzie; presidenti di pro loco, grandi e piccole, di associazioni e comitati, più o meno di rilievo, pubblicano su Facebook e Instagram le loro foto “in compagnia” del compianto Pontefice (il più delle volte si tratta però di un veloce scatto, anche mosso, “rapito” in mezzo a una folla), con la segreta speranza che qualcuno le scambi per istantanee di udienze private; stampa e tv vanno alla ricerca di possibili connessioni tra il personaggio e la regione in cui lavorano (visite e incontri ufficiali, accenni, amicizie etc.); gli scaffali delle librerie e le rastrelliere degli autogrill si riempiono di volumi sul Papa da poco deceduto. Insomma, si mette in moto tutto un gioco delle parti, in cui ciascuno, legittimamente, ci mette nel suo; nondimeno, la scomparsa di un Santo Padre impone ogni volta -sempre e comunque- tutta una serie di riflessioni sulla messa in pratica -da parte di ciascuno- di quei valori che la figura del capo della Chiesa cattolica (e del Vaticano) è chiamato a rappresentare. Umanità, carità, comprensione, vicinanza, perdono, onestà, solidarietà, tolleranza: sono tutte questioni che la comunità, “percossa e attonita”, laica o credente, si ritrova comunque a dover ri-considerare, pur in tutto il bailamme socio-mediatico che accompagna un lutto di questa portata. Valutare cioè le opinioni e le azioni (o, a seconda dei punti di vista, anche le inazioni) di un Papa su determinati temi, è un esercizio che inevitabilmente spinge a specchiarci, nel nostro piccolo, in uno schermo sul quale scorrono le immagini delle NOSTRE idee, azioni e inazioni. E sono molti i politici lucani che – “coccodrilli” a parte- spesso e volentieri, nel corso degli ultimi anni, hanno citato le parole del Pontefice. Basta spulciare -qua e là- interviste e comunicati stampa per verificare la reiterazione di una pratica buona per tutte le stagioni. Rimane da sperare che questi giorni di “riflessione”, magari siano utili anche al germoglio, seppur solo interiore, di un qualche “mea culpa”. Che fa sempre bene allo spirito. Di tutti.
Walter De Stradis
- Scritto da Redazione
- Sabato, 19 Aprile 2025 07:29
Cari Contro-Lettori,
noi e gli altri giornali che -solo la settimana scorsa- avevano trattato lo stesso argomento, siamo stati -ahinoi- facili profeti. E il destino, come dicevano nei film sentimentali degli anni Trenta, è stato ancora una volta beffardo: la mattina di giovedì scorso, riunione del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica nel palazzo della Prefettura in Piazza Mario Pagano a Potenza; la sera dello stesso giovedì 17 aprile, a pochi metri dal medesimo Palazzo del Governo, rissa sotto i portici con accoltellamento (per fortuna lieve) di un sedicenne. Il tutto, se non si fosse capito, avveniva proprio il Giovedì Santo, giusto per dare una nota di “colore” alla notizia. Sui social, come palline da flipper, sono immediatamente rimbalzate accuse (alle istituzioni: scuola e forze dell’ordine), critiche paternalistiche (alle famiglie di oggi), rimbrotti piuttosto pepati (rivolti alla politica), consigli e perle di saggezza vari ed eventuali (circa i rimedi utili a riportare la serenità in Via Pretoria e in altre zone di Potenza). Il Capoluogo, per come stanno le cose, sembra afflitto e dolorante a causa di uno di quei torcicollo che sovente ti fregano a seguito di un inverno inoltrato (come questo); ma la derivante incapacità di muovere la testa come si dovrebbe (e di guardare in tutte le direzioni) è in questi casi clinici dovuta a un mix di con-cause: postura, stress, cattive abitudini e -spesso e volentieri- trascuratezza. Più o meno le stesse cose che hanno portato alla situazione in cui sembra sprofondare sempre più il Capoluogo (e non solo nella sua parte vecchia). I rilievi mossi sui social, probabilmente, colgono tutti nel segno (anche se magari solo in parte), il che deve necessariamente spingere tutti gli attori della vita sociale del Capoluogo (scuola, politica, forze dell’ordine, famiglie etc.) a una riflessione urgente e piuttosto seria. Una cosa, su tutte, va però percepita immediatamente: Potenza è cambiata. La sensazione di “immobilità” del Sud, descritta da Levi e altri, e che qui nel Capoluogo è stata sempre percepita tanto come un handicap quanto come un vantaggio, ci ha spesso spinto -tutti- a poltrire (a livello mentale) in una calda coperta, al riparo dai venti -anche nefasti- del cambiamento. Ripetiamo: il volto della città è mutato. I nostri giovani, sono mutati. E i social sono i maestri di cerimonia di questo globale sabba involutivo. Indietro ormai non si torna più. Bisogna prendere coscienza -tutti- che il torcicollo di Potenza è il frutto di un mix di vettori che continueranno a tornare e a tornare. La Potenza del “tanto qui non succede mai niente” è ormai suolo una foto-ricordo su Facebook. Meditate, gente, meditate.
Walter De Stradis
- Scritto da Redazione
- Sabato, 05 Aprile 2025 07:26
Cari Contro-Lettori,
in fisica, il cosiddetto “effetto farfalla” è il principio in base al quale un insetto sbatte le ali a Cesenatico e -dopo un certo lasso di tempo- a Wall Street crollano le borse. Ovviamente, questa è la più classica delle semplificazioni, ma il concetto di base è pressoché quello: «Piccole variazioni nelle condizioni iniziali possono produrre grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema».
C’è poi una scena di “Mi manda Picone” (1984, regia di Nanni Loy), in cui Giancarlo Giannini, colpito da una improvvisa epifania circa la soluzione del “giallo”, spiega singhiozzando alla -da lui concupita- Lina Sastri (che fino a quel momento aveva creduto vedova di un operaio perito in un incendio): «Sai cos’è l’amianto? L’amianto è quella cosa che, quando ci va il fuoco vicino, invece di bruciare, va in culo a me».
Orbene, se uniamo i due modelli, ovvero l’ “effetto farfalla” e l’”effetto Picone”, ci rendiamo conto come l’allarme lanciato dalla Cgil, e non solo, circa i “dazi” tanto cari al presidente americano, dovrebbe preoccupare anche noi lucani. Eccone un assaggio: «A pagare le scelte dei dazi del governo Trump saranno ancora una volta i lavoratori. Per la Basilicata, già afflitta dalla crisi dell’automotive e un calo dell’export del 42%, gli effetti potrebbero essere incalcolabili. Serve un intervento urgente e straordinario di protezione dei lavoratori e investimenti adeguati per industria, innovazione e produzione da parte del Governo e della Regione Basilicata». Lo afferma il segretario generale della Cgil Basilicata, Fernando Mega. «Oggi che il contesto internazionale da un punto di vista politico, economico e sociale è sempre più incerto - prosegue - paghiamo l’incapacità della classe dirigente lucana di diversificare la nostra economia».
Il resto (delle preoccupazioni, assortite) lo leggete all’interno.
Insomma, non bastavano i nostri, di politici: adesso dobbiamo preoccuparci anche di quelli americani.
Buona lettura (confidando sempre che i nostri rappresentanti non vadano...a farfalle)
Walter De Stradis
- Scritto da Redazione
- Sabato, 29 Marzo 2025 07:53
Cari Contro-Lettori,
l’analisi del fresco novantenne on. Antonio Potenza (di cui leggete l’intervista a pagina 6) è lucida: «Quando sta per maturare qualche cosa, questa regione “scoppia” sempre, scoppia Matera, scoppia tutto». Difficile non leggere in questa frase un riferimento a quanto successo in settimana, alla Regione, a seguito degli scazzi vari dovuti alle imminenti elezioni materane. In ogni caso, la chiave di lettura sembra legata alla conclamata “autoimmunità” della politica lucana, una macchina abnorme capace cioè di divorare persino se stessa, e di paralizzare un sistema, magari anche solo per qualche giorno, se le dinamiche partitiche e di bottega lo richiedono. D’altronde, chi ha il vezzo di frequentare i consigli regionali (quando non sono rinviati per l’assenza, più o meno giustificata, di qualcuno), sa bene che -per esempio nel caso delle frequenti “nomine”- ci vuole poco a far saltare banco e seduta. Ma così è, se vi pare, viviamo in un mondo che non abbiamo inventato noi, dice il saggio, ed è così, ma è pur vero che, da qualche anno a questa parte, il Lucano si è poco impegnato per cambiare il suo “Mondo piccolo”, per citare le opere di Giovannino Guareschi. E, certo, oggi fa più che mai tenerezza, una tenerezza dolorosa, rivedere in tv quei film con Don Camillo e Peppone, che se le davano per questioni attinenti al Campanile o alla Casa del Popolo, ma soprattutto alla “fede” di entrambi. Altri tempi, per non dire altre ere geologiche.
E chissà, ancora, se in un suo film, il Nanni Moretti di oggi, fattosi un giro dalle nostre parti, prenderebbe ancora per il collo l’avventore del bar che lamenta che “ormai sono tutti uguali”. “Non siamo in un film di Alberto Sordi!” gli urlava il baffuto regista/attore, nell’episodio citato, mentre prendeva per il collo il cliente “qualunquista”.
Il fatto è che qui in Basilicata siamo andati ben oltre Sordi, e da un pezzo: siamo in un film di Stanlio e Ollio.
“Il Grande Botto”. Ma ovviamente è solo rumore (per nulla).
Walter De Stradis
- Scritto da Redazione
- Sabato, 22 Marzo 2025 07:06
Cari Contro-Lettori,
quella del terremotato è una scossa che ti rimane dentro. Un malessere decennale che meriterebbe uno studio e una classificazione specifici, al pari degli aspetti tellurici del discorso. Che in quel 23 novembre del 1980 tu fossi un bambino, come chi scrive, o un adulto, non fa molta differenza. E’ da quel preciso momento che in questa regione ci si sente tutti ancora un po' più in credito col destino. Ricordo che a scuola, alla minima vibrazione non prevista, si finiva in un attimo tutti con la testa sotto il banco, e che sollievo quando subito dopo si scopriva che i finestroni di vetro avevano solo assorbito e ritrasmesso la piccola e innocua “onda d’urto” di un qualche grosso camion che si era avviato dabbasso. Ma quella maledetta parola che veniva sempre urlata da qualcuno in certe occasioni, in un attimo era capace di proiettare dentro le teste di tutti, insegnanti e bidelli compresi, un intero e lungo “disaster movie” all’americana, ma molto italiano: gente che fugge, edifici distrutti, roulotte, campeggi di fortuna, militari, tende e quant’altro. Poi, alcuni anno dopo, nel 1990, i vetri delle nostre scuole furono nuovamente scossi, ma il terremoto questa volta era vero. Passano i decenni, ma non servono a lenire un disagio fattosi ormai ancestrale, addirittura in qualche modo ereditario, se è vero che quella bambina al tg -in occasione della scossa di qualche giorno fa- dice candidamente all’inviato che ci siamo cacati sotto. E così, le parole “epicentro”, “magnitudo”, “indicazioni delle autorità” e quant’altro ri-entrano di prepotenza nel nostro vocabolario minuto, colloquiale e istituzionale, e ci sentiamo nuovamente tutti un po’ più lucani, sfortunati e soli, se non accomunati dall’evento infausto ai cugini della Campania. Quel senso di precarietà, tuttavia, “a bocce ferme”, si attenuerà come al solito (senza mai dileguarsi), lasciandoci però in balìa di ben altri terremoti, ambientali, culturali, politici e sociali, che – a ben vedere- non riescono ancora a trasmetterci però quell' “onda d’urto” utile a reagire come sarebbe necessario. Ma questa è un’altra storia. Torneremo a parlarne, come sempre, dalla prossima settimana.
Oggi, più che mai, tenetevi forti (e forte).
Walter De Stradis
- Scritto da Redazione
- Sabato, 15 Marzo 2025 07:05
Cari Contro-Lettori,
il corpo è steso lì, riverso sulle basole di una piazza di paese (ma potrebbe trattarsi anche di una città). Il viso è esangue, negli occhi, un’espressione di rassegnazione: la vittima conosceva il suo assassino.
Poirot, non senza sforzo (considerata la pancia prominente), si piega per osservare meglio. Rimugina qualcosa, mentre si liscia i baffi impomatati. A un tratto si raddrizza, con un dito si gratta nella scriminatura dei capelli (impomatati anch’essi), mentre dietro di lui il tenente Colombo scrive qualcosa sul suo minuscolo blocchetto di appunti (che contiene anche la lista della spesa, stilatagli dalla moglie). Il poliziotto rimette in tasca il notes e si accende il suo consueto sigaro verde puzzolente, si guarda intorno, cerca con lo sguardo obliquo qualcuno a cui chiedere qualcosa, ma la piazza è vuota. Un Tricolore sventola su un qualche edificio istituzionale poco distante, mentre il collega tenente Sheridan, in una pausa tra un Carosello e l’altro, invita gli altri due a girare il cadavere del lucano morto. I tre detective si rendono conto, in questo modo, che il giovane è stato pugnalato alla schiena, poco sopra lo zaino robusto che -evidentemente- era stato preparato per un lungo viaggio (della speranza?). A quel punto, Poirot, piccato un tantino dal suggerimento ricevuto, indica le tasche gonfie dei jeans della vittima, e con garbo prega i due tenenti di spremere meglio le loro “celluline grigie”. Colombo, alza la mano col sigaro tra le dita, come per chiedere scusa e abbozza un sorriso, si sposta il ciuffo dei capelli scarmigliati e raccoglie dalle tasche del giovane deceduto alcuni strani foglietti rettangolari. Lui, che è di origini italiane, li riconosce subito. Sono “santini” elettorali, spiega. Eh, sì, conferma Sheridan, che di “pubblicità” ne ha fatta tanta. E' la “firma” dell’assassino, sentenzia Poirot, sbagliando gli accenti, da buon belga in trasferta.
Allora è vero, il lucano conosceva il suo carnefice. Lo sguardo dei tre detective si volge, quasi in sincrono, verso quel palazzo istituzionale. La politica ha colpito ancora, sanciscono in coro.
Ma, naturalmente, questa è solo l’ennesima fiction “gialla” girata dalle nostre parti.
Oppure no?
Walter De Stradis