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di Walter De Stradis

 

 

 

 

 

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essant’anni, vagamente somigliante ad Anthony Quinn, l’ingegner Vincenzo Ciani è il Direttore regionale dei Vigili del Fuoco, nonché comandante provinciale, pro-tempore, di Potenza. E’ uno dei tre dirigenti generali lucani, su un totale di venticinque, presenti nell’organigramma nazionale del Corpo: il che, parole sue, è un fatto di per sé in “contro-tendenza”.

d - Direttore, il suo, dopo una lunga carriera svolta altrove, è un ritorno in Basilicata...

r - Sì, sono originario di Atella, ove ho vissuto fino alla fine del liceo. Poi sono andato a studiare al Politecnico di Torino, per poi entrare nei Vigili del Fuoco nel 1990. Prima di approdare a Potenza (nel dicembre dello scorso anno), ho svolto una prima parte della mia carriera a Torino, ricoprendo anche l’incarico di vice-comandante; ho poi ho avuto un incarico di reggenza al comando di Novara; nominato primo dirigente sono stato comandante a Foggia; ho fatto tre anni a l’Aquila, sei anni a Bari. Dopo una breve esperienza al Ministero a Roma, nel 2020, con la promozione a dirigente generale ho avuto l’incarico in Molise. A dicembre scorso ho assunto l’attuale ruolo in Basilicata, e dal giugno successivo, per la vacatio della figura dirigenziale del comandante provinciale di Potenza, ricopro pro-tempore anche quella funzione.

d - Fino alla nuova nomina.

r - Che non si prevede a breve, ma che credo si concretizzerà prima della primavera dell’anno prossimo.

d - Immagino che per lei sia un carico di lavoro aggiuntivo.

r - Sì, perché uno si ritrova a svolgere un duplice incarico di coordinamento e di natura operativa. Ed è abbastanza innaturale.

d - La scorsa estate è uscito un comunicato della Uil Pa Vigili del Fuoco che sostanzialmente chiedeva un incremento delle dotazione di personale per i distaccamenti di Potenza e Matera, e più in generale un aggiornamento dei mezzi e delle attrezzature. Lei che situazione ha trovato?

r - La carenza di personale è una problematica abbastanza diffusa nell’intera organizzazione nazionale dei VdF, anche se negli ultimi anni si sta riducendo sensibilmente. Per onestà debbo anche rappresentare che, nel rientrare a Potenza, non conoscevo il locale ambito lavorativo, non avendoci mai lavorato. Tuttavia ho potuto notare che il gap tra risorse teoriche ed effettive, nell’ambito di realtà più piccole, è meno accentuato che altrove.

d - Beh, una cosa buona.

r - Sì. Qui c’è un rapporto vigili/popolazione che è di uno su mille, laddove ammonta a uno su millecinque/duemila in altri ambiti regionali. Conoscendo altre situazioni, diciamo dunque che possiamo lamentarci, ma molto meno rispetto ad altri. Vero è che qui abbiamo una viabilità problematica, ma allo stesso tempo ci sono centri abitati molto più contenuti e minore densità abitativa. Per quanto riguarda la dotazione strumentale, negli ultimi tempi (anche in ragione delle disponibilità rinvenienti dal Pnrr), stiamo in buona parte colmando le carenze che avevamo, abbiamo una buona quantità di mezzi e non ritengo che siamo messi male. Abbiamo vissuto tempi molto peggiori. Anche se, in sincerità, debbo registrare sul territorio la forte carenza di personale amministrativo, di supporto logistico dei nostri uffici. Ad esempio, qui a Potenza ovviamente gli impiegati ci sono, ma, pur essendo previsto in organico, non c’è un funzionario amministrativo, e tutto ciò si tramuta in maggiori incombenze a carico del dirigente. Ed è una cosa strana, devo dire, perché certi sbilanciamenti burocratici di solito si verificano al Nord.

d - Dei VdF qui in Basilicata si parla molto d’estate, a proposito della questione incendi, ma adesso il problema -assai acuto e drammatico in Centro e Nord Italia- è quello idrogeologico. Il tema è dunque quello dei rischi e della prevenzione. Quale può essere un quadro, preventivo, della situazione in Basilicata?

r - Da parte nostra, per quanto riguarda le contingenze ancora in atto in Veneto e Toscana, abbiamo un gruppo di nove uomini, inviati subito a Prato già dalle prime battute (e sono stati anche già avvicendati, ovviamente). Questo modus operandi, la colonna mobile regionale, organizzato a livello nazionale, ci consente di partire in qualsiasi momento, nel raggio di mezzora, al verificarsi di un evento emergenziale in Italia. Sono già preordinati, personale e mezzi. Questo particolare dispositivo, ovviamente, ci consente anche di RICEVERE supporto, qualora un’emergenza si dovesse verificare da noi.

d - Facendo corna, se un alluvione, una situazione particolarmente grave dovesse verificarsi qui, arriverebbero vigili del fuoco da altre regioni.

r - Indubbiamente. Ed essendo la Basilicata più centrale rispetto a regioni come la Sicilia, all’occorrenza avremmo un più celere supporto, da Puglia, Calabria, Campania, Molise.

d - Ma quali sono i rischi in Basilicata?

r - Quelli di una regione che -per sua natura- ha ancora delle condizioni idro-geologiche abbastanza precarie. C’è una presenza diffusa di fronti franosi storici, con una tendenza all’accentuarsi sia dei fenomeni meteorologici sia di problematiche riguardanti la cura del territorio. Mi spiego: negli ultimi decenni si è persa la cultura della cura, del vivere il territorio come facevano i nostri antenati. Il territorio noi lo “frequentiamo” solo in occasione della coltivazione, della raccolta, mentre una volta si “viveva”, il che consentiva di irreggimentare le acque all’occorrenza del verificarsi di una piccola frana o smottamento. Insomma, la mano dell’uomo in qualche modo compensava, oggi invece ci accorgiamo del problema solo nel momento in cui si verificano precipitazioni consistenti, che mettono in evidenza ciò che è avvenuto sul territorio.

d - Quindi cosa può fare, quotidianamente, il cittadino per “esorcizzare” i citati, infausti eventi?

 

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r - Innanzitutto avere consapevolezza che ogni nostra azione ha un riflesso sulla natura. Basti pensare che noi siamo qui a Potenza, in un ambito urbanizzato, e una volta non c’era tutta questa superficie impermeabilizzata, e quindi una buona parte della quota d’acqua percolava (come si dice in gergo tecnico). E invece oggi questa quota, per effetto dell’urbanizzazione (asfaltatura, pavimentazione etc.), non drena più ed è quindi tutta acqua che ci ritroveremo a valle. Tutto ciò, anche rispetto al fatto che ultimamente piove in maniera più accentuata, deve farci riflettere, aumentare la nostra consapevolezza. E’ pur vero che rispetto ad altri ambiti, tipo la Toscana, noi qui abbiamo il vantaggio di non essere in pianura; avere un territorio con variazioni d’altitudine in qualche modo dovrebbe agevolare la irreggimentazione delle acque. Ma debbo dire, ahimè, che in tanti casi comunque ciò non accade e riusciamo ad essere penalizzati anche avendo a disposizione un territorio come questo.

d - E questo dipende da cosa? Dal nostro comportamento?

r - Da un comportamento non consono e non coerente con le azioni e le misure da adottare.

d - Lei, come già il governatore Vito Bardi, è un ufficiale che torna nella sua regione dopo aver lavorato a lungo altrove...

r - …beh, il presidente della Regione, rispetto a me, ha sicuramente frequentato maggiormente la Basilicata. In passato io ci venivo solo per le feste e per trovare i parenti, mentre oggi mi ritrovo a conoscere ex novo alcune aree, come la zona Sud e la provincia di Matera. Allo stesso modo sto riscoprendo un possibilità di vivere le questioni e il territorio, legata a tempi diversi. E’ un po’ come imboccare la statale o la provinciale, piuttosto che viaggiare in autostrada.

d - Qui la vita è più “lenta”?

r - Però hai la possibilità di apprezzare di più le cose. E’, se vuole, anche un modus vivendi un po’ asincrono rispetto al mondo esterno, ma si tratta di un’asincronia positiva.

d - Cos’è invece che la fa arrabbiare della Basilicata?

r - La rassegnazione. Quella che spesso si ritrova nelle persone più anziane, mentre nei più giovani vedo una certa vitalità. Le risorse ce le abbiamo, dobbiamo avere solo la consapevolezza dei nostri mezzi e delle nostre potenzialità. Il mio incarico qui in Basilicata è biennale, ma cercherò di rinnovarlo.

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Le attività della Fondazione Alessandra Bisceglia di Lavello,a sostegno di chi soffre di patologie rare come le anomalie vascolari, saranno al centro di un’iniziativa di carattere scientifico e divulgativo che si svolgerà giovedì 9 novembre a Barletta, in Puglia. Il convegno, dal titolo “Verso l’autonomia possibile, come affrontare l’impatto di una malattia rara” è promosso dal Rotary Club di Barletta, in collaborazione con la FondazioneViVa Ale Onlus e si svolgerà nei locali del Brigantino 2, con inizio alle ore 20.30. Dopo i saluti del presidente del Rotary Club di Barletta, Francesco Piazzolla e della presidente della Fondazione ViVa Ale, Serena Bisceglia, la responsabile del Coordinamento Malattia Rare Regione Puglia, Giuseppina Annichiarico introdurrà i lavori con il suo intervento dal tema “Evoluzione delle malattie rare: la svolta italiana”. La responsabile delle relazioni istituzionali della Fondazione Alessandra Bisceglia, Raffaella Restaino, si soffermerà invece sulle tante attività svolte quotidianamente a sostegno delle persone affette da patologie rare, con la sua relazione dal titolo “Fondazione ViVa Ale, un impegno alla luce di un sorriso”. Di “Malattia - Autonomia - Armonia” parlerà quindi il professor Cosmoferruccio De Stefano, direttore del Comitato scientifico della Fondazione Alessandra Bisceglia. Il convegno sarà concluso, dopo un dibattito fra i presenti in sala, dall’assistente del Governatore del Rotary, Massimo Cassanelli.

 

 

 

 

 

di Walter De Stradis

 

 

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(foto LUIGI CECERE)

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La splendida e accorsata manifestazione “Il Borgo”, che annualmente si tiene nel cuore di Accettura (Mt), quest’anno (il 31 ottobre scorso) si è conclusa col concerto del “re della pizzica” Antonio Castrignanò. Il noto musicista di Calimera, Lecce (che di frequente ha partecipato agli eventi del comune lucano, particolarmente attivo in tema di tradizioni), è un esponente di un genere che si potrebbe definire “taranta-world”, in cui i ritmi indiavolati della musica d’identità salentina si mischiano con tutti quegli altri, nel mondo, che parlano “la stessa lingua”. Quella dell’Uomo.

d: A guardarla lei è ancora giovane, ma a leggere il suo “curriculum”, ha già avuto una carriera impressionate. Ci spiega l’arcano?

r: (sorride) Il mistero si spiega con un’età che maschero bene. Ho quarantasei anni, in realtà, ma ho cominciato abbastanza giovane -nei primi anni Novanta- a percorrere le vie della musica “di riproposta”, al fianco di un grande personaggio e noto ricercatore, scomparso da poco, Luigi Chiriatti.

d: Lui era stato uno dei protagonisti delle cosiddette “indagini sul campo”.

r: Sì, aveva iniziato negli anni Settanta, a sua volta guidato da un’altra mente folle, Rina Durante. E così, lui che aveva già questo legame forte con i “cantori”, mi ha aperto le porte, facendomi andare a fondo in qualcosa che già mi apparteneva, in quanto la musica popolare fa parte di un tessuto sociale.

d: In cosa si concretizza, ancora oggi, la “modernità” della musica di riscoperta? Perché è ancora importante diffonderla?

r: E’ un dialogo ancestrale con la propria terra (così come lo definiva il poeta Antonio Verri), che, anche con tutti i cambiamenti possibili, non finirà mai. E la nostra è una terra ricca di sonorità, di rituali, di simboli che non sono certamente dovuti al caso, bensì a una conoscenza profonda dell’animo umano e di questo rapporto così misterioso tra la Terra e l’Uomo.

d: Il Tarantismo, che è alla base di certe musiche, è quel fenomeno culturale e antropologico che ha a che fare, notoriamente, con la “guarigione” dal “morso” del ragno. Il nostro Antonio Infantino rileggeva questo rito alla luce dei “veleni” attuali, il lavoro nelle fabbriche, il razzismo etc. Quali sono, per lei, le “tarantole” di oggi?

r: E’ sicuramente un malessere interiore che l’uomo ha sempre avuto nel corso della storia. Ognuno di noi, nella propria, vita, attraversa dei momenti bui. Il Tarantismo è sostanzialmente fondato su questo, ma la sapienza, di diverse ere storiche, ha saputo conoscere e affrontare questo malessere umano, di volta in volta dando un significato profondo alle cose. Oggi il Tarantismo può essere sicuramente legato alla solitudine, tipica della società moderna, che allontana l’individuo da se stesso; laddove invece il Tarantismo, per sua natura, era portato a “inglobare” l’individuo che stava soffrendo, a riportarlo alla “normalità” attraverso una ritualità, e ad accoglierlo nuovamente nella comunità. Questo è un insegnamento che il Tarantismo ci ha lasciato e di cui tutt’oggi si avverte l’esigenza, ovvero la socialità, lo stare insieme, rafforzare lo spirito dell’individuo.

d: E il ballo sfrenato, magari quello di un suo concerto, oggi può davvero aiutare a “scaricare” certi malesseri?

r: Sicuramente sì. Certo, in questi casi non c’è un vero rituale con un codice da rispettare (e ognuno trova un benessere a modo proprio), ma sicuramente questa musica, questo ritmo che storicamente viene da lontano –e che è stato protagonista di diverse esperienze di “guarigione”- può sicuramente aiutare ciascuno di noi a liberarsi delle “tossine” della società moderna.

d: Lei è anche un esponente della Notte della Taranta, evento culturale importantissimo, quello del “concertone”, ma sul quale circolano anche polemiche, a proposito di una “autenticità” che sarebbe compromessa e sacrificata sull’altare dei numeri e delle presenze turistiche. Cosa ne pensa?

r: Diciamo che io “sono stato” un esponente, fino a qualche anno fa, di questo evento (ho fatto sedici edizioni di fila, fino al 2018 incluso). E poi, forse proprio in ragione delle motivazioni che qualcuno avanza, ho preferito avere un percorso artistico personale, lontano da quelle che possono essere le “minacce” di un evento così grosso, che deve confrontarsi con tantissime realtà. Infatti, un evento così importante a livello nazionale ha anche una grossa responsabilità, che è quella di allontanare questa musica dalla narrazione sbagliata di se stessa; specie in questo momento storico, in cui è al contrario molto importante andare alla radice e al senso di questa cultura musicale, che attraversa sì il Tarantismo, ma anche il lavoro, le comunità, i canti d’amore, forte di una modalità espressiva per ogni canto. Generalmente, invece, la televisione -che è entrata di prepotenza nella Notte della Taranta- è portata ad appiattire tutte queste “ricchezze”. Ecco perché, a un certo punto, ho preferito scendere da quel palcoscenico e percorrere le mie intuizioni parallelamente.

d: Quale può essere una “interpretazione sbagliata” che le dà fastidio?

r: Il folklore. Quello non inteso come “sapere del popolo”, ma fare l’intrattenitore e lo zimbello per il turista di turno, col fazzoletto e la gonnellina. Sono cose che allontanano dal senso profondo di questa cultura musicale. Ma è solo un esempio tra tanti, in negativo. Io però preferirei parlare di ciò che “dovrebbe essere”, ovvero del senso profondo di un canto di carrettieri, o di un canto d’amore o di una pizzica tarantata.

d: Un tempo, infatti, la musica “commentava” tutte le fasi della vita, “dalla culla alla bara”, per citare De Martino.

r: Assolutamente sì, e ciò non accadeva a caso, ma con delle modalità precise che si sono tramandate nel corso di millenni. Quindi, semplificare o appiattire magari è doveroso per una tv commerciale, ma ne consegue però che il contenitore giusto non è quello. E’ importante che una cultura venga conosciuta e raccontata nella maniera giusta, allontanando le interpretazioni sbagliate.

d: La sua è una “nuova canzone popolare”, con testi socialmente impegnati: immigrazione, lavoro. La “world music” propriamente detta, dunque, non è solo la riproposizione di cose antiche, ma anche l’innesto con nuovi contenuti?

r: E’ una via, questa, che secondo me va percorsa, perché la musica di tradizione orale ha sempre raccontato la quotidianità (le difficoltà, le gioie, i dolori); attraverso i canti, tutto veniva conservato, espresso e trasformato, anche. E quindi, per me è importante cantare l’oggi della società moderna, ma con una matrice riconoscibile, territoriale, con l’identità che ci è stata trasferita. E’ inutile, quasi, continuare solo ed esclusivamente a cantare testi che non si ritrovano più nella quotidianità. Mio figlio di otto anni non sa che la mia terra è stata a lungo votata alla coltivazione del tabacco, e quindi “Fimmine fimmine ca sciatu allu tabaccu” non sa neanche cosa volesse dire. E’ importante dunque raccontare le cose a quella maniera, ma anche accendere i riflettori, socialmente, su quello che sta accadendo OGGI, o solo ieri, nel Salento, conoscere quali sono le difficoltà dei lavoratori della terra di OGGI, che spesso e volentieri sono le stesse di cinquant’anni fa. Io vengo da una famiglia contadina che mi racconta le stesse cose che gli immigrati vivono oggi: gente che dormiva a terra, che si alzava alle tre e che veniva sfruttata. La musica HA questo dovere e la musica popolare è sempre stata un grido socialmente utile a rompere gli argini e a rivendicare una dignità. Lo ha sempre fatto ed è bene che conservi questa funzione.

d: Il suo ultimo disco s’intitola “Babilonia”, che è un termine che ricorre molto nella musica reggae (e nel cd c’è anche un brano con Don Rico dei Sud Sound System), che sta a indicare il sistema corrotto mondiale.

r: No, l’ho inteso in maniera diversa, innanzitutto facendo riferimento a un momento storico molto confusionario, quello pandemico (che ha anche ritardato l’uscita del disco). Ho usato quel titolo perché quest’album racconta la bellezza delle differenze, che non creano sempre e solo confusione; in questo disco, il mio dialetto incontra quello di altre personalità, nazionali e internazionali, che raccontano le stesse tematiche. “Babilonia”, oggi, può essere tanto un giro intorno al mondo, quanto una passeggiata nel mercato rionale, ricco com’è di una vivacità sonora che viene dall’India, dal Marocco, dal Pakistan. E c’è l’abbiamo sotto casa. E la cosa bella e misteriosa, che mi affascina tantissimo, è che questi suoni raccontano tutti le stesse difficoltà. E’ un discorso che ha a che fare con l’essere persona umana.

d: Spesso, qui in Basilicata, vista la ricchezza e diversificazione delle nostre tradizioni, ci domandiamo se sarà mai possibile creare un evento di vaste proporzioni, simili a quelle della Notte della Taranta.

r: Personaggi come il maestro, filosofo, musicista (e mille altre cose) Antonio Infantino avevano già scavato un percorso in questa direzione, e soprattutto lui aveva attorno a sé la vivacità della gioventù, che è colei che ha il dovere, l’obbligo, di ereditare un passato e raccontarlo poi al futuro. Io vi auguro che questo accada, ma credo che sia un percorso lungo che territorialmente deve maturare. Personaggi del genere, con una mente così vivace, possono avviare il percorso di costruzione di un evento che non sia solo musica, ma narrazione di un territorio a trecentosessanta gradi.

d: Grazie di cuore.

r: Grazie a voi. “Ci balla la pizzica nu more mai”.

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di Walter De Stradis

 

 

 

Da un paio d’anni in qua, a girare per la Basilicata non ce n’è più solamente uno, di furgoncino colorato, il “bibliomotocarro” celeste –ormai celeberrimo- del maestro La Cava, bensì anche un secondo, verde pisello, guidato da quella che ormai tutti chiamano “Grace on the Road”.

Ma se il primo è uno spacciatore di libri, la seconda, che all’anagrafe corrisponde al nome di Grazia Telesca (cinquantatre anni, potentina), è una spacciatrice di allegria. Un’allegria da indossare.

Ma la sua, come vedremo, è anche una storia esemplare di riscatto, dopo un periodo difficile e drammatico vissuto in ambito familiare. Lo ha raccontato, in maniera delicata e velata, nel suo romanzo intitolato “La libertà di Lolita” (2022, Kimerik).

Sulla scorta del suo libro, Grazia ha fatto anche molti incontri nelle scuole. La sua attività come “Grace”, invece, è quella di vendere abiti “on the road”, appunto, ma anche questa è una forma per “tornare al mondo”.

d: La domanda tormentone: come giustifica la sua esistenza?

r: Oh! In questo momento della mia vita, la giustifico come una forma di rinascita. Perché finalmente Grazia “esiste”. Ci siamo riusciti a farla rinascere e a darle l’opportunità di esistere e avere un posto del mondo.

d: Lei dice di “esistere” solo da poco. Come mai?

r: Perché non mi sono mai amata, per via della mia situazione pregressa.

d: Ci parli un po’ della sua storia, se vuole. Leggendo il libro, emerge un passato di violenza in ambito familiare.

r: Sì. Sono sempre cresciuta pensando di non essere capace, di non valere nulla. E’ questo è stato un grande dolore nella mia vita.

d: Chi subisce violenze a volte tende ad auto-colpevolizzarsi?

r: Sì, è successo anche a me. Anche perché ho cercato di proteggere gli altri membri della mia famiglia. In questo processo mi annullavo sempre di più, e non mi guardavo. Poi ci sono stati vari passaggi dolorosi, a scuola, le amicizie, il lavoro, ma la forma più grande è stata quella della famiglia.

d: Lei afferma di essere rinata da poco, ma grazie a cosa, finalmente?

r: Sì, mi ci è voluto un bel po’. Sono rinata perché ho cominciato a guardarmi, a scoprire il mio valore, che prima non pensavo nemmeno esistesse. Piano piano invece ho cominciato ad amarmi. La mia forza più grande sono le mie figlie, è inutile dirlo. Per me sono tutto, e tutto quello che faccio è per loro. Tuttavia, arriva un momento in cui devi pensare che ci sei anche tu, che volersi bene serve a donare ancor di più all’altro. Ed è proprio questo che dico nelle scuole: la prima cosa è amare se stessi, altrimenti l’amore che si riesce a donare sarà sempre molto limitato. Di carattere sono molto empatica e predisposta a donare affetto, ma da quando ho iniziato a guardarmi, quell’affetto ha un nuovo sapore.

d: Spesso si sente dire che alcuni giovani praticano la violenza perché ricevono poco amore in famiglia. Si parla di genitori troppo presi dalla loro vita frenetica e con poco tempo da dedicare ai figli. Dai suoi incontri nelle scuole è emersa questa cosa?

r: Questo fattore sicuramente ci sarà, ma non sempre. A volte c’è tanto amore, ma ci sono anche difficoltà che i ragazzi non riescono a tirar fuori. Il mio andare nelle scuole è volto proprio a spronarli, tirando fuori certe sensazioni, per poterle risolvere.

d: Cosa emerge il più delle volte?

r: Eh, beh, un po’ di tutto, ma non siamo mai scesi nei dettagli. Ma a volte ti fanno domande mirate che ti fanno capire cosa può essere successo, tipo: «Annullarsi quando si sta con una persona è un fatto importate»?. E annullarsi non va bene. La prima persona al mondo da amare siamo noi stessi: la persona che ci sta a fianco è uno scambio, ma nessuno deve decidere al posto tuo.

d: In effetti pare che oggi siano in aumento alcune forme di violenza psicologica nel rapporto uomo-donna, ancora prima che fisica.

r: Sì, è un discorso psicologico che dovrebbe partire già dalla scuola. A volte infatti si può essere segnati anche da una semplice paura subita da piccoli (io mi spaventai in acqua e questa cosa mi è rimasta). Cosa voglio dire? Che i docenti dovrebbero insegnare per prima cosa la vita, supportando il ragazzo in ciò che non riesce ad esprimere. L’ascolto, la condivisione, il supporto, valgono tantissimo. E’ ciò che ho sempre cercato di insegnare alle mie figlie, il vicendevole supporto. Io sono stata nell’angolo, e nessuno ha mai capito che avevo bisogno di una carezza, di essere ascoltata circa il perché del mio silenzio, del mio odiarmi, dell’incapacità di dialogare con gli altri. Io non riuscivo ad aprirmi, ma il dialogo è tutto.

d: Il consiglio da dare a chi subisce violenza, fisica o psicologica, è dunque quello di aprirsi.

r: Sì, dialogare subito, raccontare, denunciare (è la prima cosa); tentare e trovare una persona adatta con la quale aprirsi, per poter uscire da questi tunnel, che inizialmente sono mentali. Poi, certo, c’è anche la violenza fisica, dolorosissima, ma se si cerca la via del dialogo si trova sempre una persona che ti aiuta. Non è un caso se ai ragazzi io ho lasciato anche il mio numero personale e mi sono messa a disposizione. Non mi vesto da esperta, ci mancherebbe: sono semplicemente una persona che empaticamente vuole donare tanto.

d: Siamo circondati da mezzi di comunicazione, ma in realtà si “parla” pochissimo.

r: Ecco perché io mi sono inventata un lavoro, legato anche a questo, al sociale. Le persone, quando vengono da me, prima ancora dell’acquisto, hanno il supporto, l’ascolto, anche se si tratta semplicemente di cercare quell’abito giusto che ti faccia stare bene. Io vado in giro, ma i clienti mi chiamano anche, e fissiamo un appuntamento.

d: Come e perché ha scelto questa peculiare modalità di vendita di abiti “ambulante”?

r: Amo la natura e un giorno sono stata ispirata da un prato verde. E così ho visualizzato questo van e un allestimento vintage per vendere i capi. Tutto ciò si è tramutato nel mio furgone, attrezzato di tutto (c’è anche il camerino), che mi consente di girare, ma anche di farci entrare i clienti, di tutte le taglie. Nel mio furgone ci sono abiti più particolari, così come ci sono quelli più ordinari, per tutti i gusti insomma.

d: Quando va in giro… cos’è che la fa arrabbiare di questa Basilicata?

r: La mancanza di calore.

d: Noi Lucani, Meridionali, siamo freddi?

r: Voglio dire, tanto calore c’è, ma c’è anche il pregiudizio, troppo. Si punta troppo il dito senza conoscere. Prima bisogna ascoltare, poi giudicare.

d: Il motto del libro è “Alza la testa e cercalo tu il raggio di sole”. Sarebbe a dire: “Aiutati, che Dio t’aiuta”.

r: Sì. Io ne sono l’esempio lampante, perché mi sono creata un lavoro e sto andando avanti con le mie forze. Ho fatto un progetto col Microcredito e ho preso i fondi da Sviluppo Basilicata. Io parto da zero, e dico zero.

d: Ieri (mercoledì – ndr), c’è stato l’esordio in tv sella serie dedicata ad Elisa Claps. Che impressione le ha fatto?

r: Oggi per me è una giornata molto di triste, e –in vista della nostra intervista- ho dovuto fare uno sforzo per rientrare in me, perché mi immergo troppo nelle situazioni. Io ho fatto anche da comparsa nella scena del funerale e già lì per me è stato pesantissimo respirare quella situazione, una storia che abbiamo vissuto tutti sulla nostra pelle. Ho dunque sofferto molto vedendo la puntata, ma posso dire che era tutto perfetto: attori, regista, tutto.

d: La parte che l’ha colpita di più?

r: Il personaggio di Danilo Restivo. Mi vengono i brividi per come l’hanno raffigurato. L’attore era davvero calato nella parte.

d: L’ha visto con le sue figlie?

r: Sì, con quella di quindici anni. Le ho detto: «Sappi che mamma sarà sempre con te, non abbandonare mai la mia mano, qualsiasi cosa accada. Mamma è la persona che ti amerà più di tutti e quindi, qualsiasi cosa dovesse accadere, non nascondermi nulla, raccontami tutto. E non ti fidare di nessuno».

d: E invece la città di Potenza quale insegnamento deve trarre da questa storia?

r: Quello di cui parlavo prima: il giudizio, l’omertà. Stiamo scherzando? Questa storia ci ha fatto capire quanto siamo piccoli. Ne vogliamo parlare? Meglio di no, va.

d: Cosa c’è nel futuro di Grace?

r: Continuare con allegria nel portare avanti la mia attività. L’ho aperta da un anno e mezzo circa e ho conosciuto persone meravigliose; alcuni miei clienti sono diventati miei amici. Porto calore e colore (già vedere il mio furgone verde mette allegria), anche perché cerco di metterci cose divertenti (lo stand di biancheria con le magliette appese, ad esempio). A Potenza c’è un bar, in via del Seminario Maggiore, che mi accoglie ogni giorno (e che ringrazio col cuore) organizzando sempre eventi. A dicembre è venuto anche il Bibliomotocarro, e lì finalmente ci siamo incontrati!

 

 

 

 

 

684dffc6-f4c1-4d43-bde3-699136e42570.jpgdi Rosa Santarsiero

 

 

Si è tenuto ieri, presso la sala B del Consiglio regionale della Basilicata, un incontro di estremo rilievo sul tema della dipendenza affettiva.
La serata di sensibilizzazione “Io che non vivo senza te”, questo il nome scelto dagli organizzatori, è frutto degli sforzi congiunti dell'associazione “Famiglie fuori gioco” e della Consigliera regionale di parità effettiva, l'avvocata Ivana Enrica Pipponzi.
Durante l'incontro sono intervenute, infatti, oltre alla stessa Consigliera di parità della Regione Basilicata Pipponzi, anche le dottoresse Cecilia Caggianese e Roberta Santopietro, entrambe psicologhe presso l'associazione “Famiglie fuori gioco” e l'avvocata Rossana Mignoli, Consigliera regionale di parità vicaria.
Il tema della dipendenza affettiva oggi riveste un ruolo di primo piano nella società, poiché nonostante ai lati salubri e romantici può sfociare, talvolta, in vere e proprie condotte patologiche che si consumano all'interno delle mura domestiche. È anche e soprattutto questo il motivo che ha spinto gli organizzatori ad organizzare un tavolo tecnico congiunto su una tematica destinata ad assumere in futuro sfaccettature sempre più allarmanti.

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

“José Libertella – Vita, Passione e Tango” (2023, Abrazos): il libro scritto dal cultore ed esperto melfitano Nicola Corona, ritrae il musicista José Libertella in compagnia di molti vip: Anthony Quinn, Placido Domingo, la Principessa Diana, Eric Clapton (che volle a tutti i costi farsi un “selfie” con lui, anche se l’interessato non sapeva chi fosse!). Tuttavia, qui nella sua terra d’origine, (come al solito) nessuno sa chi è. Eppure, come sottotitola il libro (scritto a quattro mani col figlio del musicista, Mariano), Libertella, originario di Calvera (da cui emigrò piccolissimo), è nientemeno che “Il musicista lucano che ha salvato il Tango dall’oblio”.

Come già accaduto col francese Brassens (i cui nonni materni erano di Marsico Nuovo), è dunque grazie a uno scrittore che “scopriamo” i natali lucani di un altro grandissimo della musica mondiale. Fortunatamente, il supporto delle istituzioni locali (Comune di Calvera e Regione Basilicata), non si è fatto desiderare, e Nicola Corona ha potuto organizzare una serie di eventi qui in Basilicata (che si concluderanno questa sera al centro sociale di Malvaccaro a Potenza), dedicati al magnifico artista, in compagnia di alcuni importanti tangheri argentini, quali l’editore del volume, il ballerino (anch’egli di origine italiana) Daniel Canuti; la maestra e danzatrice Edith Paez, e non ultima la cantante Laura Colangelo, il cui cognome tradisce origini aviglianesi, non a caso protagonista di un’accoglienza particolarmente calorosa, tributatale dai compaesani del suo bisnonno Giuseppe.

Laura l’abbiamo incontrata, insieme agli altri protagonisti citati e al “maestro di cerimonie” Nicola Corona (che si è prestato anche come interprete), al ristorante “Mimì” nel centro storico di Potenza, ove non sono mancate anche esibizioni estemporanee (assai gradite dagli avventori) dei nostri prestigiosi ospiti.

d: Nicola Corona, davvero Libertella ha “salvato” il Tango? E come?

r: Riassumere in poche parole non è facile. Sabato e domenica scorsa abbiamo fatto due manifestazioni a Calvera in onore di Libertella, che a luglio avrebbe compiuto 90 anni (è morto a Parigi a 71 anni). Questo musicista è fondamentale, innanzitutto per aver fondato, nel 1973, il celebre “Sexteto Mayor”, che poi ha girato per il Mondo. Pensi che hanno suonato in 820 città diverse, di fatto “salvando” il Tango, che stava morendo.

d: E’ davvero strano sentire che questa musica, così iconica, famosa e presente dappertutto, a un certo punto stesse addirittura “morendo”.

r: Eh sì. Negli anni Sessanta e Settanta stava diventando come il Fado a Lisbona, o il Flamenco in Andalusia, cioè una cosa di nicchia, ascoltabile solo in quei posti. Mentre oggi il Tango lo trovi sotto casa.

d: Ma non è stato sempre così.

r: No, perché, dopo il grande successo degli anni Venti, Trenta e Quaranta, si era avviato a una fase di grande declino. La nuova musica, il Pop e il Rock, a partire dagli anni Sessanta, avevano soppiantato il Tango.

d: E in che modo Libertella lo riportò in auge?

r: Facendo degli spettacoli col celebre sestetto (“Tango argentino” e “Tango Pasión”, rispettivamente del 1983 e del 1992), dei musical tangheri, riunendo i migliori musicisti e i migliori ballerini. Partirono da Parigi, proprio laddove il Tango, negli anni Venti, aveva avuto la sua legittimazione: nato nei bassifondi, era infatti disprezzato dall’aristocrazia di Buenos Aires. Oggi, invece, in quella città, Libertella è oggetto di una vera e propria venerazione. E poi era una persona buona, altruista, che spronava molto i giovani musicisti.

d: Ciononostante, qui da noi Libertella è praticamente sconosciuto. Qual è stato il ruolo delle istituzioni locali in questa sua opera di “riscoperta”?

r: Con il Comune di Calvera e l’associazione culturale che io presiedo (Alma Latina), abbiamo presentato un progetto alla Regione Basilicata (attraverso l’ufficio che si occupa dei Lucani nel Mondo), il cui finanziamento ha reso possibile far venire alcuni personaggi di Buenos Aires qui in Italia. A nostra volta poi andremo in Argentina. Nel frattempo abbiamo scoperto un’altra cosa: il papà della qui presente Laura Colangelo, Josè Colangelo, è un grande pianista, e l’anno prossimo cercheremo di portare qui anche lui (e ne scriveremo insieme la biografia).

d: Veniamo dunque proprio a Laura Colangelo, celebrata cantante argentina, le cui origini sono aviglianesi.

r: Sì, il mio bisnonno era di Avigliano. A un certo punto, una volta trasferitosi in Argentina, conobbe la mia bisnonna e andarono a vivere nel quartiere Mataderos, un rione popolare di Buenos Aires. Di lavoro lui faceva l’operaio giornaliero.

d: A che punto il Tango è entrato nella vostra famiglia?

r: Mio nonno suonava il “bandoneon” (la particolare fisarmonica che suonava anche Libertella – ndr), ma non professionalmente, in quanto lavorava in una fabbrica della Dunlop. Fu così che mio padre, nato nel 1940, iniziò a suonare il piano, per accompagnarlo. In breve tempo, a diciassette anni, mio padre cominciò a suonare professionalmente nelle migliori orchestre, e a ventitré anni fu chiamato dall’orchestra di Leopoldo Federico, che accompagnava un grandissimo cantante, Julio Sosa, uruguaiano, detto “El Varón del Tango”, per la sua voce possente. Purtroppo costui, che aveva la passione per le auto e la velocità, morì in un incidente, e quando scomparve mio padre, addoloratissimo, fu chiamato da Anibal Troilo, la cui orchestra era forse la più amata di Buenos Aires. E ne divenne l’ultimo pianista.

d: Lei è dunque figlia d’arte.

r: Sì, ho iniziato da piccolina. Entrai nell’orchestra di mio padre. Feci quattro tournée in Giappone, e poi andai a vivere alcuni anni a Miami, ove mi sono avvicinata al Pop in spagnolo. Successivamente sono tornata, in pianta stabile, a Buenos Aires, e il mio nuovo disco si chiama “Tango Ancestral”, una specie di “ritorno alle origini”.

d: Questa è la sua prima volta in Italia. E ieri sera (mercoledì – ndr) ha ricevuto una targa ad Avigliano. Il paese era come se lo immaginava?

r: Non saprei, ero molto emozionata, e l’amore della gente mi ha davvero commossa. Il sindaco mi ha donato anche il certificato di nascita del mio bisnonno. Ad Avigliano sono stata accolta come una figlia.

d: Conosce la nostra musica tradizionale? La Tarantella...

r: Certamente, sì. L’ho ascoltata da piccola e l’ho anche ballata.

d: Ci può essere una qualche similitudine col Tango?

r: Più che col Tango, direi con la nostra danza folcloristica, perché la Tarantella è allegra, mentre il Tango è nostalgico.

d: Daniel Canuti, lei è editore del libro di Corona, ma è anche ballerino.

r: La casa editrice Abrazos è stata una conseguenza della mia storia di ballo in Germania. Quando ho capito che c’era tanta gente che praticava il Tango, ho deciso di iniziare a pubblicare biografie di artisti, inizialmente in Tedesco, ma poi anche in Italiano, Inglese, Francese e Spagnolo. In Italiano ho già pubblicato una decina di titoli sulla storia del Tango, ai quali si aggiunge questo bel libro propostomi da Nicola Corona. Ha fatto davvero un grande lavoro.

d: Anche lei è un argentino di origine italiana (suo padre era di Faenza), ma che impressione le ha fatto ritrovarsi a Calvera, paese nativo di uno dei più grandi artisti del Tango?

r: E’ stata una grande emozione, perché lì c’è anche la casa natale di Libertella. Noi più giovani proviamo un grande senso di gratitudine nei suoi confronti, perché è stato un ponte tra la tradizione e quel Tango più “moderno” che si sente in giro oggi. E dietro questo vero e proprio boom, suo e del Sexteto Mayor, ci siamo inseriti in tantissimi, dal punto di vista del ballo, della composizione, dell’interpretazione.

d: A lei Edith Paez, che è ballerina e maestra, chiedo di indicarci un film realmente rappresentativo, perché sa, qui in Italia, il primo che viene in mente è “Ultimo Tango a Parigi”, che non c’entra molto col ballo.

r: (sorride) Direi i film di Tita Merello (quelli originali e le versioni più moderne), un’altra grande italiana del Tango. Poi c’è “Tango” di Carlos Saura e “Lezioni di tango” di Sally Potter.

d: Nicola Corona, nella prefazione al suo libro, il presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi, afferma che «Pepe Libertella si affianca ad altri grandi lucani del Tango, da Rosita Melo, figlia di due emigrati di Rionero in Vulture (…), al ballerino Miguel Angel Zotto e al suo compianto fratello Osvaldo, di una famiglia emigrata da Campomaggiore, al musicista potentino Luis Mottolese, di cui si sa ben poco (…)». Come mai questo rapporto speciale della Basilicata col Tango?

r: Sì, è una vera e propria miniera. Perché il Tango non è solo ballo di tradimento e passione, è nostalgia, espressione di popoli sradicati. E non è un caso che la maggior parte degli artisti del Tango siano di origine italiana (guai, però, a chiamarli “Italiani”, perché loro si sentono, giustamente, “Argentini”), e molti sono del Meridione. Tenga conto, ad esempio, che agli inizi del Tango si suonava l’arpa, e c’erano i Viggianesi a farlo, ma tutti gli italiani venivano definiti “Tanos” (abbreviazione di “Napolitanos”). Melo e Zotta sono già conosciuti, ora dobbiamo indagare su questo Mottolese, ma c’è anche un’altra cantante, uruguagia, che si chiama Ana Karina Rossi ed è originaria di Rotonda. C’è dunque ancora tanto da scavare.

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di Walter De Stradis

 

 

 

Giuliano Brancati, film-maker potentino, aveva solo tredici anni quando Elisa Claps scomparve (barbaramente uccisa), e ne aveva trenta quando iniziò a mettere mano al docufilm di cui è regista e che oggi torna in distribuzione in una versione riveduta: “Cruciverbaschemalibero – Elisa Claps segreto di Stato”. Ma la sua acuta sensibilità aveva iniziato a lavorarci da molti anni prima, da dietro la finestra di casa sua, a Montereale.

«Dal 17 ottobre alle 21 sul sito elisaclapssegretodistato.it si potrà accedere, registrandosi, alla visione del docufilm (più alcuni extra non rientrati nel montaggio finale). E' un progetto Hara produzioni, distribuito da Sofra Multimedia con le musiche originali di un artista lucano, Enrico Condelli. Faremo anche delle proiezioni in qualche sala, e stiamo attendendo risposte da parte di qualche casa di distribuzione, valutando anche l’eventualità di una sottotitolazione in inglese. Ci sono inoltre la pagina Facebook ed Instagram per poter seguire lo sviluppo della comunicazione del progetto, di cui il docufilm è un primo step.»

d: E’ giusto dire che il suo docufilm sul caso Claps, uscito già alcuni or sono (nel 2016), oggi torna in una versione “riveduta e corretta”?

r: In un certo senso sì. Però preferirei parlare di “Elisa Claps”, più che del “caso Claps”. Per troppo tempo, a torto o a ragione, è statosolo un “caso”. In realtà io ho cominciato ad occuparmi, anzi, ad affezionarmi a questa vicenda, perché conoscevo bene la famiglia e, di vista, Elisa. Abitavo a ridosso del tabaccaio di famiglia, ove lavorava Antonio, il padre.

d: Il suo documentario, che è un’indagine di taglio giornalistico, si propone di essere comunque diverso da ciò che si era visto fino a quel momento. A lei interessa insomma la dimensione sociale, i cambiamenti che “Elisa Claps” (visto che non vuole parlare di “caso”) ha indotto nella comunità potentina.

r: Sì, e non solo quella potentina, credo. Io ho raccolto una serie d’interviste fatte dal 2010 al 2012. L’ultima fu quella con Gildo Claps (la benedizione sua e della famiglia è stata fondamentale per la realizzazione del documentario). Uscimmo col film una prima volta nel 2016; era in un cinema di Potenza e la sala era piena. La cosa mi fece piacere perché era una reazione emotiva, molto forte. Proprio quel clamore, che ci fu i primi anni dopo il ritrovamento delle spoglie di Elisa, mi diede la carica per fare qualcosa di diverso. Io ero infatti disturbato dalla bulimia mediatica, e come me tante altre persone, anche se mi rendo conto che era necessaria una sovraesposizione sulla vicenda, perché per troppo tempo molte cose si erano taciute. Tuttavia, vedevo questo affollarsi di cameramen che inseguivano Gildo, e alcuni cercavano anche di intervistare il padre Antonio, senza che fossero nemmeno giornalisti. Mi ricordo di un articolo di un quotidiano locale. che parlava di bambini di quinta elementare che in classe tagliavano le ciocche di capelli. La memoria e le coscienza di molte persone erano, insomma, usurate. E io allora ho cercato di fare proprio questo, riprendere con la telecamera l’emotività della città, anche se nel documentario ci sono comunque interviste necessarie e strutturali alla definizione del caso, per chi magari non è di Potenza.

d: Quindi lei è andato in giro a intervistare soprattutto gente comune...

r: Sì, ma ci sono anche delle interviste “cardine”: il preside del liceo che frequentava Elisa, l’allora referente provinciale di Libera, Rosario Gigliotti, Paride Leporace, all’epoca direttore de Il Quotidiano, ed altri “attori”. Io li chiamo così e ciò spiega anche il perché del termine “docu-FILM”: la vicenda sembrava scritta da una regia, piena di colpi di scena.

d: E’ c’è stata, una “regia”, secondo lei?

r: Mmm, diciamo che la “regia” è relativa anche a come si guarda il film. In un primo momento c’è stata una “regia”, la cui sceneggiatura era la disattenzione; poi la successiva “regia” può essere stata l’interesse a coprire; ma è lo spettatore che deve dare delle rispose.

d: Quindi in questo lavoro lei non sposa una linea “teorica” rispetto a un’altra. Chi guarda deve darsi più risposte o porsi più domande?

r: Ha centrato il punto. Il docufilm lo feci vedere all’ex direttore della cineteca di Bologna, che mi disse: «Guarda, come opera prima, è fatta bene, tuttavia ti limiti a gettare un sasso nello stagno, senza seguire alcuna linea concentrica». E io gli risposi che quello era proprio l’andamento della vicenda: tanti sassi nello stagno, tante caselle bianche, alle quali non si è potuto dare una risposta. Io ho le mie, di risposte -e posso dare anche qualche suggestione- ma è lo spettatore a dover riempire il cruciverba. Ci sono delle verità giudiziarie e ci sono delle verità storiche. Se ci sono state delle coperture su Danilo Restivo (e io personalmente credo, in virtù di alcuni dettagli, che ci siano state) nessuno lo può dire. Pertanto è un cruciverba che rimane a schema libero.

d: In quegli anni, subito dopo il ritrovamento nel Sottotetto, lei ha tastato il polso della città: che immagine ne viene fuori? Come sa, alcuni dei vari “attori” hanno spesso parlato di “città omertosa”.

r: In quei mesi, e per almeno un paio d’anni, Potenza era una bomba a orologeria di emotività. C’era quella dei giovani, che mi ha trainato, la manifestazione che ci fu tre giorni dopo il ritrovamento delle spoglie di Elisa; si parlava di più di diecimila persone e io mi commuovevo con la telecamera, avevo pudore a non riprendere i familiari. Stavo tra la folla, mi prendeva da dentro e cercavo però di essere a margine, perché volevo vedere quell’emotività. E i giovani mi hanno trascinato, perché...se questa storia non la vediamo alla luce del risveglio della coscienza collettiva e civile, non ha una vero significato. Le persone omertose ci sono, come in ogni città, ma io a Potenza ho visto delle persone libere, vere, anche quando chiedevano di togliere quei fiori davanti alla chiesa della Trinità. Io spesso ero lì nei pressi ed ero felice se il “curatore fallimentare” del “giardino di Elisa”, ovvero quel signore che si occupava delle piantine, le innaffiava. Ciò faceva sì che i giornalisti, anche da fuori, venissero e riprendessero, senza che l’attenzione calasse. Il fiore, il seme, la coscienza civile, è fondamentale in questa storia. Anzi, posso raccontarle un aneddoto?

d: Certo.

r: E’ un “aneddoto”, che però proviene dalla scientifica, e che si sposa con ciò che sentivo. Come dicevo, Elisa e il risveglio della società civile per me erano un seme di verità. Lo stesso Don Cozzi dal palco della manifestazione (il 20 marzo) aveva detto “Primavera vuol dire verità e giustizia”. Nel sottotetto della Trinità fu trovato un reperto interessante, me lo ricordava il giornalista Fabio Amendolara qualche giorno fa. Si tratta di semi di “acero” che hanno una specie di “codina” che permette loro di volare, una foglia dunque. Questi reperti, la cui analisi fu affidata a un botanico, si trovavano in grembo ad Elisa. Il che lascia ritenere che il primo vero ritrovamento del corpo sia avvenuto nel 2008, in quanto quei reperti (risalenti al 2008, appunto) sarebbero passati tramite quella fessura praticata da qualcuno nel sottotetto per far defluire i miasmi della decomposizione. Quei semi della natura, nel mio immaginario, sono i semi della verità di questa vicenda.

d: Torniamo alle origini, ovvero al giorno in cui le venne l’idea del docufilm.

r: Sì. Ricordo le passeggiate di Antonio Claps sotto il mio balcone: dal giorno dopo la scomparsa della figlia, cominciò a camminare, avanti e indietro, dalla sua tabaccheria al mio palazzo (erano quindici metri), per tutto il giorno, fumando. Una scena che mi faceva soffrire molto, perché pensavo: «quest’uomo “cerca” la figlia in pochi metri quadrati». E per tanti anni l’avrà “cercata” anche nella Settimana Enigmistica, anche da qui il titolo del docufilm, che è dedicato a lui, in particolare. E’ infatti un “personaggio” che mi è rimasto nel cuore, col suo silenzio. Per anni sono entrato in quella tabaccheria (per i quaderni da piccolo, e le sigarette da più grande), e lui faceva sempre un cruciverba. Alzava lo sguardo, ti serviva, e poi ci tornava su. E questo per me era una schiaffo, il non dare risposte a quel silenzio. Pensi che una volta mio padre gli chiese, in mia presenza, se ci fossero novità sulla sparizione di Elisa, e lui lo guardò dritto negli occhi e rispose: «Avvocato Brancati, se vogliamo andare d’accordo, non mi chieda mai più di mia figlia». Io provai vergogna.

d: Il dolore era troppo forte.

r: Sì, il dolore era forte, ma lui, col suo silenzio, probabilmente voleva gridare la rabbia e l’indignazione.

d: Lei ha postato anche una foto molto bella sui social: ritrae il signor Antonio, di spalle, sul ponte di Montereale, nell’ultimo giorno di apertura del suo negozio.

r: Sì. Quel giorno, sapendo che era stato il suo ultimo come tabaccaio, accelerai il passo, perché volevo salutarlo lì, nel tabacchino, ma lo trovai già sul ponte. E mi permisi di scattare quella foto, perché per me raccontava, in maniera delicata e non invasiva, il silenzio che lui portava con sé.

d: In questo “cruciverba a schema libero”, quali sono le “caselle nere” sulle quali non si può e non si potrà mai scrivere nulla?

r: E’ una domanda che mi viene voglia di rigirarla, io, agli “attori”, visibili e invisibili, di questa storia. Le caselle nere in un cruciverba sono i confini entro cui potersi muovere, ma sono le caselle bianche a dover essere scritte. Quelle caselle bianche possono essere dunque riempite. Magari non apparterranno a una verità giudiziaria, ma a un altro tipo. Io rimango in ascolto, e resto curioso di ciò che accadrà a livello emotivo, dopo la fiction Rai che uscirà a breve e dopo il podcast di Sky TG24. Quest’ultimo, attraverso il lavoro di Pablo Trincia, mi ha “rispolverato” quella coscienza che avevo dieci anni fa. Ha ridato voce a questa storia, non facendo vedere, ma facendo immaginare, che forse è anche più importante.

 

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I prodotti dell’agroalimentare lucano hanno intercettato nuovi spazi di mercato anche in Danimarca, grazie a una serie di incontri mirati con aziende del posto, organizzati nell’ambito della terza fase di Lucanica 2.0, il progetto promosso da TotalEnergies EP Italia con i partners della JV Tempa Rossa, Shell Italia E&P e Mitsui E&P Italia B, in collaborazione con la società di consulenza Octagona.
Dopo le missioni in Belgio e in Olanda degli scorsi mesi, il gruppo di imprenditori aderenti al programma di internazionalizzazione, produttori di olio, pasta, vino e altri simboli della gastronomia made in Basilicata, ha partecipato il 9 e 10 ottobre, ad una due giorni di incontri a Copenhagen con aziende con un interesse a intraprendere rapporti commerciali.
Valorizzando l’esperienza delle precedenti missioni, in cui le imprese partecipavano a eventi organizzati fra Pmi lucane e operatori del settore per favorire l’acquisizione in loco di nuovi contatti, in Danimarca si è ulteriormente migliorata l’efficacia degli scambi, calendarizzando gli incontri specifici e individuali tra le aziende lucane e quelle danesi e svedesi sulla base di un reciproco interesse alla collaborazione, già verificato prima della missione.
Il 9 ottobre, nell’ambito del Progetto Lucanica 2.0, è stato organizzato l’evento “Lucanian agrofood specialties” durante il quale le imprese lucane aderenti al progetto hanno incontrato importatori e buyers locali in diversi incontri B2B; all’evento ha partecipato anche Luca Cavinato, vicesegretario Generale della Camera di commercio italiana in Danimarca con una presentazione sul settore Food & Beverage danese.
Nel pomeriggio è iniziato il tour fra le aziende locali, con le visite a Husted Vin, una delle più importanti enoteche di Copenhagen e a Supermarco, grande rivendita di prodotti dell’agroalimentare italiano in Danimarca, conosciuto come “Il Tempio del cibo italiano”. Il giorno successivo, tappe al mercato alimentare di TorvehallerneKBH, all’enoteca di vini italiani Dante Vine, al punto vendita di prodotti e vini di tutta Europa, Loegimosevin, Mad & Delikaytesser e al centro commerciale Foetex.
Gli incontri con le aziende danesi sono stati preceduti da un meticoloso lavoro per l’individuazione e la selezione dei potenziali partner commerciali, mirato a favorire l’incontro fra le imprese lucane e quelle danesi.

“La Danimarca - afferma il vicesegretario generale della Camera di Commercio Italiana a Copenaghen, Luca Cavinato - è un Paese interessante per le aziende che vogliono posizionarsi sul mercato estero, perché rappresenta un ponte per la Scandinavia e il Nord Europa, con 20 milioni di abitanti e una grandissima capacità di spesa. In Danimarca troviamo tra i migliori ristoranti al mondo e moltissimi sono italiani. Processi amministrativi agevoli e l’assenza di dazi - prosegue - facilitano l’importazione e la vendita. Suggerisco per il futuro anche eventi di incoming in Basilicata”.

Secondo Paolo Dorati, importatore italiano e titolare di Dorati Catering e Pasta Lab insieme al socio Danilo Rustaggia “in Danimarca negli ultimi anni si registra un’evoluzione nei segmenti alimentare e vinicolo, grazie anche ai molti italiani che stanno aprendo qui ristoranti. Per questo trovo efficaci gli eventi B2B che favoriscono l’incontro tra aziende”.

John Viuf della società danese Gourmeture importa prodotti italiani da tredici diverse aziende di regioni come Lombardia, Lazio, Marche e Calabria, ed ora è pronto ad aprirsi anche alle imprese lucane: “Sono sempre alla ricerca di nuovi prodotti italiani ed è molto utile - spiega - incontrare le aziende qui a Copenaghen. Ho contatti di vendita con 350 negozi locali e penso che ci saranno opportunità interessanti per i prodotti lucani, soprattutto per i salumi e la pasta”.

Alvaro Eusepi e Paolo Grasso sono importatori italiani in Svezia delle società Italianissimo e Horex. “I salumi e i prodotti da forno - afferma Eusepi - sono particolarmente interessanti e potrebbero avere una buona collocazione nel mercato svedese”. “L’evento Lucanica 2.0 - evidenzia Grasso - è stato interessante anche per il mercato svedese, visto che Copenaghen è collegata e facilmente raggiungibile da Malmö”.

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

Presidente dell’impresa sociale “Le Rose di Atacama” (operante in ambito accoglienza migranti), anche in virtù del nome “garibaldino”, Anita Enrica Sassano si definisce “una combattente”. Il suo obiettivo, in quest’anno di presidenza del Rotary Club “Torre Guevara” di Potenza (la nomina è avvenuta a luglio scorso), è anche e soprattutto quello di dar vita a cose nuove, dando un taglio più “sociale” al suo mandato: «Nel mio lavoro mi occupo proprio di questo, ma essendo anche la seconda donna a guidare questo Club, la mia sarà anche un’impronta al femminile. Ci occuperemo quindi di violenza sulle donne e della tratta delle immigrate, anche in ambito nazionale».

d: Perchè, secondo lei com’è stato il Rotary finora?

r: No, sempre e comunque interessante. Tenga conto anche che io sono una “new entry”, e nel giro di un paio d’anni sono diventata presidente. Essendo comunque il Rotary formato da tanti professionisti, si era fatto molto nell’ambito delle professioni per così dire “standard”, ma oggi ci apriremo a tutto un nuovo mondo (sociale, nuove professioni), confidando anche di aumentare le adesioni al femminile, bilanciando una percentuale che è ancora bassa rispetto a quella maschile.

d: Lei è presidente dell’impresa sociale “Le rose di Atacama”, che si occupa proprio di accoglienza ai migranti. Tra l’altro siamo alla vigilia di un evento importante, in quanto la Città di Potenza si appresta ad accogliere altri cinquanta profughi di guerra. In settimana c’è stato anche uno scritto polemico (sul Quotidiano del Sud del 04/10) di Pietro Simonetti (ex membro del Tavolo sul caporalato), il quale, nel commentare un’indagine avventa nel Metapontino (proprio a proposito di sfruttamento), chiedeva conto dei progetti finanziati con il Pon Legalità nel 2018, e di cui, a suo dire, anche a livello nazionale, non si conoscono rendiconti e spese effettuate.

r: Posso parlare per me: il Pon Legalità noi lo abbiamo gestito e abbiamo fatto regolarmente la rendicontazione con la Regione Basilicata. Ci siamo aggiudicati una regolare gara e abbiamo gestito a Palazzo San Gervasio e nel Metapontino. Il rendiconto l’ho fatto io personalmente -pertanto questa cosa mi lascia un po’ perplessa- e inoltre so come lavorano altri colleghi. Mi sembrerebbe strano, inoltre, se la Regione non avesse completato la rendicontazione: probabilmente, non è stato ultimato tutto ciò che è “complementare” alla rendicontazione (monitoraggio e altre azioni), ma di sicuro i soldi sono stati utilizzati. Questo è certo.

d: In Basilicata c’è u­n problema più radicato per quanto attiene al caporalato?

r: Il problema ci sarà sicuramente e ne abbiamo avuto sentore quando abbiamo gestito nel Metapontino, proprio in ambito Pon Legalità. Noi tuttavia il fenomeno lo arginavamo, in quanto portavamo noi stessi i ragazzi al lavoro; pertanto, si può dire che quando c’è in atto un progetto, un controllo c’è, ma quando poi quel progetto finisce, i ragazzi che rimangono, probabilmente, saranno oggetto del problema caporalato. Dico “probabilmente”, perchè non abbiamo una contezza e si capisce bene pure che chi lavora in quel settore non può mettere a rischio la sicurezza dei propri operatori per appurare se vi siano i caporali o meno. Queste cose si fanno con le forze dell’ordine.

d: Il volto del Capoluogo sta cambiando in virtù delle diverse etnie che ormai vivono a Potenza. Ma la città, a sua modo di vedere, è pronta e attrezzata per questa convivenza?

r: Più che pronta. Noi stessi -e la gente magari queste cose le ignora- accogliamo venticinque minori non accompagnati in via del Gallitello, che ormai è una zona centrale, ma nessuno se n’è mai lamentato, anzi, posso dire che non se ne sono nemmeno accorti. Cerchiamo di fare integrazione: io ho ragazzi che fanno tirocini di inserimento lavorativo, e quando si aprirà il centro per la formazione degli adulti andranno a scuola. Al di là dunque di problemi specifici, magari attinenti ad altri ambiti, credo ci sia una buona integrazione, certo, si può fare di più, ma la città è abbastanza attrezzata (altrimenti il Comune non avrebbe aderito a un progetto per accogliere altre cinquanta persone).

d: E i Potentini sono davvero “accoglienti”, come si sente dire spesso?

r: Parlando di minori stranieri, si deve lavorare ancora sull’idea dell’affido (col Garante dell’Infanzia avevamo proposto al Consiglio regionale una legge sull’affiancamento con le famiglie dei minori stranieri non accompagnati). Bisogna dare inoltre supporto alle scuole in ambito di mediazione linguistica, poiché la tipologia di migrante è anche cambiata: oggi stanno arrivando anche Turchi, che non parlano Inglese o Francese.

d: In un articolo che uscirà sul nostro giornale (lo trovate a pagina 9 – ndr), l’opinionista Mimmo Guaragna invita a regalare una bicicletta agli immigrati che risiedono in una struttura vicino Potenza, onde consentire loro di raggiungere il capoluogo, per avere relazioni e magari cercare un lavoro. L’integrazione può nascere da queste piccole cose?

r: (scuote la testa).

d: Non è d’accordo?

r: Mmm, non nello strumento, perché prima di dare una bicicletta a un ragazzo bisogna istruirlo, in quanto il mezzo richiede un’educazione stradale specifica; ci vogliono inoltre dispositivi di sicurezza, come il casco etc. E poi, il lavoro? Quale? Dove? L’aiuto concreto, in questa fase, è dar loro un minimo sostegno economico utile a prendere un treno, un autobus, per raggiungere il posto di lavoro, magari, ma non per venire a farsi una passeggiata in via Pretoria.

d: Però anche quello aiuta.

r: Sì, ma guardi, noi abbiamo una comunità di ragazzi in provincia, e diamo loro il permesso e un biglietto per venire a Potenza una volta a settimana (perché è giusto svagarsi il sabato sera); ma chi lo fa senza autorizzazione, viene rimproverato, perché in settimana bisogna fare le attività nelle strutture: corsi d’Italiano, formazione professionale, anche uscire a fare la spesa, imparando come si spendono i soldi.

d: Un altro nostro opinionista, l’onorevole Nicola Savino, sostiene che i giovani immigrati possono essere una risorsa per salvare i nostri borghi che stanno morendo...

r: (Scuote di nuovo la testa)

d: Neanche questo?

r: Ma perchè io nel settore ci lavoro dal 2013 e l’ho visto in tutti gli aspetti! Certo, gli immigrati possono essere una risorsa, ma bisogna dar loro gli strumenti per poter vivere nei borghi, a cominciare dal lavoro.

d: Non a caso Savino parla di insegnare loro le vecchie “arti e mestieri”...

r:...bisogna tornare alle vecchie scuole professionali, fare i corsi di formazione. Certo, così i borghi si possono rimpinguare...

d:...lei dice “bisogna prima fare questo e quello”, perchè, non si sta facendo?

r: No! Io lo faccio, per questo lo dico. Infatti proprio poco fa ho chiuso una telefonata a proposito di un corso di informatica da avviare. Abbiamo inserito un ragazzo che, tramite un corso con l’Enel, è stato poi assunto. Insomma, si può fare tutto, ma va fatta una progettazione integrata. Non si tratta solo di “accoglienza”; oggi abbiamo terminato un progetto in Africa, facendo formazione sull’edilizia; faremo venire dei ragazzi per inserirli nelle imprese edili. Così si lavora.

d: Però, da come parla e da come si accalora, percepisco che c’è qualcosa che la fa arrabbiare.

r: Tutti parlano di “immigrazione”, ma io mi posso permettere di farlo; io, con tutti i miei collaboratori, abbiamo visto i primi Africani arrivare, nel nostro centro di accoglienza; era il 2013 e da allora abbiamo visto di tutto, di più. Mi fa arrabbiare il fatto che molti parlano, ma non sanno cos’è l’integrazione, e a volte sparano a zero sui nostri ragazzi e non sanno cosa vivono nei loro paesi. Io in Africa ci sono stata, e so il significato delle parole “emigrazione economica”: lì la vita spesso ha un valore pari a zero. Ho visto la povertà e pertanto giustifico anche chi viene da noi per mera questione economica. Hanno BISOGNO di venire in Italia per trovarsi un lavoro e vivere dignitosamente. E noi dobbiamo accogliere. E’ chiaro, che nei gruppi che arrivano ci sono anche persone che una volta qui sono versate nel malaffare (come ce ne sono già anche fra noi), ma credo che vada data una possibilità effettiva, perché c’è gente che vive davvero male.

d: Fra le tante, c’è stata una storia che l’ha segnata in modo particolare?

r: Un’esperienza molto toccante è stata l’accogliere una ragazza che, a seguito di una violenza, era rimasta incinta. Le abbiamo offerto supporto psicologico in virtù del quale alla fine ha deciso di tenerlo, il bambino, che è poi nato nel centro di accoglienza. Di questo sto parlando: di dare una possibilità. Quella ragazza oggi lavora a Potenza ed è integrata. Ragazzi che ho preso a quattordici anni, oggi ne hanno più di venti e sono rimasti a Marsico, benvoluti dalla comunità.

d: A proposito di violenza sulle donne, che nei casi più gravi sfocia nel femminicidio, siamo nel pieno del trentennale della morte di Elisa Claps, con polemiche (apertura della Trinità) e dibattiti annessi...

r: Certo, quello è il caso più noto, ma posso dirle che a Potenza ci sono tantissimi casi di violenza domestica (anche se per fortuna non si concludono con l’omicidio). So che Telefono Donna riceve telefonate di continuo. Il più delle volte si tratta di violenza psicologica, il che rende necessario attivare al Comune un punto d’ascolto con psicologo e assistente sociale.

d: A che si deve, a suo avviso, l’aumento di questi fenomeni?

r: A parte quella tipologia di donne già per carattere disposte alla sottomissione, credo che il maschio stia cambiando. E’ più insicuro. Ciò è dovuto al miglioramento della collocazione sociale e lavorativa della donna, che ha acquisito più potere e più autorevolezza. E aggiungo che al Rotary è arrivato il momento di un governatore donna...

d: Una definizione, di una parola sola, per la Meloni, prima premier donna.

r: "Studia".

d: E' un invito?

r: No, voglio dire che è una che studia. Almeno questo. E' molto studiata, anche nella gestualità, rispetto a quello che era il suo ruolo precedente.

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

“Lavoradio” è il nome del programma radiofonico (oggi podcast digitale), col quale il giornalista e orientatore potentino Vito Verrastro ha per anni fornito (e fornisce tuttora) notizie sul mondo dell’occupazione a quanti –ed è un dettaglio fondamentale- sono dotati di “orecchie per ascoltare”.

d: Lei, unico lucano, di recente è stato nominato “Digital EU Ambassador”. Un incarico maturato in ambito di Commissione europea (tramite la DgCnect di Bruxelles). Di che si tratta?

r: Diciamo cosi, siamo delle “antenne” territoriali -in tutto una quindicina in Italia- ciascuna con la voglia e la capacità di trasferire alle comunità (locali e interregionali) ciò che accade a Bruxelles, sul piano della tecnologia e dell’innovazione digitale (incluso l’attuale, grande dibattito sull’Intelligenza Artificiale). Siamo tutti volontari, ma si tratta di un incarico prestigioso che è conferito a chi ha già un proprio seguito sul territorio.

d: Entriamo subito nel vivo, a proposito di lavoro e di digitalizzazione. La Pandemia ci ha dimostrato, tramite la modalità dello smart working, che alcuni tipi di impieghi e professioni è possibile e conveniente svolgerli a casa...

r: Lo “smart” o “remote working” ci ha fatto capire che alcune rigidità (di spazi, di tempi, di modalità) potevano essere abbattute. Questa cosa si concretizza in un’enorme opportunità, c’è infatti un movimento crescente, in tutto il mondo, di “nomadi digitali”; di persone cioè che hanno a disposizione la Rete e che determinate tipologie di lavoro possono svolgerle da qualunque posto. La libertà è enorme: possono lavorare da remoto, ma anche di notte, la mattina presto, in base cioè alle caratteristiche di ognuno. In questa modalità si lavora infatti per obiettivi, e non a compartimenti stagni, come accadeva prima e come accade ancora adesso per molti impieghi. E’ chiaro, l’operaio in fabbrica ha ancora dei turni di lavoro, ma anche quello oggi è un “operaio 4.0”, in quanto deve dialogare con la macchina. Il lavoro infatti è sempre più automatizzato: meccanici ed elettrauto stanno diventando “meccatronici”. La tecnologia oggi è assai pervasiva, entrando nel 93/94% dei nostri impieghi.

d: Nella Basilicata della “fuga dei cervelli”, il nomadismo digitale è un possibile argine al fenomeno?

r: Sappiamo che in Italia -e non solo- le aziende sono alla caccia di talenti, ma spesso hanno difficoltà a trovarli (ed è un paradosso), pertanto stanno allargando il loro raggio d’azione, cercandoli ovunque. Ciò significa che io-Lucano, con le competenze giuste, posso lavorare per aziende di Milano, Torino o New York. Tutto questo fino a dieci anni fa era impensabile.

d: In Basilicata si sta approfittando di questa possibilità?

r: Beh, c’è tutto un cambiamento culturale da mettere in atto, che non è veloce come quello tecnologico. Se però Scuola e Università continuano a dirci che le dinamiche sono quelle di vent’anni fa, è difficile che si cambi registro.

d: Ma tecnologicamente, almeno, siamo al passo con le altre regioni?

r: Nelle aree in cui c’è la banda larga, ritengo di sì, assolutamente. Se io voglio, oggi, posso formarmi qui da Potenza, accedendo ai corsi gratuiti della Harvard University. Se poi voglio quella certificazione, mi costa in tutto 50/60 dollari, nulla di proibitivo. Certo, è in Inglese, e proprio per questo ci vogliono le competenze per recepire quel messaggio.

d: Volendo dunque, un Lucano potrebbe tranquillamente lavorare a distanza per un’industria americana. Alla luce di tutto ciò, come leggere quelle polemiche –anche recenti- sui professionisti “non lucani” che occupano posizioni lavorative di rilievo nella nostra regione, tanto nel pubblico quanto nel privato?

r: Per me la territorialità conta pochissimo, la sfida vera si gioca sulle competenze. Oggi, se sei competente, a prescindere dalla tua provenienza, hai uno sbocco lavorativo maggiore, rispetto a qualche anno fa quando, sì, la territorialità contava di più.

d: Diceva che c’è difficoltà a trovare talenti. Cosa vuol dire?

r: I cambiamenti sono veloci; la sfida si è spostata dal piano dell’occupazione a quello dell’“occupabilità”. E’ un concetto, quest’ultimo, che in Italia non sta passando. A sentire anche i dibattiti recenti, in Italia l’“occupabilità” sembra meramente coincidere con “l’età da lavoro”, mentre è qualcosa di molto più complesso. Si tratta della capacità di lavorare su se stessi, profondamente e continuamente, onde acquisire competenze e rimanere appetibili per un mercato del lavoro che cambia in fretta. Faccio un esempio: mio figlio ha studiato per diventare sviluppatore web; ha fatto un percorso di sei mesi di full immersion, e nove di tirocinio, ma oggi buona parte della sua competenza è fatta di Intelligenza Artificiale! Questo per dire che i lavori cambiano in fetta e se non si acquisiscono competenze, pur se collocati temporaneamente nel mercato, a un certo punto si rischia di rimanere fuori.

d: La parola d’ordine, mi pare di capire, è sempre e comunque “aggiornamento”. E vale per tutti.

r: La linea della formazione, nel secolo scorso, partiva dalla scuola dell’obbligo, arrivava all’università e si fermava lì. Oggi, invece, parte dal primo giorno d’asilo e si chiude dopo la pensione. Ci sono infatti tanti pensionati che continuano a lavorare e ad aggiornarsi. A parte il discorso delle pensioni che sono troppo basse, queste persone hanno capito che il processo formativo deve continuare e dev’essere una specie di compagno di vita. Questo vale per tutte le professioni, operai compresi, tranne, probabilmente, i dipendenti pubblici, che sono iper-garantiti (occupando un posto di lavoro che difficilmente verrà loro tolto).

d: Quindi il dipendente pubblico non si aggiornerà…

r: …a meno che non sia costretto, ma a mio avviso l’iper-garantismo non arriverà a questo. Tutti gli altri sono invece su un tapis roulant acceso a velocità media. Se non ti aggiorni, il tapis roulant ti porta addirittura indietro.

d: Vorrei commentare con lei gli ultimi dati Istat, freschi freschi, del censimento permanente della Basilicata. L’anno di riferimento è il 2021. «La popolazione legale, al 31 dicembre 2021 ammonta a 541.168 residenti, in calo dello 0,7% rispetto al 2020 (-3.962 individui) e del 6,4% rispetto al 2011». Il problema principale è l’assenza di lavoro?

r: E’ anche interessante leggere i dati sul mercato del lavoro lucano, presenti nel bollettino mensile Excelsior, realizzato dalle Camere di commercio, mediante delle domande rivolte alle imprese (“di quali e quante professionalità avete bisogno”?). Leggendo scopriamo che il nostro è un mercato piccolo, di numeri, ed è povero, nel senso che solo 2/3 laureati su 10 vengono assorbiti nel mercato locale. Il 50% circa del mercato chiede infatti operai specializzati. Il nostro è un mercato nel quale al 70/80% i contratti sono a tempo determinato. E quindi è naturalissimo cercare sbocchi all’esterno. Tuttavia, pur essendo un fattore innegabile, l’invecchiamento può tramutarsi in un vantaggio. L’invecchiamento progressivo, infatti, apre a una serie di professioni che stanno sotto il cappello della “silver economy” (l’“economia d’argento”), che tuttavia non è stata ancora percepita come un vantaggio.

d: Mi faccia un esempio pratico.

r: Ci sono i classici servizi di cura della persona (badanti, infermiere etc.), ma c’è tutta un’area di persone di 60/70 anni che vogliono rimanere attive e al passo coi tempi: per un giovane “smart”, che ha voglia di fare, quella è una potenziale platea sterminata di persone da alfabetizzare, poiché non vogliono essere tagliate fuori dai processi digitali.

d: Altro dato Istat: «Diminuiscono, rispetto al 2011, le persone in cerca di occupazione (-39,9%), in particolare per la componente maschile (circa 8mila unità in meno, pari a -40,3%), e gli occupati (533 persone in meno), ma solo fra gli uomini (-1,9%)».

r: Questi dati, innegabili, certificano che intanto qualcosa si è inceppato nel rapporto persona-lavoro; ma i report di importanti aziende internazionali ci dicono che solo il 5% delle persone nel mondo si sente coinvolta nel proprio lavoro. Ciò implica che molti degli occupati di tre/quattro anni fa se ne sono andati, e ora si stanno riposizionando (magari anche in proprio), ripensando al proprio ruolo, alla ricerca di un nuovo lavoro che per loro abbia maggiore senso. Questo tipo di domande, circa le gratificazioni offerte dal nostro lavoro, abbiamo cominciato a farcele dopo il Covid.

d: Non siamo lontani dalle elezioni regionali: in tema di lavoro e di innovazione, quale dovrebbe essere la prima pratica sul tavolo degli aspiranti governatori?

r: L’orientamento. Ne manca completamente la cultura, e non solo in Basilicata. E ciò implica innanzitutto una migliore conoscenza di sè, dei propri valori e delle proprie aspettative, onde reagire fattivamente ai veloci cambiamenti di un mercato sempre più frastagliato. Se mancherà la cultura dell’orientamento, sarà facile andare in crisi di fronte alle prime difficoltà.

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