di Walter De Stradis

 

 

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(foto LUIGI CECERE)

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La splendida e accorsata manifestazione “Il Borgo”, che annualmente si tiene nel cuore di Accettura (Mt), quest’anno (il 31 ottobre scorso) si è conclusa col concerto del “re della pizzica” Antonio Castrignanò. Il noto musicista di Calimera, Lecce (che di frequente ha partecipato agli eventi del comune lucano, particolarmente attivo in tema di tradizioni), è un esponente di un genere che si potrebbe definire “taranta-world”, in cui i ritmi indiavolati della musica d’identità salentina si mischiano con tutti quegli altri, nel mondo, che parlano “la stessa lingua”. Quella dell’Uomo.

d: A guardarla lei è ancora giovane, ma a leggere il suo “curriculum”, ha già avuto una carriera impressionate. Ci spiega l’arcano?

r: (sorride) Il mistero si spiega con un’età che maschero bene. Ho quarantasei anni, in realtà, ma ho cominciato abbastanza giovane -nei primi anni Novanta- a percorrere le vie della musica “di riproposta”, al fianco di un grande personaggio e noto ricercatore, scomparso da poco, Luigi Chiriatti.

d: Lui era stato uno dei protagonisti delle cosiddette “indagini sul campo”.

r: Sì, aveva iniziato negli anni Settanta, a sua volta guidato da un’altra mente folle, Rina Durante. E così, lui che aveva già questo legame forte con i “cantori”, mi ha aperto le porte, facendomi andare a fondo in qualcosa che già mi apparteneva, in quanto la musica popolare fa parte di un tessuto sociale.

d: In cosa si concretizza, ancora oggi, la “modernità” della musica di riscoperta? Perché è ancora importante diffonderla?

r: E’ un dialogo ancestrale con la propria terra (così come lo definiva il poeta Antonio Verri), che, anche con tutti i cambiamenti possibili, non finirà mai. E la nostra è una terra ricca di sonorità, di rituali, di simboli che non sono certamente dovuti al caso, bensì a una conoscenza profonda dell’animo umano e di questo rapporto così misterioso tra la Terra e l’Uomo.

d: Il Tarantismo, che è alla base di certe musiche, è quel fenomeno culturale e antropologico che ha a che fare, notoriamente, con la “guarigione” dal “morso” del ragno. Il nostro Antonio Infantino rileggeva questo rito alla luce dei “veleni” attuali, il lavoro nelle fabbriche, il razzismo etc. Quali sono, per lei, le “tarantole” di oggi?

r: E’ sicuramente un malessere interiore che l’uomo ha sempre avuto nel corso della storia. Ognuno di noi, nella propria, vita, attraversa dei momenti bui. Il Tarantismo è sostanzialmente fondato su questo, ma la sapienza, di diverse ere storiche, ha saputo conoscere e affrontare questo malessere umano, di volta in volta dando un significato profondo alle cose. Oggi il Tarantismo può essere sicuramente legato alla solitudine, tipica della società moderna, che allontana l’individuo da se stesso; laddove invece il Tarantismo, per sua natura, era portato a “inglobare” l’individuo che stava soffrendo, a riportarlo alla “normalità” attraverso una ritualità, e ad accoglierlo nuovamente nella comunità. Questo è un insegnamento che il Tarantismo ci ha lasciato e di cui tutt’oggi si avverte l’esigenza, ovvero la socialità, lo stare insieme, rafforzare lo spirito dell’individuo.

d: E il ballo sfrenato, magari quello di un suo concerto, oggi può davvero aiutare a “scaricare” certi malesseri?

r: Sicuramente sì. Certo, in questi casi non c’è un vero rituale con un codice da rispettare (e ognuno trova un benessere a modo proprio), ma sicuramente questa musica, questo ritmo che storicamente viene da lontano –e che è stato protagonista di diverse esperienze di “guarigione”- può sicuramente aiutare ciascuno di noi a liberarsi delle “tossine” della società moderna.

d: Lei è anche un esponente della Notte della Taranta, evento culturale importantissimo, quello del “concertone”, ma sul quale circolano anche polemiche, a proposito di una “autenticità” che sarebbe compromessa e sacrificata sull’altare dei numeri e delle presenze turistiche. Cosa ne pensa?

r: Diciamo che io “sono stato” un esponente, fino a qualche anno fa, di questo evento (ho fatto sedici edizioni di fila, fino al 2018 incluso). E poi, forse proprio in ragione delle motivazioni che qualcuno avanza, ho preferito avere un percorso artistico personale, lontano da quelle che possono essere le “minacce” di un evento così grosso, che deve confrontarsi con tantissime realtà. Infatti, un evento così importante a livello nazionale ha anche una grossa responsabilità, che è quella di allontanare questa musica dalla narrazione sbagliata di se stessa; specie in questo momento storico, in cui è al contrario molto importante andare alla radice e al senso di questa cultura musicale, che attraversa sì il Tarantismo, ma anche il lavoro, le comunità, i canti d’amore, forte di una modalità espressiva per ogni canto. Generalmente, invece, la televisione -che è entrata di prepotenza nella Notte della Taranta- è portata ad appiattire tutte queste “ricchezze”. Ecco perché, a un certo punto, ho preferito scendere da quel palcoscenico e percorrere le mie intuizioni parallelamente.

d: Quale può essere una “interpretazione sbagliata” che le dà fastidio?

r: Il folklore. Quello non inteso come “sapere del popolo”, ma fare l’intrattenitore e lo zimbello per il turista di turno, col fazzoletto e la gonnellina. Sono cose che allontanano dal senso profondo di questa cultura musicale. Ma è solo un esempio tra tanti, in negativo. Io però preferirei parlare di ciò che “dovrebbe essere”, ovvero del senso profondo di un canto di carrettieri, o di un canto d’amore o di una pizzica tarantata.

d: Un tempo, infatti, la musica “commentava” tutte le fasi della vita, “dalla culla alla bara”, per citare De Martino.

r: Assolutamente sì, e ciò non accadeva a caso, ma con delle modalità precise che si sono tramandate nel corso di millenni. Quindi, semplificare o appiattire magari è doveroso per una tv commerciale, ma ne consegue però che il contenitore giusto non è quello. E’ importante che una cultura venga conosciuta e raccontata nella maniera giusta, allontanando le interpretazioni sbagliate.

d: La sua è una “nuova canzone popolare”, con testi socialmente impegnati: immigrazione, lavoro. La “world music” propriamente detta, dunque, non è solo la riproposizione di cose antiche, ma anche l’innesto con nuovi contenuti?

r: E’ una via, questa, che secondo me va percorsa, perché la musica di tradizione orale ha sempre raccontato la quotidianità (le difficoltà, le gioie, i dolori); attraverso i canti, tutto veniva conservato, espresso e trasformato, anche. E quindi, per me è importante cantare l’oggi della società moderna, ma con una matrice riconoscibile, territoriale, con l’identità che ci è stata trasferita. E’ inutile, quasi, continuare solo ed esclusivamente a cantare testi che non si ritrovano più nella quotidianità. Mio figlio di otto anni non sa che la mia terra è stata a lungo votata alla coltivazione del tabacco, e quindi “Fimmine fimmine ca sciatu allu tabaccu” non sa neanche cosa volesse dire. E’ importante dunque raccontare le cose a quella maniera, ma anche accendere i riflettori, socialmente, su quello che sta accadendo OGGI, o solo ieri, nel Salento, conoscere quali sono le difficoltà dei lavoratori della terra di OGGI, che spesso e volentieri sono le stesse di cinquant’anni fa. Io vengo da una famiglia contadina che mi racconta le stesse cose che gli immigrati vivono oggi: gente che dormiva a terra, che si alzava alle tre e che veniva sfruttata. La musica HA questo dovere e la musica popolare è sempre stata un grido socialmente utile a rompere gli argini e a rivendicare una dignità. Lo ha sempre fatto ed è bene che conservi questa funzione.

d: Il suo ultimo disco s’intitola “Babilonia”, che è un termine che ricorre molto nella musica reggae (e nel cd c’è anche un brano con Don Rico dei Sud Sound System), che sta a indicare il sistema corrotto mondiale.

r: No, l’ho inteso in maniera diversa, innanzitutto facendo riferimento a un momento storico molto confusionario, quello pandemico (che ha anche ritardato l’uscita del disco). Ho usato quel titolo perché quest’album racconta la bellezza delle differenze, che non creano sempre e solo confusione; in questo disco, il mio dialetto incontra quello di altre personalità, nazionali e internazionali, che raccontano le stesse tematiche. “Babilonia”, oggi, può essere tanto un giro intorno al mondo, quanto una passeggiata nel mercato rionale, ricco com’è di una vivacità sonora che viene dall’India, dal Marocco, dal Pakistan. E c’è l’abbiamo sotto casa. E la cosa bella e misteriosa, che mi affascina tantissimo, è che questi suoni raccontano tutti le stesse difficoltà. E’ un discorso che ha a che fare con l’essere persona umana.

d: Spesso, qui in Basilicata, vista la ricchezza e diversificazione delle nostre tradizioni, ci domandiamo se sarà mai possibile creare un evento di vaste proporzioni, simili a quelle della Notte della Taranta.

r: Personaggi come il maestro, filosofo, musicista (e mille altre cose) Antonio Infantino avevano già scavato un percorso in questa direzione, e soprattutto lui aveva attorno a sé la vivacità della gioventù, che è colei che ha il dovere, l’obbligo, di ereditare un passato e raccontarlo poi al futuro. Io vi auguro che questo accada, ma credo che sia un percorso lungo che territorialmente deve maturare. Personaggi del genere, con una mente così vivace, possono avviare il percorso di costruzione di un evento che non sia solo musica, ma narrazione di un territorio a trecentosessanta gradi.

d: Grazie di cuore.

r: Grazie a voi. “Ci balla la pizzica nu more mai”.