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di Walter De Stradis

 

 

 

E’ il primo pomeriggio di martedì, al Viviani, e da un paio di giorni a Potenza è tornato il clima che gli è più consono, con un vento dispettoso e non senza qualche goccia d’acqua. Ma per il patron del Potenza Calcio, Donato Macchia, all’antivigilia della (seconda, per lui) presentazione della squadra, non ci sono nuvole che incombono sulla società rossoblu.

d - Presidente, per lei questa è la seconda presentazione del Potenza. Cosa c’è di diverso in lei rispetto all’anno scorso? Maggiore consapevolezza? Minore “ingenuità”? Maggiori/minori aspettative?

r - La cosa che più mi tranquillizza è l’aver preso le misure ai meccanismi di iscrizione al campionato. Sono a dir poco “diabolici”: a causa della loro complessità, se sbagli una virgola, sei fuori, e di cose del genere se ne vedono e ne abbiamo viste. E questo posso dirlo con tranquillità dopo un anno di gestione, partita con una macchina azzerata (perché noi qui non abbiamo trovato nulla, e sottolineo nulla; abbiamo dovuto ripristinare tutto il meccanismo organizzativo, dalle competenze più semplici a quelle più strutturate). Pertanto, sì, abbiamo un anno di esperienza, che non è poco, poiché abbiamo approcciato tutto con delle competenze puntuali, con delle rigorosità, con un piano di lavoro che -devo dire- ci ha dato grandi soddisfazioni.

d - E ritiene di aver “preso le misure” anche alla tifoseria? Non sarebbe poco neanche questo, considerata la piazza.

r - Non esiste “prendere le misure” a una tifoseria. Come si fa? La cosa davvero importante, nei rapporti con i tifosi, è essere “a parte civile”. Mi spiego: si tratta di garantire ai supporter l’iscrizione della squadra; gestire in maniera sana, e non far nascere problemi come quelli verificatisi in passato, quando non s’erano potuti garantire nemmeno i servizi essenziali. Poi, certo, è normale, la tifoseria vorrebbe la Champions, ma è anche giusto da parte sua comprendere gli sforzi. Fare una società di calcio, tenerla pulita e ordinata, è una cosa complessa; lo è parimenti la programmazione tecnica. Ma ci vuole il tempo. E se si fanno le cose non avendo del tempo a disposizione, si ripete quanto è più volte accaduto (leggi fallimenti): a un certo punto, infatti, il Potenza Calcio non esisteva più nelle dinamiche, nelle considerazioni, in pratica, il “brand” era sotto la sabbia. Non c’era più nulla. Nulla!

d - Adesso dunque la società è in salute.

r - Di più: avendo fatto un lavoro forse mai svolto prima, in un anno, il brand “Potenza Calcio” è diventato un modello nella Lega Pro. E non lo diciamo noi, ma lo dicono la Lega stessa e anche i club degli altri gironi. Hanno un gran rispetto per noi.

d - In sostanza, lei dice, il Potenza ha riacquisito credibilità.

r - Sì, e anche tanta.

d - A questo punto però un tifoso potrebbe chiederle: “Presidente, all’atto pratico, in cosa si traduce per il Potenza tutta questa credibilità?”

r - In primis, nell’aver recuperato dignità. E’ accaduto che in passato, coloro che affermavano in giro di avere nel cuore il Potenza Calcio, rappresentavano una società che dignità non aveva.

d - Spesso si sente dire che i tifosi sono “azionisti” di una società. In che misura, per lei, questa affermazione è veritiera?

r - I tifosi sono azionisti, ma non lo sono sotto il profilo del contributo economico. Voglio chiarire, perché questo è un limite che la piazza potentina continua ad avere (almeno, io lo sto costatando ora). Il Potenza Calcio, seppur riferibile al capoluogo piccolo di una piccola regione, può e deve avere palcoscenici migliori; ma affinché si arrivi a questo, ci vuole il contributo di tutti. Non servono a nulla i “bla bla bla” di taluni (che il Potenza lo amano poco, evidentemente). I tifosi affermano che “l’importante è che il Potenza scenda in campo”; tuttavia il nostro compito non è solo quello. Noi dobbiamo programmare il futuro. E il futuro non lo si programma facendo operazioni pazze. Bisogna investire sui giovani, organizzando le strutture necessarie, cosa difficilissima. Senza tutto questo, a meno di concomitanze fuori dall’ordinario, non c’è operatore economico che possa mantenere una società professionistica ai massimi livelli. In sostanza, si concretizza una società sana solo nel momento in cui cresce e programma, e solo a quel punto si può ricevere rispetto e anche -giustamente- ambire a traguardi maggiori.

d - Nel frattempo, voi avete puntato molto anche su un Potenza “di prossimità”, facendo girare la squadra nei quartieri della città...

r -...E nella provincia

d -...Incontrando la gente. Una cosa che mi pare inedita.

r - Ci stiamo rendendo conto che il calcio può avere una funzione straordinaria. Sociale ed ECONOMICA. Molte volte le amministrazioni pubbliche non sanno leggere questo dato, pensando che lo sport sia un comparto insignificante sotto il profilo economico. E’ invece un dato assodato che per ogni euro che le strutture pubbliche investono nello sport, ne ritornano tre. Infatti, con lo sport c’è meno incidenza sanitaria, e tanta altra roba. Sì, noi abbiamo un progetto inclusivo, abbiamo messo su, in parallelo, la Fondazione Potenza Futura. Abbiamo un team straordinario. Guardi, la nostra è ormai un’azienda, che merita il rispetto che ha. Dà lavoro a tante persone.

d - Passiamo un attimo alla questione stadio...

r -...Ma anche qui, debbo dire, con l’amministrazione comunale abbiamo impostato un rapporto basato sulla lealtà pura. Io ho detto loro: guardate, da voi non verrò mai col cappello in mano. Do rispetto e in cambio mi aspetto lo stesso. Ognuno deve fare ciò che è di sua competenza. In tutta verità, mi sono sentito sollevato quando il Sindaco ha detto “Per la prima volta non sarò anche il presidente del Potenza Calcio”: in passato, per taluni piccoli periodi, è accaduto spesso che al primo cittadino venissero consegnate le chiavi della società.

d - Il sindaco non sarà presidente del Potenza Calcio, ma non vedremo mai neanche un “onorevole Macchia”?

r - No. Attenzione, io ho dichiarato che non farò mai il politico in prima persona, ma questo non esclude il poter dare un contributo di idee. Perché avvertiamo l’esigenza che qualcosa debba accadere. Pur col poco tempo avuto finora disposizione, qualcuno dice che noi -dal canto nostro- qualcosina già l’abbiamo fatta, ridando il sorriso a una città totalmente spenta. Stiamo facendo questa intervista in un luogo che prima non c’era (il bar interno –ndr) . I primi soldi noi li abbiamo investiti nello stadio, perché era un letamaio. Ora è un posto a cui noi abbiamo ridato dignità. Questo luogo ormai io lo chiamo “Via Pretoria 2”: non c’è giorno, la mattina o la sera, che non vi sia gente, a prescindere dalla presenza di eventi o meno. E allora, faremo tutto quanto è necessario. Mi sento dunque, moralmente, impegnato a dare un contributo di idee, di pensiero, per far accadere qualcosa che possa aiutare chi ha deciso di rimanere in questa terra e viverla. Come noi. Di sicuro non ci gireremo dall’altra parte.

d - Riassumendo, lei finora è soddisfatto...

r -...Come no.

d - Non ha mai detto o pensato “Chi me l’ha fatta fare”.

r - No. All’inizio dichiarai quattro cose (che abbiamo realizzato e che sono sotto gli occhi di tutti). Uno: sdebitare la società (abbiamo trovato un debito societario vicino ai quattro milioni). Due: le infrastrutture. Abbiamo subito investito un milione e mezzo. E lo vedono tutti. Tre: i giovani. Abbiamo ricostruito un progetto che era ai minimi termini. Ci siamo presi il lusso di arrivare terzi con la Primavera Tre. Quarto: la salvezza. Non solo ci siamo salvati belli tranquilli, ma... come ben sa, saremmo potuti andare molto oltre.

d - In conclusione, mi dica una cosa che in quest’anno invece l’ha fatta incazzare.

r - (Sorride) Le cose possono essere tante o non esserci affatto... Guardi, voglio dirle questo: quando un imprenditore cresce in un territorio, ha il dovere di donare qualcosa al territorio in cui cresce. Questo significa che egli deve operare consapevole del fatto che potrebbe anche arrabbiarsi. Ma se vuoi fare questo tipo di lavoro, le arrabbiature devi metterle da parte.

 

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POTENZA CALCIO – «Caturano rimane, ma arriverà anche un grande centrocampista»

 

di Antonella Sabia

 

Prenderà il via domani, con un esordio casalingo, la stagione 2023-24 del Potenza Calcio. Si riparte da una certezza, la fascia di capitano rimane sul braccio di Caturano, che è stato riconfermato proprio durante la presentazione della rosa che si è svolta giovedì allo Stadio Viviani, sul campo verde diventato ancora una volta palcoscenico per raccontare il futuro rossoblù. Su di lui si erano concentrate le maggiori voci degli ultimi giorni, perché l’attaccante era stato a lungo corteggiato dalle BIG del girone, Crotone e Benevento in primis. L’arrivo di Asencio, poi, non ha fatto ben sperare in una sua permanenza con la maglia rossoblù, e invece si può dire che questo sia stato il miglior colpo di mercato da parte del Presidente Macchia. Proprio su questo, ha dichiarato durante la Presentazione:“Salvatore Caturano vale quanto tutti gli altri giocatori, ma su di lui si sono scatenati tanti club che ambiscono alla B. Non ultimo il mio amico del Benevento, che ha fatto anche offerte consistenti. Però siamo riusciti a trattenere un ragazzo che ha ricevuto richieste da far tremare i polsi, si può rinunciare al compenso, ma bisogna rimanere con orgoglio e fierezza”.E sempre in merito alla squadra, il major del Potenza Calcio ha inoltre affermato:“Abbiamo una rosa di valore, a partire dal mister, sicuramente ci toglieremo molte soddisfazioni. Il tifo non ci serve per fare botteghino, ma per sostenere la squadra”. E ha inoltre congedato il pubblico rossoblù che ha affollato la tribuna del Viviani, con la notizia di una chiusura di mercato importante: “Arriverà un grande centrocampista”, ha riferito Macchia. Proprio mentre andiamo in stampa, si chiuderanno le porte dello Sheraton di Milano, e potremo avere certezza di chi sarà l’ultimo acquisto del Potenza che chiuderà la rosa di mister Colombo e si presenterà domenica alle ore 20:45, sul prato verde del catino casalingo, contro il Brindisi. Si è a lungo parlato di Pasquale Schiattarella, centrocampista campano, in forza al Benevento, ma solo tra qualche ora si avrà la certezza.

ACQUISTI E CESSIONI – Di seguito acquisti e cessioni del Potenza Calcio nella sessione di mercato estivo. IN: Edoardo Saporiti, Alessandro Calvosa, Luciano Pisapia, Antonio Porcino, Luca Gagliano, Mario Francesco Prezioso, Rosario Mariano Maddaloni, Asan Mata, Andrea Hristov, Kevin Candellori, Mattia Rossetti, Raúl José Asencio Moraes. OUT: Vincenzo Polito al Messina, Emanuele Schimmenti, Gabriele Rocchi al Latina, Fabia Alagna.

ABBONAMENTI – Terminerà oggi, alle ore 20, la campagna abbonamenti #ViviilViviani per la prossima stagione sportiva. Ad oggi pare che i numeri si attestino intorno ai circa 800 abbonamenti.

INNO – Proprio durante la Presentazione ufficiale è stato scelto il prossimo inno del Potenza che farà da cornice alle gare casalinghe del Potenza. A sorpresa, ad aggiudicarsi il contest indetto dalla società in collaborazione con il Festival Musica Senza Etichetta e la pagina d’informazione web Il Potentino, sono stati SiscoeGarracash, che hanno ribaltato un risultato parso ben più atteso. Avevano infatti ottenuto più “like” su Youtube (dato che influiva al 60% sull’esito finale) le proposte di Antonello Favale e Claudio Silvestrelli, gradimento popolare rispetto al quale si è però rivelato decisivo il voto della giuria tecnica interna.

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di Walter De Stradis

 

 

 

«Gae Aulenti era un tipo di persona talmente libera e indipendente, che avrebbe trovato divertente l’idea che qualcuno potesse protestare contro una piazza ideata da lei!».

E se lo dice l’autorevole scrittrice e giornalista Annarita Briganti, che l’illustre architetta (scomparsa a Milano nel 2012) l’ha studiata (e amata) a fondo, c’è da crederci.

Napoletana (ma il nonno era lucano), residente a Milano, collaboratrice di Repubblica e di Donna Moderna, opinionista tv nei programmi Mediaset, mercoledì scorso Briganti ha presentato il suo libro (“Gae Aulenti – Riflessioni e pensieri sull’Architetto Geniale”, Cairo Editore) qui a Potenza, nell’ambito della Notte Bianca del Libro Festival, in un incontro moderato da Rosa Santarsiero, con interventi di Carla Sabia e Marisa Santopietro.

L’occasione si è rivelata dunque ghiotta per discutere con l’autrice di quello che è stato uno degli ultimi lavori progettati (insieme a un più ampio team) da Gae Aulenti: proprio la nostra Piazza Prefettura. Com’è noto, il nuovo look, e soprattutto i “pali” metallici che lo caratterizzano, furono oggetto di critiche che definire aspre è un eufemismo, tant’è che in occasione del Concertone Rai di Capodanno di qualche anno fa, quando queste furono momentaneamente divelte, più di qualcuno in città sperò si trattasse di un “regalo di Natale” definitivo.

d - A Potenza tutti conoscono Gae Aulenti (anche in virtù delle feroci polemiche che ci sono state) esclusivamente come colei che ha “disegnato” il volto che Piazza Prefettura ha da una decina d’anni a questa parte. Tuttavia, questo importante personaggio rimane comunque un “oggetto misterioso” per gran parte dei cittadini.

r - La mia è la prima biografia in assoluto su di lei, ma mi preme subito risolvere il “referendum” sui “pali” della Piazza: io li amo. Mi è stato raccontato che in città c’è stata una sorta di divisione interna…

d - …a dir poco: fu allestito addirittura un comitato…

r - …appunto, perciò, vi prego, come ho già avuto modo di dire nel corso della presentazione del mio libro, qualora vi fosse una manifestazione contro i “pali”, chiamatemi subito, perché io verrò a manifestare a loro favore. La vostra è una piazza bellissima, speciale, unica, come non ce ne sono nel resto dell’Italia. D’altronde Gae Aulenti faceva esclusivamente interventi che a suo modo di vedere si armonizzavano con il territorio, pertanto vi invito a fidarvi della sua visione, perché non potrete più farne a meno.

d - Quindi lo stile della piazza, con tanto di pali, è tipico di Aulenti? Lo si può ritrovare in altre opere in giro per l’Italia?

 

 

 

 

annarita_briganti.jpgr - Bah, io ho la fortuna di girare l’Italia e di venire spesso qui a Potenza in occasione di questo Festival del libro (per il quale ringrazio Paolo e Simona). Ne approfitto per dire che l’Italia dei Libri è molto lunga (Milano, Tornino, Napoli…), ma quando vengo qui coi miei lavori, scopro sempre nuovi angoli della città. Ed è stato davvero bellissimo scoprire una piazza ideata da una donna, che oltretutto rappresenta un “unicum” tra le sue creazioni. Infatti l’Aulenti, pur avendo degli elementi ricorrenti (qual è sicuramente il “colonnato”), ha fatto un progetto specifico per QUESTO territorio; pertanto, come dicevo, io questa piazza me la terrei stretta, e presentare il mio libro solo a pochi metri (nel cortile della Provincia di Potenza – ndr) è stato davvero emozionante.

d - Tuttavia nel corso della presentazione lei stessa ha affermato che i lavori di Gae Aulenti erano spesso oggetto di polemiche.

r - Sempre. Qualsiasi cosa facesse. A riguardo, le do due risposte sintetiche. La prima (ed è anche una provocazione) è questa: Aulenti era una donna in un mondo che allora era ancora più maschile –se non proprio maschilista- di adesso; di conseguenza, il fatto che molti concorsi internazionali, molti prestigiosi lavori che tutti avrebbero voluto fare (penso al museo d’Orsay a Parigi, ad esempio) andassero a lei, era causa di critiche pretestuose e ingenerose. E questo, spiace dirlo, accade ancora oggi: se tu donna ti esprimi, vuoi fare carriera, non hai paura, e accetti il confronto, comunque spesso e volentieri sei oggetto di critiche pretestuose. E dell’odio sui social non ne parliamo proprio (né tantomeno dell’argomento violenza sulle donne, un campo ancora più atroce). Seconda risposta: quella di Aulenti era Avanguardia, pertanto lei vedeva le cose “prima”, per l’appunto. Prenda questa Piazza che ora noi chiamiamo “dei pali”: vista ora, è una performance della Biennale, è un’istallazione, un’opera d’arte. Se voi andate alla Biennale trovate QUESTO tipo di cose (che io amo). Ecco quindi che Aulenti guardava in avanti, di dieci, vent’anni, addirittura di generazioni, ma poi il tempo le ha SEMPRE dato ragione

d - Quindi Secondo lei verrà il tempo in cui la maggior parte dei potentini apprezzerà la bellezza di Piazza Prefettura (magari una volta definitivamente smaltita la delusione di non potervi più parcheggiare).

r - A me sembra incredibile non riconoscerne la bellezza. E guardi che è importante parlarne, perché il contesto in cui viviamo determina il nostro stile di vita: se viviamo nel bello siamo più felici, al contrario di ciò che accade creando “ghetti” (si veda ciò che succede in Francia) che a loro volta portano solamente drammi, violenza e distruzione. Ne consegue, che se Potenza ha l’opera di una grande artista -qual è Gae Aulenti- dev’essere per forza un elemento di bellezza, di amore. E se vuole anche di ripartenza, onde poter continuare ad amare questa città, anche attraverso altri, ulteriori registri. E’ un grande vantaggio poter essere a contatto –tutti i giorni e gratuitamente- con un’opera di un grande artista, motivo per cui io sono fiduciosa. Ma mi lasci dire comunque che l’idea che qualcuno abbia (o pensi di farlo) “manifestato” contro “i pali”, la trovo surrealista, pertanto non posso non adorarla, pur non trovandomi d’accordo.

d - Potenza da qualche tempo è diventata città “cinematografica”: c’è stato il film di Aleandri con Ambra Angiolini (“La notte più lunga dell’anno”) e qui è stata girata, ovviamente, anche la serie su Elisa Claps…

r - …sì, una storia terribile, che purtroppo non ci ha insegnato niente…

d - …il regista Aleandri disse che lo aveva colpito proprio l’aspetto un po’ “noir” della città. A lei cosa piace (o non piace) di Potenza (Piazza Prefettura a parte)?

r - A me piacciono molto i climi freddi, nord-europei, e in questo, Potenza –al di là della sua posizione geografica- può darmi molte soddisfazioni. E poi a me queste atmosfere un po’ da “camera chiusa” non dispiacciono. E non so se qui ho visto più il “noir” o la provincia, ma i meccanismi della provincia, il fatto che qui tutti -probabilmente- sapete tutto di tutti, mi intrigano moltissimo.

d - Sta dicendo che le piace il provincialismo?

r - No, non lo intendo nella sua accezione negativa (io stessa sono di Napoli, città che è comunque “ai confini dell’Impero”). Mi piace l’idea di una società che sa tutto di tutti, ma non sui social, bensì nella realtà vera. Io stessa vorrei sapere tutto di voi, e certamente lo metterei nei miei libri. Per questo sarebbe pericoloso se restassi qui! E comunque, se dovessi scegliere tra il modello un po’ basso è un po’ cafone dei social e il provincialismo, beh, sceglierei il provincialismo tutta la vita!

d - Da visitatrice, se potesse prendere il nostro sindaco sottobraccio, cosa gli direbbe?

r - Di fare attenzione soprattutto alle disuguaglianze sociali. Da uno studio di cui mi sono occupata, so che Potenza è una delle città in cui il costo della vita è aumentato di meno; e nell’ambito di questa grande crisi che c’è in Italia (siamo agli ultimi posti in Europa praticamente su tutto!), con tanta gente che non può andare in vacanza perché non ha soldi, tutto questo è senz’altro un bene. Ma sicuramente anche qui esistono le disuguaglianze sociali: una forbice che in Italia si sta sempre più allargando (io purtroppo a Milano godo di un osservatorio privilegiato). Pertanto, direi al vostro sindaco di occuparsi non tanto di chi ha già, ma soprattutto di coloro che hanno bisogno di tutto o che non ce la fanno ad arrivare a fine mese.

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di Walter De Stradis

 

 

 

Se non fosse per la pipa alla Maigret e gli occhiali, il giornalista e critico d’arte Rino Cardone, coi suoi capelli (e barba) folti e lunghissimi, sembrerebbe il protagonista di un romanzo di Emilio Salgari. Con lui, già volto noto del TGR Basilicata, abbiamo parlato della (estenuante?) ricerca del Bello, a Potenza e in Basilicata.

d: Come giustifica la sua esistenza?

r: Diciamo che la ricerca della Bellezza è un po’ il tratto d’unione di tutti i miei interessi: l’arte, il volontariato, ma anche la comunicazione e l’informazione. In quest’ultimo campo bisogna attenersi alla verità e alla giustizia; nel settore dell’arte è un discorso di armonia, equilibrio, simmetria; nel volontariato bisogna tenere da conto le persone che soffrono e che hanno bisogno, e a cui bisogna tendere la mano.

d: Lei è stato un volto noto del TGR locale, immagino che la gente ancora la fermi e le sottoponga delle cose…

r: Guardi, la maggior parte riconosce la voce, quella voce che hanno ascoltato nel giornale radio. Altre volte capita che ti riconoscano all’interno dei “mondi” di cui ti sei occupato, come l’arte, ma anche l’agricoltura…

d: Esiste il Bello “oggettivo”, o vale sempre e comunque il detto “è bello solo ciò che piace”?

r: C’è sempre una lettura soggettiva, nella pittura così come nella scultura e nella fotografia…ma quella valutazione non nasce “a caso”, bensì dall’esperienza, nonché dal rispetto di determinati codici estetici e stilistici. Se questi sono assenti, allora parliamo di opere oleografiche.

d: C’è chi sostiene che è più certa l’esistenza del Brutto “oggettivo”.

r: Beh, sì, questo risale alla visione su vuoi un po’ “esistenzialista” del nostro Novecento, quella di Sartre e Camus, una lettura decadente legata a un’epoca decadente, che sembra morire, ma che poi inevitabilmente risorge, un po’ come l’Araba Fenice.

d: A proposito, a microfoni spenti mi diceva che lei è devoto a una fede particolare…

r: …sì, sono di fede Bahá’í. E proprio tornando all’Araba Fenice, vorrei fare un piccolo inciso. Mia figlia Sefora è sepolta nel museo monumentale di Potenza, in uno spazio ancora impropriamente definito, con tanto di insegna, “campo dei non credenti”: un vecchio retaggio dei primi del Novecento (rimasto lì senza che nessuno se ne sia accorto), quando il “campo santo” era tale, in quanto benedetto dalla chiesa cattolica; mentre per tutti gli altri -principalmente gli Ebrei- c’era dunque il “campo dei non credenti”.

d: Secondo lei sarebbe ora di togliere quella scritta.

r: Io la cambierei, perché chi appartiene alla fede ebraica, musulmana, Bahá’í etc. è un “credente” come gli altri (ma devo anche dire che il rispetto dovuto si evince comunque nelle restanti parti del cimitero). Tornando però alla tomba di mia figlia, lì sopra c’è proprio un’Araba Fenice, realizzata in marmo verde di Carrara da un famoso artista contemporaneo, originario di Todi, Bruno Ceccobelli, mio amico personale. Per quanto riguarda il mio credo, ho abbracciato la fede Bahá’í nel 1982, dopo un percorso di ricerca spirituale (nasco in un ambiente cattolico), e dopo essermi avvicinato alla filosofia zen, a quella buddista etc. Mi accorsi subito che quella Bahá’í poteva essere la mia fede, in quanto riconosce l’unicità di Dio, comunque lo si voglia chiamare nelle varie religioni. Nel corso delle ere Dio ha infatti mandato nel mondo vari profeti, vari messaggeri.

d: E’ una sorta di sincretismo?

r: No, perché ha un suo rivelatore, una manifestazione di Dio, che è appunto Bahá’u’lláh, non certo un mistico che ha preso "un po’ di tutto". E’ un nuovo messaggero religioso: i tempi erano maturi perché l’uomo comprendesse l’armonia tra la scienza e la religione, la parità tra uomo e donna, la possibilità che nasca una confederazione mondiale di tutte le nazioni, con la fine delle disparità tra ricchi e poveri. Alla base c’è sempre la ricerca libera e indipendente della verità: noi Bahá’í non facciamo proselitismo e non abbiamo sacerdoti.

d: Quanti siete in Basilicata?

r: I numeri non sono grandissimi, sono stati maggiori in passato, ma poi c’è stato chi s’è trasferito. Posso dirle però che –secondo l’Enciclopedia Britannica- siamo la seconda religione più “diffusa” al mondo (anche se non stiamo parlando di numero di credenti).

d: Lei è da sempre attivo come critico d’arte in una Basilicata che è piena di tesori. Siamo davvero consapevoli di questo patrimonio di Bellezza?

r: Circa una trentina d’anni fa mi immersi in un’indagine sull’arte prodotta in Basilicata tra l’Ottocento e il Novecento, e senza presunzione posso dire di essere stato uno dei primi a scoprire che c’era tutto un tesoro rimasto celato. E sa perché? Con l’arrivo di Carlo Levi nacque una visione tutta “leviana” della pittura e della scultura lucana, che ha obliterato tutto quanto c’era stato prima. Oggi? C’è una vivacità culturale discreta, ma meno interessante, perché molti si improvvisano. Ma quelli che ci sono… contano.

d: Chiarisca quel “meno interessante”.

r: Guardi, quando rintracci la vena del dilettantismo, che assurge a “proposta artistica”, te ne rendi immediatamente conto. La genialità, l’estro, l’originalità, invece, si “leggono”.

d: Mi dice il nome di un qualche personaggio lucano che è stato ingiustamente sottovalutato o dimenticato?

r: Mmmm… beh, uno che ha avuto comunque un certo apprezzamento, ma che aveva capacità ancora maggiori di quelle riconosciutegli, è stato Arcangelo Moles, artista eclettico (fotografo, grafico, pittore, scultore), scomparso prematuramente qualche anno fa.

d: E qualcuno sopravvalutato?

r: Non vorrei riferirmi a qualcuno in particolare, bensì a tutta quella massa di “improvvisati” che si approcciano a questa scena artistica.

d: Esistono i “raccomandati” nel mondo dell’arte?

r: Non esistono i “raccomandati” nell’arte, ma il mondo dell’arte è comunque un sistema viziato. Dopo l’Ottocento, finita l’epoca dei mecenati e con il mercato che è diventato “borghese”, hanno cominciato a prevalere le leggi di mercato e le relative “quotazioni” attribuite agli artisti. Un meccanismo, questo, che passa attraverso il “sistema” delle gallerie, dei mercanti, dei collezionisti, dei critici e degli storici.

d: E si può vivere di arte in Basilicata?

r: E’ molto difficile e complesso, ma c’è chi lo fa, come Pino Oliva, un artista di Matera. Potrei fare altri esempi, ma… va bene così.

d: Cosa c’è di “oggettivamente brutto” a Potenza?

r: E’ un “oggettivamente brutto” che si associa all’ “oggettivamente bello”: il Ponte Musmeci. Un’opera straordinaria, che va ristrutturata (e i tempi si stanno allungando mirabilmente!), ma per apprezzarlo bisogna andarci sotto, e a maggior ragione se c’è l’illuminazione notturna. L’“oggettivamente brutto” è dunque nella parte superiore: cantiere a parte, c’è quel guard-rail, quelle ringhiere, che non fanno apprezzare la bellezza del monumento! A Torino ogni ponte sul Po è arricchito di fiori e gerani. Ecco, sul Musmeci perché non mettere delle fioriere? E perché non mettere delle opere d’arte, delle sculture, lungo il percorso del parco del Basento?

d: Sempre a proposito di “Bellezza”, cosa ne pensa del dibattito sulle sorti del nostro centro storico?

r: La Bellezza sta nelle sue chiese, anche se col Terremoto abbiamo perso i “sottani”. Abbiamo perso il centro storico anche quando, negli anni Sessanta, si optò per un’edilizia spinta. Comunque, anche a Santa Maria c’è una chiesa molto bella, che ha un altare barocco molto interessante, e ove si presume ci sia una reliquia importantissima.

d: Se potesse prendere sottobraccio l’attuale sindaco, Mario Guarente, cosa gli direbbe?

r: Posso sbagliarmi, ma intanto gli direi di avere maggior dialogo con la base sociale. Vedo una scarsa comunicazione tra lui e alcune fasce sociali. Penso al mondo degli artisti che bussano alla sua porta e che, in alcuni casi, mi risulta non ottengano risposta.

d: Ma, più in generale, la politica lucana ha “capito” che la Cultura è una risorsa fondamentale o la considerano ancora un parente povero?

r: Io sono di origine siciliana, nato per combinazione a Cuneo, e trasferitomi a Potenza negli anni Sessanta. A quei tempi, sui libri di scuola, questa regione appariva come la più povera e col maggior numero di analfabeti. Beh, da allora di strada ne è stata fatta tanta e il patrimonio artistico e monumentale è stato evidenziato, in particolar modo con Matera Capitale Europea della Cultura, un progetto che ha investito tutta la regione e i cui effetti si registrano ancora adesso.

d: Quindi, “non lamentiamoci”.

r: No, non lamentiamoci.

d: Il film che la rappresenta?

r: “La passione di Cristo” di Mel Gibson. Un film crudo, certo, ma forse quello più vicino alla realtà storica, insieme al “Vangelo” di Pasolini. A questo proposito, mi sovviene che il fotografo Mimì Notarangelo è un’altra figura che si è iniziata a ricordare solo dopo la scomparsa.

d: La canzone?

r: “La Canzone di Marinella” di De Andrè. E’ il brano mio e di mia moglie sin da quando eravamo fidanzati. E quando sento il verso “scivolò nel fiume a primavera”, penso a mia figlia, che è venuta a mancare drammaticamente a diciannove anni.

d: Il Libro?

r: “L’idiota” di Dostoevskij, perché afferma che “La Bellezza salverà il mondo”. Anche se, vabè, è una frase parecchio abusata.

d: Fra cent’anni, in quell’angolo del cimitero di Potenza, cosa vorrebbe fosse scritto sulla sua lapide?

r: Domanda interessante. Direi “Seminatore di idee”, anzi no: “Spargitore di semi”. Sì, mi piace questa.

 

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di Walter De Stradis

 

foto di Luigi Cecere

 

 

 

Giornalista, scrittore, docente universitario, contributor di prestigiose testate nazionali, il quarantanovenne Michelangelo Iossa, napoletano, di origini lucane (Francavilla in Sinni), è uno dei massi esperti internazionali del fenomeno “James Bond”, personaggio che da qualche tempo, qui in Basilicata, avvertiamo particolarmente “nostro”, dopo i recenti fasti di “No Time to Die” (2021), girati anche a Matera.

Iossa lo abbiamo incontrato a Napoli, nella splendida terrazza del Parker’s Grand Hotel (uno dei più antichi alberghi d’Italia), a pochi metri dal Bidder Bar, che da quasi vent’anni ospita un Bond Point ufficiale, nel quale vengono serviti i 283 cocktail selezionati dai film e dai libri che hanno 007 come protagonista. Dopo “Operazione Suono” (Rogiosi 2020), incentrato sulle colonne sonore della saga cinematografica, Iossa è al secondo libro dedicato al vastissimo universo di 007: “Fleming/Luciano – Ian e Lucky a Napoli” (Jack Editore).

D- Come e quando nasce questa sua passione per James Bond?

R -Trasmessami da mio padre, è iniziata quando avevo otto anni. Era l’agosto del 1982 e Napoli in quel periodo, come accadeva allora anche nelle altre città, era svuotata. Un giorno, dopo aver gironzolato un po’, ci trovammo davanti al Cinema “Vittoria”, all’ Arenella, ove davano una retrospettiva su 007. Mio padre a suo tempo era andato a vedere quei film con mio nonno, e pertanto pensò fosse una buona idea. All’epoca non sapevo affatto cosa fosse un “agente segreto”, ma quella volta, subito dopo la visione di “Goldfinger” (un capitolo di quasi vent’anni prima, con Sean Connery), mi innamorai del personaggio. Mi avevano colpito la donna dipinta d’oro, le abilità di 007 e soprattutto la sua auto, dotata di mitragliatrice e geo-localizzatore. A un certo punto, la passione divenne professione, in quanto 007 (così come anche i Beatles) si trasformarono in oggetto di studio.

D- Questo “Fleming/Luciano” ha anche molto a che fare con questa città, Napoli, in quanto narra di un incontro che avvenne qui tra Ian Fleming, lo scrittore che ha creato 007, e Lucky Luciano, il boss che per primo aveva “riunito” le cosche mafiose.

R -Sì, da un lato infatti c’è Ian Fleming, giornalista, scrittore, reporter per la Reuters in Russia, egli stesso agente segreto per le forze navali inglesi, e naturalmente romanziere, creatore di James Bond; dall’altro abbiamo forse il più temibile mafioso di tutti i tempi. Fu Luciano a capire che il mondo dei gangster, così com’era, approssimativo e anche un po’ “baraccone”, doveva cambiare pelle, e di conseguenza “inventò” un modo di fare mafia completamente diverso, “modernizzandola” e creando addirittura un organismo di vertice che chiamò “la commissione”. Parlandone col suo braccio destro, Meyer Lansky, sentenziò: «No, questa organizzazione non deve avere alcun nome, è Cosa Nostra». E da quel momento tutti i giornalisti la chiamarono così. Di fatto, è stato probabilmente il mafioso più potente di tutti i tempi: Messina Denaro, Buscetta (tra l’altro un suo allievo) e Riina messi insieme, forse non arrivano a fare un Lucky Luciano. Pensi che una volta estromesso dagli USA e arrivato a Napoli, organizzò oltre venti summit, tra qui e Palermo, con tutte le organizzazioni più potenti. Di fatto, quella di Lucky Luciano è una “Spectre” (l’associazione criminale internazionale contro cui combatte James Bond – ndr). Non è un caso che –anche in virtù di una promessa fatta a Raymond Chandler- Ian Fleming volle intervistarlo. Pertanto, i due si incontrarono a Napoli nel 1960, ma la cosa incredibile è che l’anno successivo il romanziere inventò (nel libro “Thunderball”) il personaggio di Emilio Largo, facendolo nascere proprio a Napoli, e modellandolo sui miti, i riti e i modi di fare di Lucky Luciano. Di fatto, dunque, la “Spectre” è un po’ figlia di Cosa Nostra.

D- Tra l’altro, se non sbaglio, in quell'intervista con Fleming, Luciano disse la famosa frase: «La Mafia non esiste, è un’invenzione di voi giornalisti».

R -Esatto. L’intervista si chiuse proprio con quella frase, degna di un vero “cattivo” di Bond.

D- Precedentemente, però, come lei racconta nel libro, c’era stata anche l’operazione “Husky”.

R -Si tratta della grande svolta nella vita di Lucky Luciano. Esattamente ottant’anni fa, nell’estate del 1943, avvenne il più colossale sbarco degli “Alleati”, in Sicilia. Una risalita verso Messina, che com’è noto cambiò il volto della Seconda Guerra Mondiale. Quell’operazione, in realtà, avvenne anche grazie alla collaborazione di Lucky Luciano, che dal suo carcere newyorkese, facendo da “burattinaio a distanza”, aiutò la Marina americana, motivo per cui nel 1947 fu graziato dal Procuratore Capo dello Stato di New York, per “servigi resi”. E poté essere rimpatriato.

D- Motivo per cui nel 1960 era bellamente a Napoli a farsi intervistare.

R - (Sorride) Esatto, se si esclude un “lieve” obbligo di firma. Aggiungo che l’operazione “Husky” a sua volta era figlia di un’altra operazione, inventata col contributo di Ian Fleming. Si chiamava “Minced meat” (“Carne tritata”). Gli Inglesi si erano resi conto che Hitler era a conoscenza del fatto che le loro truppe sarebbero sbarcate in Sicilia, e quindi pensarono di depistarlo, facendogli credere che la meta dello sbarco fosse la Grecia. Ian Fleming, che già lavorava per il “Naval Intelligence”, fu reclutato anche per questa operazione. Si trattò di prendere il corpo di un militare morto, rivestirlo come fosse operativo, e “imbottirlo” di documenti falsi. Per l’occasione, Fleming scrisse un vero e proprio romanzo, in pratica la sceneggiatura di una delle operazioni militari più importanti (Fleming partecipò anche alla “Goldeneye” -che poi divenne il nome di un’avventura di James Bond e della stessa villa giamaicana in cui lo scrittore creò 007- e alla “Copperhead”). Quindi Fleming creò una vera e propria storia, con documenti credibili: nei vestiti del militare morto infilò persino una falsa lettera della fidanzata e un sollecito di pagamento (che abbiamo un po’ tutti), nonché, ovviamente, l’informazione che lo sbarco sarebbe avvenuto in Grecia. Questo corpo fatto trovare alle porte del Portogallo, arrivò alla polizia spagnola, che lo identificò come un militare inglese naufragato, cosa poi confermata dai colleghi tedeschi (i documenti erano “finti”, ma pur sempre prodotti dalle autorità britanniche). E fu così che Hitler si convinse che lo sbarco sarebbe avvenuto in Grecia.

D- Tutte queste cose che ci sta raccontando, rispondono inequivocabilmente alla domanda che spesso si pongono giornalisti, studiosi e critici, ovvero: “Chi era il VERO James Bond che ha ispirato Ian Fleming?”. E spesso, come sa, si legge anche di questa o quella spia, realmente esistita, che avrebbe ispirato il personaggio letterario e poi cinematografico. Ma, tutto considerato, il VERO 007 sembra essere proprio Ian Fleming!

R -Ovviamente, Ian Fleming è la persona più vicina al Bond letterario. Anzi, di tutti gli autori di storie di spionaggio che conosciamo, è quello più simile alla propria creazione. E’ vero, anche Tom Clancy (che non si chiamava così) era stato una vera spia (un po’ operativa e un po’ “da scrivania”), così come John Le Carrè (una spia “da scrivania”), ma Ian Fleming è quello che somiglia di più al suo personaggio, anche se era un po’ meno “action man”. Poi ci sono state delle figure che hanno ispirato dei singoli romanzi: è certificato che Dusko Popov, una spia di origine dalmata/ungherese soprannominata “Triciclo”, in quanto “triplogiochista” (fra Russi, Tedeschi e Inglesi), ispirò a Fleming la storia di “Casino Royale” (il primo romanzo di James Bond – ndr). Con fondi del Tesoro, infatti, Popov giocò al casinò cercando di battere un nemico, che nel romanzo diventa il personaggio di “Le Chiffre”. Quindi Popov è sicuramente tra le fonti d’ispirazione, ma come uomo d’azione, mentre tutto quello che Fleming conosceva dei Servizi Segreti finì nel romanzo: un “Q” (ovvero il “Quartermaster”) esiste realmente, così come esiste realmente un “M”, e cioè un Capo, ed esiste la segretaria di questi. Non esiste un “doppio zero” per la licenza d’uccidere, ma una licenza d’uccidere per le missioni c’è realmente, tant’è vero che è ormai accertato che anche lo stesso Ian Fleming in servizio abbia ucciso qualcuno.

D- Di recente lei ha partecipato a un evento che si è tenuto a Carolei, in provincia di Cosenza, paese d’origine della famiglia di “Cubby” Broccoli (storico produttore dei film di 007), a cui è stato dedicato un busto. Erano presenti la figlia Barbara e il figliastro Michael G. Wilson, attuali produttori della saga. Alla famiglia Broccoli è stata inoltre conferita la cittadinanza onoraria. Cosa ci può dire sul prossimo attore che interpreterà il personaggio? L’era di Daniel Craig si è definitivamente conclusa, e c’è chi dice che il prossimo Bond potrebbe essere di colore o anche una donna.

R -Guardi, il nome del prossimo attore che interpreterà James Bond è sempre il segreto meglio custodito al mondo, al pari di quello di Fatima. Se volessimo scoprire i codici di lancio di un missile della NASA forse avremmo migliore fortuna. Tra l’altro, il prossimo sarà il numero sette, cifra di particolare valore nella cosmologia bondiana. Ci sono tanti candidati: quelli più accreditati sono Aaron Taylor-Johnson (già John Lennon in “Nowhere Boy”), Richard Madden (protagonista de “Il trono di Spade”, attualmente impegnato proprio come una specie di Bond in “Citadel”) e il “solito” Henry Cavill (già Superman, già Sherlock Holmes e già spia in “Operazione UNCLE”). La produzione di 007, tuttavia, da sempre cerca attori non particolarmente famosi: se si fa eccezione di Roger Moore, i vari Connery, Lazenby, Dalton e Craig erano tutti alle loro prime esperienze. Ma posso assicurarvi (e Barbara Broccoli me lo ha confermato di persona a Carolei) che il prossimo Bond sarà comunque un uomo. Pertanto, a mio avviso sarà sempre bianco e anglosassone, proprio per richiamare “l’inglesità” del personaggio originale. Ian Fleming voleva fosse così: un uomo, tra i 40 e i 50 anni, inglese. Lo stesso Albert Broccoli diceva ai figli: «Quando siete in difficoltà, tornate sempre ai libri di Ian Fleming. Lì trovate gli ingredienti perfetti». Non ci sarà dunque una “Janet” Bond. Con Barbara Broccoli abbiamo anche parlato dei luoghi, e- a sorpresa- mi ha citato anche Capri, ove però, finora, non hanno girato nulla. Che mi abbia lanciato un indizio sul prossimo film? Aggiungo che a Capri hanno vissuto sia Fleming sia Lucky Luciano…

 

 

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RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO LA LETTERA APERTA DEGLI AVV. LORENZO E LACAPRA
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Gentili Colleghe
Preg.mi Colleghi
Con umiltà, entusiasmo e voglia di fare abbiamo chiesto ed orgogliosamente ottenuto la Vostra fiducia ed il Vostro sostegno, accordatoci con l'elezione nel Comitato pari opportunità per il quadriennio 2023-27.
La nostra motivazione, in continuità con l'ottimo lavoro svolto da parte di chi ci ha preceduto, risiedeva nel mettere in campo in maniera concreta e fattiva ogni possibile ed opportuna iniziativa al fine di eliminare gli ostacoli che, di fatto, limitano la parità e l'uguaglianza sostanziale nello svolgimento della professione forense, specie a discapito della giovane avvocatura.
Di promuovere le politiche di pari opportunità nell'accesso alla professione e prevenire, contrastare e rimuovere i tanti comportamenti discriminatori.
Nei limiti delle nostre possibilità, avremmo voluto dare il nostro contributo nell’importante Assise rappresentativa.
Ci sarebbe piaciuto elaborare proposte idonee a favorire effettive condizioni di pari opportunità per tutti gli avvocati, in particolare modo per quelli giovani e per i praticanti, sia nell'accesso che nella crescita dell'attività professionale, operando purtroppo, spesso in condizioni di disparità.
Sarebbe stato utile promuove iniziative e confronti tra gli avvocati, gli operatori del diritto, le Istituzioni e gli Enti sulle pari opportunità, cercando di contribuire alla rimozione degli effettivi ostacoli, di ogni tipo, nella partecipazione alla professione forense, elaborare proposte, valorizzare le differenze di genere, senza alcuna discriminazione e valorizzando il diritto antidiscriminatorio anche attraverso la formazione professionale ed il rispetto delle regole deontologiche.
Avremmo voluto promuovere la crescita professionale di avvocati e praticanti operanti in situazioni soggettive od oggettive di disparità, supportando la loro rappresentanza negli organi istituzionali e associativi.
Purtroppo tutto questo non appare possibile.
Logiche incomprensibili, vecchie liturgie e bizantinismi dai quali rifugiamo con forza e stendiamo a comprenderne il senso ci inducono, non senza amarezza, a riflessioni e scelte radicali, ma purtroppo necessarie.
Il risultato elettorale da noi raggiunto, nello specifico primo e seconda degli eletti, unico criterio oggettivo e utile a determinare la governance dell'’Organismo è stato mortificato in spregio alla stessa volontà elettorale, manifestata in modo chiaro da tanti Colleghi e Colleghe che hanno votato conferendo un inequivoco mandato.
Ebbene il risultato elettorale ne esce svilito e irrimediabilmente mortificato, non essendoci altri criteri oggettivi di scelta, e dirimenti, nella composizione degli organismi in seno al Comitato.
Ogni altro criterio proposto dagli altri membri, di carattere soggettivo, con logiche di personalismi, se non addirittura ponendo veti con argomentazioni dai connotati marcatamente discriminatori: il non poter ricoprire la carica per l'apparenza al genere (maschile) o la recente iscrizione all'albo, da cui derive una apodittica inesperienza, appare non solo inopportuna, ma addirittura stridente ed in contrasto con le finalità dell’Organismo, cioè di garantire le medesime opportunità e non adagi a stereotipi o rendite di privilegio e di posizione consolidate.
In pratica ogni criterio proposto era volto a penalizzare le nostre persone.
Come noto l'unico criterio asettico ed oggettivo in una competizione elettorale è quello del rispetto della volontà dell'elettore e dell'attribuzione di significato alla consultazione stessa, in quanto le regole formali per concorrere nelle Istituzioni e negli Enti non possono prescindere dal criterio democratico del voto.
Il tentativo di sovvertire il risultato elettorale è risultato a dir poco mortificante, attesa l'inopportunità di ricoprire la carica di presidente per il membro cooptato e non eletto, non solo per buon senso, ma anche per prassi consolidata dello stesso Comitato, così come rivendicazioni di chi, nelle urne, ha conseguito un risultato elettorale pari a meno della metà di quello conseguito dai primi due, le cui preferenze conseguite sono pari a quasi l’80% dei votanti (L. Lorenzo 173; R. Lacapra 122; L. Rosa 54; F. Gallo 54)
Per questo, con rammarico ed amarezza, constata l'impossibilità di poter coltivare ambiziosi obbiettivi utili alle stesse finalità del Comitato, irrealizzabili perché già in partenza svilite e mortificate, credendo fermamente nei valori espressi, non ci resta che rassegnare, non senza profonda amarezza, le dimissioni.
Non siamo alla ricerca di cariche o di visibilità, infatti il mandato richiede oneri, disciplina ed onore, ma non è accettabile un precostituito veto sul nostro nome senza la proposta di qualsivoglia altro criterio oggettivo di scelta, sfociando poi in un vero e proprio ostracismo.
Sarebbe opportuno, a questo punto, attesa la mancanza di serenità e i criteri discriminatori proposti, che ogni singolo componente del Comitato, eletto e cooptato, compia lo stesso gesto, favorendo così, con nuovi protagonisti, scevri da pregiudizi, l'effettivo funzionamento dell'Organismo.
Allo stesso modo sentiamo forte il bisogno di ringraziare ancora una volta tutte le Colleghe e i Colleghi per la fiducia accordataci, al contempo garantendo sempre e comunque il nostro impegno in ogni contesto e ambito nel quale saremo chiamati.
Con rinnovata Stima
Luca Lorenzo, Rosa Lacapra

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

Una quindicina di giorni fa, a pochi metri dal sagrato della chiesa di San Michele, in pieno centro storico a Potenza, si è celebrata un’assurda “cavalleria rusticana”, con accoltellamento finale (come da “copione”) di un ragazzo originario di Picerno (Pz).

Il parroco, don Mimmo Florio (volto noto della chiesa potentina, avendo a lungo ricoperto lo stesso ruolo a Paggio Tre Galli) dalla sua finestra ha visto l’arrivo dell’ambulanza, chiedendosi in cuor suo, ancora una volta, cosa “diavolo” sta succedendo nella parte vecchia della città. La stessa cosa l’abbiamo chiesta noi, a lui.

d: Come giustifica la sua esistenza?

r: E’ una vocazione, sorta quando ero un bambino delle elementari, in una famiglia che di suo era molto credente. E così, già in prima media, entrai in seminario, avviando un lungo percorso in quell’istituto, in cui non sono mancati dubbi e ripensamenti fisiologici, ma che si è poi concluso con la piena certezza che questa era la mia strada.

d: Non vorrei banalizzare, ma c’è stato un evento, un qualcosa, o qualcuno, che le ha fatto capire che quello era il suo destino?

r: Come dicevo, la scelta è arrivata da bambino, ma posso anche dire che poi ho incontrato le persone giuste, i sacerdoti giusti, come il rettore del seminario, don Vito Telesca (un grandissimo riferimento per la mia vocazione), ma anche a Roma ho trovato docenti e compagni straordinari, come don Rocco Colucci, attuale parroco di santa Cecilia.

d: Lei stesso è stato parroco di Santa Cecilia, in un quartiere periferico come Poggio Tre Gialli, mentre oggi, già da alcuni anni, ricopre lo stesso ruolo nel cuore del centro storico. Quali le differenze?

r: Si può dire che a Santa Cecilia la vita sociale sia un po’ più scarsa la mattina, essendo un po’ un quartiere dormitorio. Tuttavia è un rione vivo, c’è una bella realtà, con famiglie e giovani (anche se gli anziani stanno aumentando), pertanto si lavora soprattutto di pomeriggio e di sera, con circa 4/500 bambini tutt’oggi iscritti al catechismo. La sera c’è fermento con adulti e genitori, tramite anche le varie associazioni. Il centro storico, invece, è un po’ più “anziano”, con la gente maggiormente legata a tradizioni antiche; ci tengono in particolare alle novene e a celebrazioni del genere. A Santa Cecilia, invece, la processione la “inventammo” noi, con tanto di statua, perché il mio predecessore, don Pinuccio Lattuchella, era più per il “sociale”, ovvero sport, musica etc.

d: In Centro, invece, a sentire i residenti, di musica ce ne sarebbe fin troppa.

r: (Ride). Sì, bravo, proprio così! Soprattutto la sera.

d: Uno degli argomenti del giorno è la presunta “malamovida” che angustierebbe il Centro e i suoi vicoli, caratterizzata da comportamenti spesso “sopra le righe” di alcuni ragazzi (atti vandalici, risse), e da fatti di cronaca, ultimo dei quali l’arresto di due giovanissimi per detenzione di droga ai fini di spaccio. E’ spesso intervenuto il Prefetto, ma lei che ci vive proprio “in mezzo”, cosa può dirci?

r: Io a San Michele ci vivo, notte e giorno, dal settembre 2017. E subito mi sono reso conto che c’era questo movimento. E devo dire che di recente è pure aumentato, perché prima si registrava soprattutto nel weekend, mentre oggi questo flusso di giovani che passa sotto la mia finestra si è sicuramente esteso. E credo anche che la situazione sia un po’ peggiorata: lo schiamazzo è aumentato tanto che a volte, mentre celebro la messa della 19, il vociare e la musica ad alto volume…, insomma, ho informato anche il Prefetto. E mi son sempre domandato se sia opportuno tenere locali a pochi metri da una chiesa, perché locali che con la loro musica possono “disturbare” le cerimonie, beh, non so, forse dovrebbero stare un po’ più a distanza… e mi chiedo anche se non ci siano delle apposite norme municipali da rispettare, magari.

d: Ma il problema sono soli gli schiamazzi e la musica? Perché se fossero solo questi…

r: …mah, credo che questi ragazzi esagerino un po’ con l‘alcol. Ho questa impressione perché spesso si va a finire a risse e a botte, e io stesso vedo passare polizia, carabinieri, ambulanze. L’altra sera non a caso mi sono affacciato alla finestra chiedendomi cosa fosse successo, e poi il giorno dopo ho letto di accoltellamenti e arresti. Insomma, sì, c’è una situazione che andrebbe più controllata, monitorata.

d: Il Prefetto ha annunciato un implemento delle telecamere, ma io chiedo a lei: che ruolo hanno in tutto questo le famiglie?

r: Beh, non diamo la colpa solo a loro. Anche se proprio l’altro giorno leggevo un intervento dello psicologo, Paolo Crepet, in cui affermava che è venuto meno il “conflitto generazionale”. Nel ’68 e negli anni successivi i giovani “combattevano” contro i loro genitori per ottenere tutta una serie di cose; oggi quei giovani di un tempo sono diventati genitori loro stessi e si sono “rassegnati” e sono poco portati a “stimolare” i loro stessi figli. Ma anche la Chiesa, in tutto questo, dovrebbe fare un “mea culpa”.

d: La Chiesa è un po’ in ribasso?

r: Forse sì, così come la Scuola e l’associazionismo.

d: Sulla Chiesa hanno pesato anche fatti di cronaca e scandali a livello internazionale?

r: Sì, forse ci sono stati dei fatti di cronaca che hanno indebolito la “bellezza” della Chiesa. Se pensiamo invece ai tempi, molto lontani, di san Giovanni Bosco e San Filippo Neri, parliamo di sacerdoti che (insieme ad alcuni laici), lavoravano molto coi giovani. Per la verità, ancora oggi a Potenza ci sono tante parrocchie belle in questo senso, anche quelle di periferia come San Giovanni Bosco, Santa Cecilia… io stesso sono assistente del centro Sportivo Italiano e la settimana scorsa a Nova Siri si è tenuto un convegno nazionale riguardo a tutti gli sport giovanili, e c’erano più di 550 bambini! Una cosa meravigliosa. Ecco, questa potrebbe essere la strada. Sì, la Chiesa qualche errore l’ha commesso, forse anche perché non trova gli stimoli adatti. Se noi stessi trovassimo delle alternative, forse questi giovani potremmo davvero tirarli fuori, non dalla “movida” (perché il divertimento deve esserci), ma da questa “mala” movida.

d: Lei cosa chiederebbe alle istituzioni?

r: Sicuramente il controllo dovrebbe essere aumentato. Ma soprattutto se ci mettessimo insieme, Chiesa, Scuola e Famiglia, si potrebbe pensare a dei progetti concreti, per attivare questi giorni. Via Pretoria si può accendere di vivacità (come accaduto l’altra sera, con gli Amici dell’Hospice)…

d: Mi diceva che ha parlato col Prefetto. E col Sindaco?

r: Anche. Però…humm (si acciglia in un’espressione perplessa - ndr)

d: Però?

r: Sono tutti preoccupati, Sindaco e Prefetto, però…humm, di concreto ancora non vedo nulla. So che la Prefettura ha organizzato controlli più serrati, però mi aspetterei un intervento poco poco più deciso, da parte delle istituzioni.

d: E cosa mi dice, invece, rispetto all’altra, annosa, questione, circa lo svuotamento e lo spopolamento del centro storico? Si parla ormai assiduamente degli effetti deleteri di uffici pubblici delocalizzati e di negozi spostati al Gallitello.

r: E’ vero. Quando vado a Gallitello per fare qualche servizio c’è un tale traffico che non si può camminare, mentre qui –specie la mattina- c’è poco movimento, mentre la sera diventa la “casa” dei giovani, come dicevamo. Il Comune dal canto suo ha sempre fatto molto, penso alla creazione delle scale mobili, per facilitare gli ingressi in Centro, ma certo andrebbe tenuto meglio. E diciamo anche che forse le stesse attività commerciali non sempre sono competitive.

d: Se potesse prendere il governatore Bardi sottobraccio, cosa gli direbbe?

r: L’ho conosciuto ed è una bravissima persona, davvero perbene. Beh, gli direi di lavorare per i giovani, perché la maggior parte di loro va via e qui da noi non ci sono opportunità di lavoro per trattenerli.

d: Tra l’altro, oggi -21 giugno- è San Luigi, patrono dei giovani. In cosa può essere ancora d’esempio per i nostri ragazzi?

r: La ringrazio per la domanda, perché ne volevo parlare. Stamattina, leggendo proprio la preghiera di San Luigi Gonzaga, dicevo che è stato un modello per due concetti che, detti ai giovani di oggi, potrebbero suonare “ostrogoto”: innocenza (ovvero castità) e penitenza. Ma si badi bene che il significato etimologico di “innocenza” è anche e soprattutto “non nuocere”. Pertanto direi ai giovani di essere “innocenti” in questo senso qui: divertitevi, amatevi, ma non nuocete agli altri, e a voi stessi, non esagerate col vino, non praticate il bullismo.

d: E la penitenza?

r: La vedrei così: avere la capacità di fare qualche sacrificio, ogni tanto. Non è necessario uscire tutte le sere e ritirarsi ogni notte alle quattro! Magari i giovani mi prenderanno a fischi, ma io direi: una sera ogni tanto, rimanete a casa a leggere un buon libro! La lettura fa molto bene. Per citare ancora Paolo Crepet, lui racconta che la figlia gli parla sempre di una biblioteca che in Belgio sta aperta fino a Mezzanotte, ed è piena di ragazzi!

d: Il film che la rappresenta?

r: “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, me lo fece vedere don Vito Telesca.

d: Il Libro?

r: Un libro di Ferruccio Parazzoli, “Per queste strade familiari e feroci (risorgerò)”, perché parla di un sacerdote che lavora con i giovani.

d: La canzone?

r: “Così Celeste” di Zucchero. Mi porta in cielo.

d: Mettiamo che tra cent’anni scoprano una targa a suo nome, a san Michele: cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

r: «Sacerdote di Dio e degli Uomini».

 

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Un dono dall’inestimabile valore di inclusività, per undici ospiti del Centro di riabilitazione di Venosa dei PadriTrinitari, che questa mattina 21 giugno, nella Cappella dell’istituto, hanno ricevuto dal vescovo della Diocesi di Melfi, Ciro Fanelli, il santo sacramento della Cresima. Una giornata di festa, per i ragazzi della struttura, che testimonia la massima attenzione e sensibilità dei PadriTrinitari nei confronti dei propri ospiti. “I Centri di riabilitazione Ada Ceschin Pilone di Venosa e Domus PadriTrinitari di Bernalda - commenta il rettore dei Centri di riabilitazione di Venosa e Bernalda, Vito Campanale - appartengono all’ente ecclesiastico della Santissima Trinità. Oltre ad occuparci degli aspetti riabilitativi, quindi, non possiamo trascurare quelli religiosi. Un giorno mi sono chiesto se tutti gli ospiti dei nostri centri avessero ricevuto il sacramento della Cresima. Fatte le opportune verifiche è stato accertato che alcuni di loro non erano stati cresimati. Dopo aver consultato i familiari ed acquisito il loro consenso e dopo aver ricevuto la disponibilità del Vescovo della diocesi di Melfi, monsignor Ciro Fanelli, ho deciso quindi di organizzare questo evento. Ad accompagnare il percorso di catechesi dei ragazzi, anche la nostra psicologa Tiziana Pagano, che ha voluto cresimarsi insieme a loro. Dal sorriso sul volto dei nostri ragazzi credo che la nostra sia stata una scelta più che giusta”. La cerimonia, alla presenza di operatori e familiari, è stata officiata dal vescovo Fanelli, insieme a Don Felice Di Nardo e a padre Nicola Rocca, superiore della comunità religiosa dei PadriTrinitari di Venosa. “Oggi l’istituto dei PadriTrinitari - commenta il vescovo Ciro Fanelli – ha accolto un evento di grazia molto bello e significativo. Abbiamo celebrato, nella cappella storica della struttura di Venosa, la eucarestia con il conferimento della Cresima ai ragazzi ospiti. È stato un evento che ha toccato il cuore di tutti, degli operatori, dei parenti, dei ragazzi stessi, di quanti erano presenti. Questi undici ospiti della struttura sono stati protagonisti di un evento di grazia. L’invito del Papa a renderci presenti nelle periferie è anche questo”. 

 

 

 

 

 

di Walter De Stradis

 

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Da marzo scorso, Maria Antonietta Santoro, chef del “Becco della Civetta” a Castelmezzano (Pz), è diventata l’unica donna ad aver conseguito l’ambito titolo di “Ambasciatore del gusto” della nostra regione. Alla soglia di sessant’anni -che dire splendidamente portati è poco (e c’è un motivo ben preciso, come vedremo)- nonostante gli studi in Giurisprudenza, Maria Antonietta è chiaramente un libero docente di legge, sì, ma del Sapore. E del Sapere.

d: Come giustifica la sua esistenza?

r: Esserci per me significa portare avanti un discorso relativo a un territorio, un tempo sconosciuto, oggi sempre più apprezzato. Il che comporta essere custode “di saperi e sapori” di questa terra.

d: Come si può raccontare una terra attraverso il cibo?

r: Attraverso la memoria. Se si vuole guardare al futuro, bisogna guardare anche al passato. La cucina è evoluzione. La cucina della nonna è superata perché oggi siamo tutti un po’ più “acciaccati”: mia nonna usava lo strutto, perché prima si lavorava tanto e si smaltiva, mentre oggi usiamo l’olio extravergine di oliva, per esempio.

d: La tradizione è comunque il punto di partenza.

r: Certo. Cinquant’anni fa avevamo una masseria, ove si cucinava per almeno venti/trenta persone al giorno. Si cucinava ciò che si aveva al momento (oggi pomodori, domani peperoni, l’agnello…), anche se ricotta e formaggio c’erano sempre, avendo gli animali. Era una sorta di economia autarchica, ove tutto serviva al mantenimento della famiglia.

d: A molti però non piace la definizione di cucina lucana come “cucina povera”.

r: Infatti non lo è assolutamente, è una cucina molto ricca, in questa terra abbiamo tutto. Anzi, mai come oggi io la definisco “attuale”. Faccio un esempio, uno dei miei piatti è molto antico: fave e cicorie (ne parlava addirittura Aristofane), ma oggi viviamo in un mondo in cui questo genere di cibi è stato riscoperto. Tenga conto inoltre che le erbe prolungano la giovinezza, la mia “farmacia” è infatti di là. Io raccolgo e mangio, sono seguace di Santa Ildegarda di Bingen. Grazie al nostro sole, inoltre, abbiamo i pomodori e possiamo fare le conserve (da cui nasce tutto il discorso della pasta al ragù); ma in questi posti, ove si tramanda ancora la tradizione del maiale, ognuno ha in casa la propria “riserva” (il vaso con la salsiccia). Ricordiamo inoltre la carne podolica, pregiata e autoctona, l’agnello lucano, il maialino nero, ma possiamo parlare anche di cacciagione, di grandi prodotti caseari, il caciocavallo podolico, i caprini…

d: Queste sono le basi, diciamo, ma lei affermava che la “cucina della nonna” non si può rifare. Lei cosa ci mette di suo?

r: Innanzitutto le tecniche di cottura. Prima si cucinava sottocenere, oggi si fa a bassa temperatura, ma il concetto è lo stesso. Oggi siamo vegani per scelta, un tempo per necessità. Insomma, oggi tutto viene “riconsiderato” alla luce dall’abbondanza di cibo, che invece prima scarseggiava. Una volta il secondo era un semplice pane e formaggio (quando lo si aveva), ma uno dei piatti che io ho ripreso è l’insalata di pere all’aceto con lo zucchero. Veniva offerto alle donne quando si “sarchiava” il grano, mentre agli uomini si dava un piatto più sostanzioso (si può dire che c’era in atto una sorta di discriminazione alimentare).

d: Abbiamo appurato che “raccontare” un territorio attraverso il cibo è possibile, ma la sua personale cucina cosa racconta in particolare?

r: Le Dolimiti Lucane, una parte della Basilicata, la cucina che io ho visto fare e che ho trasformato.

d: Ha qualche vecchio quaderno segreto?

r: (Sorride) Il primo quaderno lo feci a scuola, ma prima le ricette non te le dava nessuno, le dovevi rubare, carpire, perché ogni famiglia aveva la propria ricetta storica. Anche quando ho iniziato a lavorare, lo Chef la ricetta non te la dava, dovevi osservare. Pensi che quando ero piccola, qui a Castelmezzano eravamo una delle poche famiglie a fare la pastiera, una cosa insolita. Qui in paese c’è il palazzo della famiglia Parrella/Paternò, che però risiedeva a Napoli: erano loro a regalarci la pastiera, che facevano quando venivano qui d’estate, e noi ricambiavamo con la nostra ricotta. A un certo punto iniziammo anche noi a fare la pastiera, e via via altre famiglie ci imitarono.

d: Quanto è stato difficile avviare un’attività di successo in Basilicata?

r: Mi sono dovuta scontrare prima di tutto con un ambiente maschilista. Badi bene che, trent’anni fa, di “chef donne” non ce n’erano, c’erano solo “donne che cucinavano”. Io, tra l’altro, vengo dal mondo della Giurisprudenza, ma a un certo punto ha prevalso la passione. Vivendo qui, tra grandi silenzi, se si vuol “viaggiare” per il mondo, lo si può fare prendendo le persone “per la gola”. Mi inventai quindi una sorta di primo ristorante, per attrarre gente e condividere. All’inizio era un gioco, ma poi la cosa si fece seria: ho dovuto studiare, inizialmente con uno chef del posto (Pinuccio Volini), uno dei migliori dell’Istituto Alberghiero di Potenza che aveva viaggiato per il mondo. Mi fece sognare e fu una trasmissione orale, una scuola con un vero e proprio precettore. Il cibo è Cultura e la Cultura è anche un tramandarsi di gestualità.

d: Negli ultimi anni il turismo qui è aumentato.

r: Certo, anche se dobbiamo capire bene che sorta di turista vogliamo: c’è quello che ama l’avventura (il Volo dell’Angelo ha dato una vera svolta a questi luoghi), quello che va alla Grancia, i grandi escursionisti, ma c’è anche il turismo eno-gastronomico, ovvero quelli che vengono qui per gustare le nostre materie prime.

d: Quindi va bene così? O magari la politica dovrebbe aiutarvi di più?

r: La politica???

d: Non si arrabbi.

r: No, è che si tira in ballo sempre la politica…loro potrebbero fare le infrastrutture, certo, ma io non chiedo alla politica di fare qualcosa per migliorare la mia tavola: quello dipende da me. Sono stata brava a portare il mondo qui, evidentemente la politica non c‘entra. L’ho fatto da sola. La politica (di ogni schieramento) è chiamata a fare tanto altro, e sempre, per migliorare le condizioni di vita di chi vive dalle nostre parti. Il problema è uno spopolamento che non è mai stato di queste dimensioni, mancano i servizi (qui da noi non c’è nemmeno la scuola media), ma è un gatto che si morde la coda. Pertanto, io esorterei tutti a inventarci un modo per far sì che la gente venga a vivere qui. Ripopolare queste zone significherebbe non dipendere soltanto da questo turismo “mordi e fuggi”: la gente infatti viene qui uno/due giorni, ma poi scappa. E’ sempre un turismo di passaggio.

d: Se potesse prendere Bardi sottobraccio, cosa gli direbbe?

r: Bella domanda. Tornando al discorso di far venire la gente qui, in virtù del nostro stile di vita diverso, che ci fa una terra felice, gli direi proprio di creare ancor di più una terra felice, ove poter vivere senza troppi stress quotidiani. Le persone potrebbero venir qui per rigenerarsi.

d: Cosa farebbe magiare al Governatore?

r: Beh, non la pastiera (ride).

d: Perché lui è Napoletano adottivo e teme il suo giudizio?

r: Sì, ma scherzavo. E’ sempre bello mettersi in discussione, anzi, magari mi darebbe un suggerimento!

d: Quale suo piatto può meglio rappresentare la Basilicata di oggi?

r: Strascinati con cacio-ricotta e peperone crusco (alimento che di suo nasce per la conservazione dei salumi). E’ una cosa solo lucana.

d: L’orecchietta in effetti è pugliese.

r: Ma non è così! Ne ho discusso anche all’Expo! I Pugliesi sono stati solo bravi a farne un brand, grazie a Lino Banfi. Ma le orecchiette qui da noi si sono sempre fatte! Guardi, lei che è giornalista lo sa bene, è tutta una questione di comunicazione: la gallina fa l’uovo e dice “coccodè”, la "tacchina" fa l’uovo lo stesso, ma se ne sta zitta. Ecco, sulla questione orecchiette, noi Lucani siamo delle "tacchine"!

d: Mettiamo che tra cent’anni scoprano una targa a suo nome qui a Castelmezzano. Cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

r: Bah, lei mi sorprende con queste domande! Comunque, più che le parole, vorrei dire il concetto: essere bravi a tramandare i nostri saperi a chi viene dopo di noi (allo scopo sto scrivendo anche un libro, “L’amore si mangia”). Altrimenti siamo destinati a cadere nel vuoto. Prenda il pane, una volta lo si faceva in famiglia: io ho studiato una ricetta che consente ai ragazzi, attraverso quella che io chiamo la “tecnologia agevolativa” (leggi Bimby) di impastare il proprio pane a casa loro, scegliendo le farine, in modo tale da sottrarsi a quelle multinazionali che ci propinano cibo-spazzatura.

 

 

 

 

 

 

di Antonella Sabia

 

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Al termine dell'inaugurazione dei nuovi locali dell’ambulatorio multidisciplinare del Dipartimento Oncologico, lo scorso giovedì è stato presentato il Rapporto sull'attività ospedaliera del biennio 2021-2022 dal Direttore Generale del San Carlo, ing. Giuseppe Spera, che abbiamo incontrato per capire l'eredità che ha lasciato la pandemia e quali sono le sfide future del più grande ospedale della regione.

D - Il 2021 è stato caratterizzato dalla seconda ondata della pandemia, anche peggiore della prima, quali sono stati i principali cambiamenti relativamente al COVID?

R - Sicuramente il 2021 è stato un anno peggiore del 2020. Nella prima fase, che tanto ci ha spaventato, la Basilicata ha contato solo 350 positivi, mentre è arrivato realmente a partire dalla fine di settembre 2020, tanto è vero che nel 2021 abbiamo avuto quasi 24mila giornate di degenza ordinaria e 1200 giornate di terapia intensiva solo per pazienti COVID. Abbiamo dovuto trasformare la struttura, creare un ospedale nell'ospedale, cioè creare percorsi divisi, reparti duplicati, per evitare il contagio nell’ospedale e garantire la continuità delle altre attività.

D - Quali sono state le maggiori criticità?

R - Sono state sostanzialmente due, intanto il fatto che un ospedale non è pensato per una patologia infettiva come questa, che necessita di tecnologie separate, pensiamo in primis alla radiologia, dove non c’è un percorso dedicato. Siamo ricorsi quindi a tutte le procedure di sanificazione per poter garantire la cura dei pazienti COVID e la cura di quelli che avevano invece altre patologie. Inoltre, essendo il San Carlo l'unico DEA (Dipartimento di Emergenza Urgenza e Accettazione) di II livello, politraumi, casi gravi di cardiochirurgia, di neurochirurgia e anche di ortopedia dovevano arrivare necessariamente da noi.

D - Nel 2022 è cominciata una lenta ripresa, ma da questi cambiamenti obbligati, il San Carlo ne è uscito giovato in qualche modo?

R - Sicuramente, perché in quel momento l’attività ordinaria dell’ospedale non si è fermata, abbiamo saputo pensare anche al futuro e rilanciare l’attività, attivando nuovi servizi e potenziato quelli esistenti, nonostante ci fosse il Covid. Nel 2022, in ogni caso, le giornate di degenza sono state circa 23mila, ma è diminuito l’utilizzo della terapia intensiva, i vaccini infatti hanno ridotto i casi gravi pur mantenendo l’ospedalizzazione. Non abbiamo focalizzato l’attenzione solo sul COVID, come tante altre aziende ospedaliere, per esempio abbiamo aperto i day-hospital di oncologia e l'oculistica sui vari presidi, dove abbiamo anche avviato la terapia del dolore. Sembrava strano in quel momento pensare di potenziare altri servizi, ma abbiamo ritenuto che fosse il momento adatto per rilanciare.

D - Quali nuove sfide ha lanciato la pandemia?

R - Innanzitutto, quella di essere pronti anche all’imprevedibilità, a quelle situazioni eccezionali di emergenza pandemica che probabilmente non rimarranno isolate. Bisogna essere pronti ad adottare strumenti nuovi sia per la gestione che per i servizi alternativi, per esempio, la pandemia ha aperto molto la vista sulla necessità della telemedicina, così da evitare spostamenti e assembramenti inutili, velocizzando alcuni percorsi che erano troppo lenti.

D - Mi ha anticipato sul discorso della digitalizzazione, oltre al processo di adeguamento, in questi casi è necessario anche un cambio di mentalità?

R - Certamente, in quel momento abbiamo attivato delle agende di telemedicina che adesso stiamo ampliando perché crediamo che per alcune visite di controllo, la telemedicina rappresenti un’agevolazione tanto per l’utenza che non si deve spostare, quanto tutta una serie di vantaggi per gli operatori. Questo percorso deve però essere accompagnato dall'attivazione di presidi sul territorio che possano dare supporto a quei pazienti che ancora non abbiano competenze digitali, in particolare nelle fasce più avanti con l’età.

D - Per quanto riguarda invece il tema della prevenzione, la pandemia ha bloccato ogni attività?

R - Se la prevenzione la intendiamo come screening, come attività di ricognizione prima che avvenga l’acuzie, sicuramente il COVID ha fermato ogni attività, come avvenuto in tutta Italia. Soffermandoci sui LEA (Livelli essenziali di assistenza, ndr) del 2020, confrontati con quelli 2021, la Regione Basilicata aveva un giudizio insufficiente, oggi invece ha ripreso il trend giusto ed è promossa anche dal punto di vista della prevenzione.

D - Durante il COVID l’attività è stata centralizzata sul San Carlo, rimane fondamentale però la presenza dei presidi sul territorio?

R - È stata una scelta necessaria, perché per il COVID c'è stato bisogno della multidisciplinarietà che soltanto gli ospedali di Potenza e Matera potevano garantire, dallo pneumologo all’anestesista, l'area dell'urgenza, e tante altre specialità, tra cui la Malattie Infettive. Era impensabile creare un ospedale dedicato, diverso da quello dei due capoluoghi. Bisogna fare inoltre i conti con quello che i nostri presidi offrono, si tratta di presidi di base, quindi hanno alcune discipline come la medicina, la chirurgia generale, la rianimazione e l'ortopedia, ma non hanno delle specialità che si trovano sui DEA di II livello.

D - Per concludere, quali sono le imminenti sfide del San Carlo?

R - Per il futuro sicuramente tanti progetti da portare avanti, dobbiamo crescere sia nella risposta data sia in termini di qualità. Il Piano Nazionale Esiti ha dimostrato che siamo sulla strada giusta, dobbiamo cercare di far comprendere quello che stiamo realizzando, per esempio con la robotica, con la sala ibrida della cardiochirurgia e attraverso interventi innovativi che pochi centri effettuano. In una regione piccola come la nostra, però, spesso il passaparola è anche basato su notizie non propriamente esatte e forse funziona più della notizia stessa. Apro questo rapporto Biennale con una frase di Lao Tsu: “Fa più rumore un albero che cade, che l’intera foresta che cresce”. Stiamo cercando di far crescere questa foresta, ma magari qualche episodio crea sbavature, che oscurano quello che invece stiamo realizzando. Abbiamo avuto diversi premi, siamo entrati nell’elenco dei migliori ospedali del mondo, si può scherzare quanto si vuole su questa cosa, ma è un fatto essere entrati tra i migliori ospedali del mondo. È la prima volta per un ospedale lucano, il che significa che siamo nella direzione giusta. Siamo anche nei primi posti per bassa mortalità negli interventi di cardiochirurgia, tutti dati consultabili nel Programma Nazionale Esiti, redatto da AGENAS.

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di Walter De Stradis

 

Il potentino Massimiliano Monaco, quarantacinque anni, testa rasata e barba nera e lunga, è stato per ben due volte campione del mondo di kick boxing cinese, e fino al 2022 (anno in cui si è ritirato) è risultato primo nel ranking nazionale delle cinture nere di ju jtsu brasiliano.

Dal 1999, qui a Potenza, è inoltre il direttore tecnico dell’Accademia delle Arti marziali e dello Sport, e come allenatore di MMA (“mixed martial arts”, ovvero “arti marziali miste”) vanta allievi –sia di kick boxing sia di ju jitsu- che militano nella nazionale italiana.

«A livello mondiale si può dire che la MMA sia uno sport, ma anche uno spettacolo, molto seguito (soprattutto negli USA), con un business importante, che confluisce anche in altri media come i videogiochi. E pensare che la arti marziali sono sempre state vittima di due etichette: sport minori e sport violenti»,

d - Nel suo curriculum leggo titoli impressionanti ottenuti nell’ambito di kick boxing “cinese” e di ju jitsu “brasiliano”. Lei è di Potenza e viene naturale chiederle: ma dove diavolo ha imparato queste discipline?

r - (Ride) La passione ti porta ovunque. Ma dobbiamo dire che la Basilicata, anche se magari è poco noto, è sempre stata una piazza molto sensibile alle arti marziali e agli sport da combattimento. Io stesso vengo dalla scuola di Gianni Befà, il primo campione del mondo, che aveva una storia tutta particolare, quella di un autostoppista innamorato di karate-full contact…

d - La disciplina di Van Damme…

r - …praticamente. A lui si deve la diffusione mediatica e cinematografica di questo sport, così come a Bruce Lee si deve quella del kung fu. Tornando alla nostra città, qui ho avuto come maestro quello che poi è stato il primo direttore tecnico della nazionale di kung fu, Xuhao (e questo grazie a un’associazione il cui maestro era Enzo Stella Brienza) e poi nel 1998 andai addirittura in Cina. Insomma, è stato tutto un susseguirsi di studi e di viaggi, ed è il motivo per cui praticare queste discipline, soprattutto per i ragazzi di oggi, diventa un motore di crescita culturale. In Accademia curiamo tutto il settore, a partire dall’avviamento motorio, la pratica pre-sportiva; abbiamo quindi il settore giovanile, quello amatoriale e quello agonistico, fino ai professionisti. La mia soddisfazione maggiore oggi è proprio quello di aver creato un entourage che promuove le cultura sportiva e le arti marziali a 360 gradi.

d - Lei parlava di due “miti” da sfatare: sport “minore” e sport “violento”. Per quanto riguarda il primo, mi pare già di aver capito che in realtà qui a Potenza c’è da tempo una bella situazione.

r - Se parliamo, più in generale, di “arti marziali” (volendo intendere tutte le varie discipline), beh, abbiamo anche tantissimi praticanti di difesa personale, karate, judo. Pensi che allo scopo esistono non una, ma ben due federazioni riconosciute dal Coni, la Fijlkam e la FederKombat, che gestiscono l’intero movimento.

d - Veniamo all’altra nomea, quella di sport violento. Perché un giovane dovrebbe praticare le MMA?

r - I motivi possono essere i più svariati. Per alcuni è semplicemente un più proficuo impiego del tempo libero, piuttosto che passare ore sui social (specie in una città come Potenza), dedicandosi a un’attività sportiva individuale, che necessita però della squadra: un percorso mai noioso, col quale si impara man mano ad affrontare anche i propri fallimenti, senza essere per forza in competizione con gli altri. In ogni caso, possiamo dire che si tratta sempre di un percorso personale.

d - Quali sono i vantaggi fisici?

r - Possiamo dire che le arti marziali sono tra le più “complete” per lo sviluppo psico-fisico. Si richiede molta capacità di concentrazione: trattandosi di uno sport “situazionale”, non viene premiato solo il gesto atletico, ma conta molto la capacità di saper “leggere” cosa sta succedendo nel combattimento. Dal punto di vista fisico, vengono esaltate capacità elastiche, motorie, coordinative.

d - Alcuni “divi” internazionali delle arti marziali cosiddette “in gabbia”, palesano tuttavia un’immagine piuttosto aggressiva.

r - Un po’ sì, tenendo comunque conto che parliamo di scontro fisico. Tuttavia, il “trash talking” e altri aspetti sono riferibili a quei pochi che fanno “spettacolo”, una piccola nicchia di un grandissimo spettacolo che necessita anche di questi aspetti “folkloristici”. Una minoranza, un’eccezione, che stona un po’ col nostro codice etico.

d - Cosa le chiedono le mamme, quando portano i loro figli in palestra?

r - Le esigenze sono diverse. Da noi approda il bambino timido che, attraverso lo studio delle arti marziali e degli sport da combattimento, sviluppa maggiore fiducia in se stesso; così come il bambino vittima di bullismo, e allo stesso tempo, anche il bullo. La nostra è infatti una figura di trainer, di allenamento, che si avvalora del lato pedagogico e affianca il processo educativo.

d - Questo è molto interessante. Il bambino bullizzato acquisisce maggiore fiducia in se stesso, mentre il bambino-bullo cosa impara?

r - Ovviamente si tratta di un fenomeno complesso, che andrebbe analizzato e compreso a 360 gradi, in quanto bisognerebbe più che altro educare a non essere bulli, e non tanto a difendersi. Questo è il grosso dello sforzo. Il bambino che subisce atti di bullismo, praticando questi sport, impara a non essere vittima di tutta quella situazione emozionale che il bullismo porta con sé. Spesso la vittima matura una non-fiducia verso se stessa, a seguito della non capacità di reagire: ma già attraverso dei giochi, mettendosi a confronto, la sua emotività, la sua percezione di se stesso, cresce.

d - La sua autostima.

r - Sì, ma non ha nulla a che vedere col sapersi difendere o meno. Tenga presente che tutto ciò che esula dall’attività sportiva, lo scontro, per noi è una sconfitta.

d - Cioè, uno vostro allievo che esce dalla palestra e alza le mani, per voi allenatori è una sconfitta.

r - Esatto, ma lo sono anche gli scontri verbali.

d - E il bambino-bullo in che modo viene aiutato?

r - Anche lì, bisogna capire cosa li spinge. Spesso sono dinamiche di gruppo, o situazioni emozionali (la loro non-capacità di gestire situazioni ed emozioni). Attraverso quindi delle regole, un processo ludico-educativo (che dura negli anni), accade che in una nostra classe in cui ci sono dieci vittime e due bulli, alla fine si diventi tutti amici. Il ragazzo, se responsabilizzato, alla fine abbandona certi atteggiamenti, relegandoli alla stregua di episodi non ripetuti.

d - E secondo lei la politica locale ha compreso il valore delle cose che stiamo dicendo?

r - Recentemente sono stati organizzati qui in Basilicata eventi importanti (i campionati interregionali ed alcuni galà) e devo dire che le istituzioni ci sono state sempre vicine (ovviamente, con tutte le problematiche strutturali che sono ben note, e che sono di difficile risoluzione da parte del singolo). L’ultimo assessorato regionale ha fatto addirittura aumentare i finanziamenti per lo sport, che per una regione, e per un capoluogo come il nostro, può davvero significare ricchezza e sviluppo (se pensiamo a tutto l’indotto, come il “turismo sportivo”, che eventi importanti e seguiti possono creare).

d - Quindi alla politica non chiederebbe nulla? Va bene così?

r - No, chiederei comunque di stanziare più fondi e di valutare, come dicevamo, che tipo di “indotto” (dal punto di vista economico) può creare lo sport sul territorio. C’è poi l’aspetto culturale: alcuni nostri atleti hanno preso per la prima volta un aereo, per la prima volta sono andati un altro Paese, così come sportivi di fuori hanno visto Potenza o Matera per la prima volta.

d - Se potesse prendere il sindaco Guarente sottobraccio cosa gli direbbe?

r - Guarente -forse è stato il primo atto che ha firmato!- mi ha insignito di una benemerenza sportiva. E’ stato sempre presente a tutte le attività. Pertanto lo ringrazierei, chiedendogli di continuare –come sta facendo- a non sottovalutare lo sport.

d - La canzone che la rappresenta?

r - “Una vita spericolata”, di Vasco Rossi.

d - Il libro?

r - “Follia” di Patrick McGrath.

d - Il film?

r - “L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente”.

d - Fra cent’anni scoprono una targa a suo nome nella sua Accademia: cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

r - (Ride) Nulla.

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