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di Antonella Sabia

 

 

 

 

Fa parte del Comitato Nazionale per gli 80 anni della Democrazia Cristiana, di cui a livello locale è stato l’ultimo Segretario, e ci ha preannunciato che a giugno verrà portata la mostra della DC a Potenza, mentre per ottobre si sta organizzando un grande convegno sul ruolo che la DC ha avuto per il Mezzogiorno. Con l'on. Peppino Molinari, abbiamo ripreso e commentato alcune parti dell’intervista a pranzo del Direttore Walter De Stradis con lo storico Donato Verrastro.

d - Quanto del fenomeno del clientelismo di allora, si riflette ancora oggi?

r - Questo del clientelismo è un male atavico del Mezzogiorno, qualcuno pensava fosse un fatto che riguardava solo la Prima Repubblica, ma dopo il suo crollo, si è ulteriormente accentuato. Parliamo di chiedere un favore, una corsia preferenziale, un fenomeno che nasce dalla necessità e da uno stato di bisogno di gente che non aveva una paga, viveva in grandi difficoltà. Ricordo una volta, quando stavo ancora nel movimento giovanile ed eravamo anche un po’ impertinenti, dissi a Colombo: ”Presidente vi accusano e accusano la DC di clientelismo in questa regione…” e lui mi rispose: “Figlio mio, quando esco da casa incontro delle persone indigenti che non hanno nulla da mangiare e che vivono in condizioni di povertà, ho fatto solo delle segnalazioni, per accrescere l’ascensore sociale, per far studiare i loro figli, ho dato posti di lavoro non posti da dirigente!”. Successivamente ci fu l’epoca dei concorsi, non nego che arrivavano tante segnalazioni, ma si diceva sempre che bisognava premiare chi era bravo, poi c’era una graduatoria di idonei che nel corso dell’anno scorreva.

d - In cosa differisce oggi?

r - All’epoca comunque era un fenomeno sicuramente più contenuto rispetto ad oggi che ricoprire un ruolo da dirigente, significa anche superare un certo reddito. In alcuni casi, oggi, si possono fare delle convenzioni, tanti servizi sono stati esternalizzati, sono state create delle società ad hoc e diventa forse più facile fare le assunzioni.

d - Ma oggi l’ambizione è un posto di lavoro o un posto da dirigente?

r - C’è ancora una forte domanda di lavoro, specialmente in questa regione, ma possiamo dirlo che chi entra oggi nella pubblica amministrazione aspira già a posti da dirigente perché si è creato un forte dislivello economico tra chi ricopre ruoli dirigenziali e i semplici impiegati. Ai miei tempi il dirigente che veniva chiamato coordinatore, prendeva senz’altro qualcosa in più, ma si trattava di 3-400 mila lire in più rispetto all’usciere del piano.

d - Verrastro ha accennato al fatto che i più ricordano “Colombo che fece le strade in Basilicata”, ma la maggior parte dei progetti rientravano comunque in una logica più ampia, quella del Mezzogiorno.

r - Colombo ha sempre avuto una visione globale, ogni cosa che proponevamo, lui la collocava nell’ambito nazionale e del Mezzogiorno. Colombo è stata l’espressione massima della Democrazia Cristiana, un partito composto e complesso, ricco di personalità. Per emergere, dovevi avere delle qualità. In questa regione la DC è stato il vero partito rivoluzionario, abbiamo sostenuto la Riforma Agraria anche se le sinistre erano contro, abbiamo sostenuto l’Industrializzazione nonostante qualcuno diceva che fossero tutte cattedrali nel deserto, ma accanto a queste sorgevano parrocchie, piazze, scuole e quindi nascevano delle comunità. Si credeva fortemente in uno sviluppo integrato tra agricoltura e industrie in Basilicata.Con il senno di poi, si può discutere sul fatto che Colombo e la DC poteva fare di più e meglio, ma ora è semplice, sono le intuizioni a fare la differenza. Pensiamo poi alla costruzione delle famose dighe di cui si parla tanto oggi, fu un accordo nazionale tra Colombo e Moro, in particolare sul vendere l’acqua alla Puglia, che aveva una grossa carenza. È stata fatta una scelta e un accordo politico che vide coinvolto anche il professor Scardaccione che era l’allora direttore dell’Ente Irrigazione. Creammo inoltre sul territorio una rete ospedaliera, perché avere un presidio nei piccoli paesi, significava salvare tante vite. Tenga presente che si partoriva ancora nelle case, quasi nessuno si controllava e faceva esami… si “moriva di subito”.Queste reti ospedaliere alla lunga sono diventate anche strutture di eccellenza, perché avevamo tanti bravi medici, oggi il più delle volte per visite specialistiche o interventi particolari, ci si muove verso il Nord.

d - Ha fatto cenno ai partiti, qual è la situazione oggi?

r - Oggi tutti i partiti sono liquidi, non c’è più l’organizzazione dei partiti che significava avere le sezioni sui territori, avere organismi eletti nei congressi, fare le tessere. Io, per esempio, ero Segretario provinciale di un organismo composto da 36 persone di cui 9 facevano parte della direzione provinciale, oggi assistiamo a partiti con assemblee di oltre 2-300 persone che si ritrovano fuori dalle loro sedi. Noi avevamo i comitati regionali, le sezioni servivano per discutere del territorio e dei problemi di ogni zona.

d - Come si è arrivati a questo?

r - Quando è crollata la Prima Repubblica, una delle pagine più scure del nostro Paese, c’è stato proprio un disegno che vedeva la distruzione dei partiti. Da lì sono nati i nuovi partiti liquidi, quelli unipersonali, basti vedere i simboli: la maggior parte contengono i nomi delle persone, questo non significa più partecipazione, ma scegliere con chi stare, o altrimenti vieni estromesso. Prima all’interno dei partiti c’era dialogo e confronto, la gente partecipava. Personalmente, almeno quattro volte a settimana giravo e andavo nei paesi a discutere dei problemi con la gente e con le amministrazioni che governavano i Comuni. Oggi è facile utilizzare i social per fare delle denunce, per esporre un pensiero, si può dire tutto il contrario di tutto. Poi credo che non si sia mai voluto attuare quegli articoli della Costituzione che parlano dell’organizzazione dei partiti, che devono avere delle strutture e anche un controllo dello Stato per quanto riguarda i finanziamenti. Prima i partiti erano anche una grande scuola di formazione, si organizzavano dei veri e propri corsi che avviavano ad una carriera all’interno delle amministrazioni. Oggi si parla tanto di trasformismo quando si cambia partito. All’interno della DC noi avevamo delle correnti, ma mettemmo la regola che chiunque cambiasse corrente, per due anni non poteva avere alcun tipo di incarico di partito, benché meno nelle istituzioni…così si governava in maniera democratica!!!

d - E quindi pensa che un altro “Colombo”, non sia possibile?

r - Onestamente no, è improponibile un nuovo Colombo,o pensare ai partiti così come erano organizzati nella Prima Repubblica, parlo della DC, ma anche del Partito Comunista o il Partito Socialista. Prima si cresceva attraverso il confronto interno, si maturava per portare avanti idee. Oggi uno viene “unto dal signore” e diventa capo di un partito, non a caso oggi abbiamo leader di partiti che sono anche imprenditori, ai tempi nostri era inimmaginabile. E questo la dice lunga.

d - Venendo all’attualità, questi bonus erogati dalla politica regionale sono da “Prima Repubblica”?

r - Nella Prima Repubblica non si davano bonus, piuttosto si approvavano delle leggi per consentire l’ascensore sociale, per consentire a tutti di poter accedere alle scuole dell’obbligo, poi all’università…grazie ai presalari anche i figli delle famiglie non abbienti si poterono iscrivere all’università. Diventarono grandi ingegneri, medici, figli di contadini e pastori, Tutti venivano quindi messi nelle condizioni di poter avanzare socialmente, fu una scelta precisa che fece diventare in quel momento l’Italia, la quinta potenza. Non abbiamo mai fatto la politica dei bonus, c’era l’ECA (Enti Comunali di Assistenza, che fornivano pasti caldi, dormitori pubblici, indumenti smessi, buoni per l’acquisto di materie di prima necessità, sussidi mensili, ndr) che assisteva i poveri, ma era una cosa diversa, perché c’era un Consiglio di Amministrazione che stabiliva quali fossero le famiglie più povere. Così come le case popolari, ci fu la “Legge Fanfani” con la quale vennero costruiti tantissimi edifici in pochi anni, è stata costruita l’Autostrada del Sole, gli aeroporti…piuttosto che dare soldi a pioggia! Quando nacquero le Regioni nel 1970, la DC con Vincenzo Verrastro diede stabilità governando per 13 anni, creando un modello efficiente di Regione Basilicata tanto è vero che si parlava di “Modello lucano nel Mezzogiorno” ed eravamo la prima regione nella spesa dei fondi europei. Disse una volta Colombo, che Verrastro andò a Roma a fare lezioni di regionalismo… un uomo piccolo (di statura) e di una piccolissima regione, che però allora contava tanto. Oggi,sotto questo punto di vista viviamo il momento peggiore. C’è questa metastasi dello spopolamento che personalmente denuncio già nel 2001, per non parlare poi dei giovani che vanno via. Forse era questo il momento di fare una Legge Regionale che riguardasse diplomati e laureati lucani, sfruttando i fondi delle Royalties e i soldi dei bonus per dare loro una risposta lavorativa, coinvolgendo tutti i comuni, anche i più piccoli, almeno io come Presidente della Regione avrei fatto così. Invece assistiamo piuttosto a questa colonizzazione di gente che viene da fuori, a ricoprire incarichi da dirigente…con tutto il rispetto, volendo fare un paragone calcistico, la cosa regge se arriva un Maradona, Messi o Pelé, altrimenti abbiamo tanta gente competente anche in regione.

 

 

 

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

Il nostro viaggio nel mondo dell’associazionismo lucano questa settimana fa tappa (virtualmente) a Savoia di Lucania (Pz), consentendoci di parlare di un personaggio storico ancora oggi “divisivo”, Giovanni Passannante, e domandarci se la sua vicenda possa incarnare, ancora oggi, alcune “ambivalenze” della nostra regione, spesso stretta in un drammatico stallo alla messicana, tra ribellione e prostrazione.

Ne abbiamo parlato con la professoressa Lina Argia Passannante, non certo a caso presidente dell’ “Associazione Pro-Salvia Giovanni Passannante”.

d - Quella di Giovanni Passannante è una “colpa” che un intero paese, Savoia di Lucania -un tempo Salvia- secondo voi sconta ancora oggi.

r - Giovanni Passannante è il figlio di Salvia che, il 17 novembre del 1878, attentò a re Umberto I di Savoia, un atto condannato per oltre 150 anni, ma che -in realtà- non era teso ad ammazzare: si trattò di una forma di protesta contro un Sud che pagava le spese di un’Italia che non era ancora unita, con tanto di analfabetismo, miseria, scarsa scolarizzazione che dilagavano, in particolare nella nostra Basilicata.

d - Riassumendo al massimo: per risarcire la casata del Re, il paese cambiò nome, da “Salvia” a “Savoia”.

r - Sì, in segno di sottomissione, si scelse di omaggiare il Re. Ancora una volta, insomma, ci siamo genuflessi al cospetto del potere.

d - Pertanto, lo scopo principale della vostra associazione è quello di ripristinare la denominazione originale.

r - Certamente, ci preme ripristinare il vecchio toponimo, e in più, rivalutare e far conoscere la figura di Giovanni Passannante. L’associazione, ex comitato “Pro Salvia”, esiste dal 1988, io ne faccio parte dal 2008, e dal 2022 ne sono presidente.

d - Lei è in qualche modo parente di Giovanni Passannante, visto che porta lo stesso cognome?

r - E’ una cosa che si perde nella notte dei tempi, e io non ho mai fatto una vera ricerca. Sicuramente, i Passannante stavano tutti a Salvia, un tempo, e adesso non ce ne sono più, né al cimitero, né viventi. Tutti i Passannante li troviamo nei paesi limitrofi (Vietri, Vallo della Lucania, Melfi, Venosa), tranne che a Savoia.

d - Lei è infatti è di Vietri.

r - Sì, ma sicuramente qualche ascendenza con Giovanni Passannante ci sarà, perché mio nonno era del 1856, praticamente coetaneo di Giovanni, che era del 1849. Me lo raccontava mia madre, che aveva sentito questa storia da mio padre (che ho perso in giovanissima età).

d - Scusi, ma perché a Savoia di Lucania di Passannante non ce ne sarebbero più?

r - Perché, secondo me, hanno pagato duramente quest’ “onta” che dura da 150 anni, una “macchia” che non si ripristinerà mai, finché non si tornerà all’identità del paese. Ma non c’è mai stata neanche la volontà, di farlo.

d - Negli anni si sono lette diverse cose, ma le risulta che le amministrazioni comunali che si sono succedute, abbiano mosso un qualche passaggio ufficiale per tornare al vecchio nome del paese?

r - Che io sappia, mai. Ogniqualvolta abbiamo fatto emergere questo problema, non è mai stato preso in considerazione. Anzi, Ci siamo sempre ritrovati con le porte sbattute in faccia.

d - Che spiegazione si è data, dal momento che i Savoia in Italia non regnano più da un pezzo?

r - Eh, non saprei. C’è stato un tempo in cui qualcuno, in paese, ha anche invitato i Savoia (e cioè Emanuele Filiberto): c’era di mezzo pure un pranzo in un ristorante, poi andato a monte. Una storia un pochettino triste, a mio avviso.

d - Cosa può raccontarci della Basilicata, magari anche odierna, la vicenda di Passannante?

r - Ehh. Ci racconta la forza del potere dell’epoca, che ha cercato di far morire un uomo, facendolo scomparire letteralmente dalla faccia della Terra, dal consorzio umano; non si sapeva che fine avesse fatto, in quanto era rinchiuso in una torre, sotto il livello del mare, all’Isola d’Elba. Ma Passannante non ha mai chiesto la grazia.

d - Qualche anno fa vidi un film molto interessante, con Ulderico Pesce e Andrea Satta (“Passannante”, di Andrea Cerabona, con Fabio Troiano nella parte del protagonista – ndr)... ma non so che fine abbia fatto.

r - Ulderico Pesce ha promesso che metterà a nostra disposizione il suo film, per questo nostro progetto, “Passannante in itinere”, col quale andremo a toccare tutti i paesi, limitrofi (e non) a Savoia di Lucania, per far conoscere Passannante e per capire anche cosa le persone sanno di lui. Sarà un viaggio a ritroso nella memoria, che si concluderà a giugno in piazza Plebiscito, a Savoia di Lucania.

d - I Lucani che vedranno e sentiranno, secondo lei, cosa dovranno apprendere e cosa potrà essere utile ancora oggi?

r - Il concetto che prima di essere uomini bisogna essere umani. Giovanni è stato trattato in una maniera davvero disumana, laddove lui professava proprio ideali di fratellanza e giustizia. Chi ascolta dovrà imparare davvero -al di là di ciò che si dice e che si ostenta- il valore della sua forza di volontà, la sua resilienza e il suo coraggio.

d - La Basilicata, il Sud...siamo ancora “sudditi” di qualcosa?

r - Beh, alla fine siamo sempre succubi di qualcosa, anche solo di una maldicenza, di qualcosa che viene “sparato” sui social.

d - Siamo asserviti ancora al potere, in qualche modo?

r - Beh, io non mi occupo di politica, me penso di sì, poiché ciascuno vuole un posto in prima fila, le luci della ribalta.

d - Da cittadina e presidente di un’associazione culturale, qual ritiene sia la principale mancanza in questa regione?

r - C’è ancora chi denuncia delle cose, fortunatamente, ma viene subito additato. E non fa mai una buona fine.

d - Cos’ha prodotto, la vostra associazione, negli anni?

r - Tantissimo: incontri, simposi, c’è chi ha fatto delle tesi di laurea. Abbiamo fatto eventi a Matera (quando era capitale della Cultura), e a Vietri. Abbiamo invitato attori, scrittori; il professor Fernando Dello Iacono -molto vicino a noi- ha scritto un “Canto” per Giovannino. Tra i nostri progetti c’era anche un centro studi su Passannante, ove raccogliere tutta la produzione realizzata dal 1988 a oggi.

d - Ho desunto che con le amministrazioni comunali non c’è stato granché dialogo, e con quelle regionali?

r - Le amministrazioni regionali sono sempre più aperte al discorso. Dal canto nostro, dopo un momento di stasi, ci siamo riattivati. Io stessa presenterò un progetto scolastico per il prossimo anno; a livello personale già da tempo mi attivo per far conoscere Passannante ai ragazzi delle scuole dell’obbligo. Purtroppo la sua storia è completamente sconosciuta; ma quando mi capita di spiegarla ai ragazzi, noto che sono sempre molto affascinati. Per loro è una storia assolutamente impossibile.

d - Lei ha raccontato e anche denunciato delle cose, da parte nostra siamo disponibili a raccogliere repliche o aggiunte al dibattito... ma, a Savoia, sono contenti della vostra proposta di tornare al vecchio nome? Cosa ne pensa il cittadino medio, secondo lei?

r - Lo dicono solo con la bocca, ma secondo me non ne sono molto convinti, fondamentalmente. Tanto più che io stessa ho subito ostracismo nei confronti della mia persona – e questo me lo deve lasciare dire- perché non sono di Savoia. Un “campanilismo” abbastanza pesante, consumatosi sui social. Ma io non mi sono certo tirata indietro.

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

La loro ultima creazione, in ordine di tempo, è stata un simulatore di “slittovia” -attrazione che verrà effettivamente inaugurata a Castelmezzano il 25 aprile prossimo- portato alla BIT di Milano per illustrare l’iniziativa. I tricaricesi Giuseppe e Paolo Fedele, di professione “creativi”, ormai da anni si muovono tra progetti multi-mediali che hanno a che fare tanto con la tradizione quanto con l’innovazione. Fra questi, vanno citati almeno: il documentario sul “Canto Popolare di Tricarico”; un altro realizzato per i cento anni della Congregazione delle Suore Discepole di Gesù Eucaristico; tour immersivi per la valorizzazione del patrimonio religioso della loro Diocesi; eventi per gli anniversari di Rocco Scotellaro (nell’ambito di “Matera 2019”). I due fratelli, inoltre, gestiscono da anni la comunicazione e la promozione di eventi per la Pro Loco Tricarico, tra cui il famoso Carnevale.

d - Partiamo dal lavoro sul “Canto di Tricarico”, che ha visto il coinvolgimento, tra gli altri, del cantore Antonio Guastamacchia. In Basilicata si registra musica “sul campo” dagli anni Cinquanta, perchè quest’altro, ulteriore, documento?

GIUSEPPE(G) - Il canto popolare, in sè, non ha un autore singolo, ma è un lavoro di comunità. Ancora oggi, tuttavia, quello nostrano è molto “inquinato” da pizzica salentina, canti calabresi e pugliesi; pertanto volevamo mettere un punto fermo su ciò che fosse autenticamente e sicuramente di Tricarico (non a caso molti canti sono “a cappella”). E da lì ripartire, magari seguendo l’esempio di Major Lazer che, muovendosi dal campionamento di brani indiani, ha poi fatto altro.

PAOLO (P) - A proposito di “tradizione”, noi siamo sempre più innamorati del concetto di “continuo tradimento”, cercando di non fossilizzare il “com’era”. Anche nel Carnevale e in altri nostri progetti, ci preme sempre inserire il discorso “innovazione”. In quel caso specifico, però, ci interessava fissare un “punto zero” per poi capire in quale direzione può andare la nostra tradizione.

d - Ma tutto questo lavoro, me lo chiedo da tempo, ha poi un reale valore in Basilicata? Matera 2019, ad esempio, è stato un grande calderone di eventi e di progetti, ma alla fine la nostra regione ne esce più arricchita, in qualche modo, o torniamo sempre al punto di partenza?

G - Mah, dal canto nostro riteniamo ci sia sempre bisogno di uno sguardo “esterno”, al di fuori della nostra “bolla” comunicativa. A volte, cioè, arriva qualcuno esterno che ci fa innamorare delle nostre cose o che, magari, ci dice anche ciò che non funziona.

d - Cioè noi Lucani non siamo buoni giudici di noi stessi?

G - Ma no, è una cosa insita all’uomo. Di solito uno cambia atteggiamento - e molto spesso capita anche gli artisti- quando arriva una “spinta dall’esterno”, che riconosce il tuo valore.

d - Ma tutta questa recente attenzione sulla Basilicata (mi riferisco anche alle serie tv e ai film girati in regione, persino a Potenza) ha portato lavoro a professionisti “creators” come voi?

G - No, in generale, non ci arriva “l’indotto”. Tuttavia, noi che con Matera 2019 ci abbiamo lavorato, siamo in grado di dire che non è vero che sul territorio non ha lasciato nulla. La stessa Tricarico, in quel contesto, ha avuto cinque eventi.

P - Il punto, però, qual è: è vero, manca un indotto che ti possa connettere con gli altri creativi e con gli organizzatori, però molto dipende anche dai lucani stessi. Si tratta di saper “intercettare” o meno. Noi, a Tricarico, abbiamo portato, tra l’altro, “Il buon compleanno di Scotellaro” (in occasione del 95esimo); essendo presenti nel web team di Matera 2019, abbiamo saputo intercettare, accorgendoci che gli eventi non stavano andando granché bene. Così proponemmo a Palo Verri di portarli in provincia, e lui colse l’opportunità. Da quella riflessione, nacque anche il progetto “Capitale per un giorno”, che coinvolse, a turno, i comuni.

G - Tuttavia, il coinvolgimento esclusivo dei comuni, e non anche delle associazioni, fu un primo limite. Le amministrazioni, oberate come sono di urgenze quotidiane, anche spicciole, non hanno la lucidità per capire certe proposte. In quel contesto, cioè, non è facile capire quale messaggio un paese di 500 abitanti può lanciare all’Europa intera. Si poteva coinvolgere, insomma, tutto un mondo intellettuale, che in Basilicata certo non manca.

d - Proprio Tricarico, con Scotellaro, Infantino, Delle Nocche ...beh, è uno dei riconosciuti centri nevralgici di questo mondo di storia e cultura. Tutto ciò crea anche un po’ di responsabilità?

G - Dovrebbe (sorride). Non sempre, però.

P - L’ambiente di Tricarico, come ben sa, è “pepato”, e a volte pratica l’auto-sabotaggio.

G - E’ lo “zero a zero”. Una cosa molto lucana, in realtà. Se tu fai goal, io devo provvedere ad annullartelo, piuttosto che segnare anch’io.

P - E’ una cosa che non fa crescere i creativi lucani. L’abbiamo visto con Matera 2019, la scena creativa e culturale si era riunita, ma c’è sempre voluta una spinta “esterna”. “Basilicata creativa” adesso è un altro cluster che comunque funziona, ma ci manca sempre un progetto per metterci insieme.

G - A proposito dello “zero a zero”, ho fatto una riflessione osservando il manifesto del “Carnevale Potentino” e mi sono chiesto: perché non investire quei soldi e mandare la gente nei paesi dove fanno il Carnevale, piuttosto che crearne un altro? Oltretutto, uscire e conoscere il territorio è sempre una cosa positiva.

d - Ma questa è forse una riflessione che andrebbe fatta a livello regionale, non di comuni, perché ognuno cerca di fare il proprio lavoro.

G - No. Ma perché mai ogni comune deve credere di essere autosufficiente in tutto? Non c’entra la Regione, bisogna comportarsi come tra fratelli.

d - Cioè Potenza dovrebbe rinunciare al suo Carnevale per favorire quello di Tricarico?

G - Sì, ma anche a beneficio di quello di Satriano etc. Ma, ripeto, deve essere una logica “tra fratelli”. Non c’è bisogno di una Regione che ti dica di farlo, devi capirlo da solo. Visto che le risorse di questa “famiglia” sono poche, andrebbero distribuite secondo una logica: a te i servizi, a te quest’altro...

d - Lei dice: Potenza ha già i servizi, a noi lasciateci il Carnevale...

G - Per i comuni ci sono solo quattro occasioni all’anno per far venire i turisti e agevolare i negozi locali, se gli leviamo anche quello...

d - E quindi alla Regione, per la promozione di eventi culturali e turistici, non chiedereste nulla? Va tutto bene?

P - No, non va tutto bene, ma alla Regione spetta proiettarci su un altro livello, al di fuori del territorio.

d - E viene fatta questa cosa?

G - No, anche se con Matera 2019 c’è stata l’esperienza di internazionalizzare e di convogliare nel territorio intellettuali e creativi esteri, che magari qui si arricchiscono culturalmente, e poi tornano. So di musicisti che ci sono tornati a spese proprie, in Basilicata. La Regione, ecco, dovrebbe capire che quella è una “best practice”, intercettare i creativi e dire loro: “sparpagliatevi”.

d - Se un domani vi assegnassero un incarico politico o amministrativo (non si sa mai), quale sarebbe la prima pratica sulla vostra scrivania?

G - Io lavorerei sull’accessibilità, in senso totale. Non solo sulle strade, ma anche sui vicoli, su tutte queste “chianche” che non sono accessibili nemmeno a un passeggino. Guardi, la “provincia”, in generale, ci porta a capire che la competitività tra le città non ci appartiene. L’unico aspetto “competitivo” deve essere la vivibilità, quella deve essere garantita.

P - Io creerei delle borse di studio “sola andata”, per tutti coloro che qui si sentono stretti, per consentire loro di andare via.

d - Nella Basilicata dello spopolamento? Ma poi ci vorrebbe una borsa di studio per farli tornare!

P - No, no, no. Se ne dovrebbero andare e basta. E’ un esperimento.

d - Sì, ma quale vantaggio ne trarrebbe la Basilicata?

P - Che quelli che rimangono non vengono più infastiditi e resi tristi dagli scocciatori.

d - E chi sarebbero gli scocciatori?

P - Tutti quelli che si lamentano, che stanno scomodi, che non si trovano bene nei paesini o a Potenza e Matera. Bisognerebbe dar loro quei soldi, per farli stare fuori, almeno sei mesi. Mi rendo conto che è un rischio: all’inizio si potrebbe pensare di perdere anche 200mila abitanti.

G - E’ stato fatto un esperimento del genere in Islanda, e ha dato i suoi frutti.

P - Si crea l’ambiente giusto, uno spazio in cui risiedono soltanto gli ottimisti, coloro che hanno accettato le regole dello stare in Basilicata, ovvero strade e servizi un po’ così. Ma lo accettano. Noi l’abbiamo fatto, e tenga conto che spesso, a Roma o altrove, ci è stato proposto di trasferirci. A Roma, se ti trovi in un bar e racconti di aver inventato un algoritmo, magari alle tue spalle c’è un investitore che subito ti assume, a Potenza, invece, ti rispondono di trovarti un lavoro serio.

d - Da tempo siete tra gli organizzatori del Carnevale di Tricarico, che ha preso il via il 17 gennaio scorso, con la festa di Sant’Antonio Abate.

G - Evento che ci piace definire “a dismisura” di turista. Lo facciamo sempre in quella data, in qualsiasi condizione atmosferica, e sempre alle cinque del mattino. Ma da buoni “integralisti” riconvertiti, non lo vogliamo spostare in date più “favorevoli”. Ci sono dei tempi morti? Non ce ne frega nulla. Così è, se vi piace. E’ un evento soprattutto per noi.

d - Scusi, ma prima non diceva che a Tricarico voleva i turisti?

G- I turisti li vogliamo all’ultimo giorno del Carnevale e al raduno delle maschere antropologiche, che si fa a giugno. Se vogliono venire a gennaio, sono i benvenuti, ma non ci devono scocciare.

P - Anzi, da alcuni anni noi proponiamo di vestirsi, di essere parte della mandria. E siccome i costumi costano, si potrebbe creare un “indotto”. Invece di spendere i soldi per la settimana bianca, vieni a Tricarico e ti vesti da toro, o da vacca.

d - Facciamo un passaggio su Antonio Infantino (col quale avete collaborato): da quando è scomparso, il “patrimonio” che rappresenta, è adeguatamente valorizzato a Tricarico?

G - C’è un circolo Arci a lui intitolato, che ha avviato alcune attività. Ma tenga conto che per molti Infantino è ancora presente, così come lo è per noi. Pertanto è ancora presto, e noi non abbiamo fretta. Perché, tra l’altro, dare ordine e priorità a tutto ciò che ci ha lasciato, non è facile.

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

 

L’aviglianese Donato Verrastro, cinquantaseienne a cui daresti almeno dieci primavere di meno, è un accademico e intellettuale lucano di razza: docente di storia contemporanea all’Unibas (ove, da qualche settimana, è anche pro-rettore al “public engagement”), è anche direttore del Centro Studi Internazionali “Emilio Colombo”e presidente della fondazione “Emanuele Gianturco” di Avigliano (Pz).

Il centro studi “Emilio Colombo”, in particolare, è una delle tre direzioni interne al Centro di Geomorfologia integrata dell’area del Mediterraneo di Potenza; un centro che lo stesso Colombo contribuì a far nascere, a margine del terremoto del 1980.

d- Colombo, in Basilicata, è un po’ sinonimo di “Prima Repubblica”, con tutte le luci e le ombre che questo può comportare. Con quale scopo è sorto il centro studi a lui dedicato?

r - Il centro studi nacque quasi un decennio fa, ormai, con lo scopo di mettere insieme una serie di documentazioni, archivi e testimonianze legati alla sua attività; il tutto, a valle di un progetto pensato una prima volta quando lui era ancora in vita, e poi bloccatosi dopo la sua morte: un lungo documentario sulla sua carriera politico-istituzionale, divenuto poi un documento, disponibile online, intitolato “Emilio Colombo, memorie di un Presidente”. Tutto questo materiale è poi confluito in un volume, edito da Laterza (“Emilio Colombo, l’ultimo dei costituenti”), in cui la sua testimonianza diventa una fonte storica, ovviamente filtrata dalla sua personale prospettiva. Oggi il Centro studi custodisce le fonti della sua attività istituzionale, e anche il relativo patrimonio fotografico donato dalla famiglia (tutto digitalizzato e disponibile online).

d- In un momento storico come questo, in cui c’è un grande scollamento fra cittadino e istituzioni (nell’ottica della partecipazione al voto), in che modo Colombo può rappresentare “un’altra epoca” per la Basilicata?

r - Rappresenta “un’altra epoca” sicuramente. La percezione collettiva ha posto uno “stigma negativo” sulla Prima Repubblica, letta come logica del consociativismo, del compromesso, del clientelismo. Ormai l’interpretazione storiografica, però, è cambiata, anche in virtù della distanza temporale che ci ha consentito di maturare un pensiero critico. E’ quella una stagione con diverse ombre, ma sicuramente con tantissime luci. Intanto, è la storia e l’esperienza di una classe dirigente e di una politica (cui Colombo è sicuramente ascrivibile) che guarda alla realtà del territorio, di cui ne è anche espressione. E’ dunque una prassi politica, che è anche di tipo clientelare (fenomeno esistente ancora oggi), ma mossa da una classe dirigente che ha comunque ricostruito il Paese dopo la Seconda guerra mondiale. Un Paese in macerie, ma ancora tutto da fondare, dopo la caduta del fascismo (non avendo noi tradizione repubblicana). E così, nel giro di dieci/quindici anni, l’Italia passa da Paese sconfitto e distrutto dai bombardamenti, a protagonista del boom economico degli anni Cinquanta, diventando una delle Potenze più industrializzate del mondo.

d- Però quello è lo stesso periodo in cui si acuisce la Questione Meridionale.

r - In realtà si parlava di “Questione Meridionale” già alla fine dell’Ottocento.

d- Con l’industrializzazione, il “gap” Nord-Sud comincia a farsi marcato.

r - Sì, se facciamo, ad oggi, un bilancio di ciò che è accaduto; ma da storici dobbiamo contestualizzare i processi. E qual è la progettualità politica che osserviamo negli anni Cinquanta/Sessanta? Al di là degli esiti, registriamo una classe politica che GUARDA al Mezzogiorno, nell’ottica della risoluzione della “Questione Meridionale” di cui si parlava da troppo tempo, ma che il fascismo aveva completamente cancellato dall’agenda politica. Di Colombo e degli altri protagonisti di quella storia si dice sempre che realizzavano le opere “per dare soddisfazione all’elettorato”...

d-...ancora oggi, nei paesi, si ricorda che “Colombo fece le strade”...

r -...sì, ma la lettura equivoca che si dà di quella storia, consiste nel considerarla strettamente circoscritta al locale (penso alla Valbasento, alla Basentana, alle aree industriali, tra alterne fortune). Con gli studi effettuati, ci rendiamo conto, invece, che quei protagonisti non miravano mai esclusivamente allo sviluppo locale (che indubbiamente portava voti), e che tutti quei progetti rientravano sempre in una logica più ampia, ovvero quella del Mezzogiorno.

d- Oggi questa visione è rimasta in qualche modo?

r - Purtroppo no, non c’è una strategia di stampo meridionalista. Ci sono logiche di piccolo cabotaggio, anche se è chiaro che il Paese nel frattempo è completamente cambiato. All’epoca non c’erano le Regioni, non c’era una istituzione intermedia, che ha grande potere.

d- C’è oggi chi suggerisce addirittura di abolirle, le Regioni.

r - Diciamo che gli enti-Regione non hanno portato i risultati sperati. Le Province, invece, funzionano molto meglio, davvero incarnavano l’istituzione intermedia tra lo Stato e le comunità.

d- Il problema delle Regioni qual è? Troppe risorse? Troppo potere? Troppo poco?

r - No, il potere c’è. Il limite è la connessione di quel potere, nel bene e nel male (si pensi al vanto che ne fanno al Nord) con una grande autonomia in determinate materie, che molto spesso sono ostaggio delle politiche eccessivamente locali e che quindi si sganciano da una visione di carattere nazionale

d- Intanto lo Svimez ci dice che le Regioni, qui al Sud, sono un passo indietro, rispetto ai comuni, nella spesa e “cantierizzazione” dei fondi Pnrr.

r - C’è infatti anche un problema di performance e di efficienza. La Basilicata, fino a quindici/vent’anni fa, si distingueva positivamente in tema di fondi europei, per capacità di intercettazione, drenaggio e investimento E’ un problema di classe dirigente. Un ultimo passaggio: a mancare è la mediazione dei partiti, a partire dagli anni Novanta...

d-...oggi ci sono solo gruppi di potere?

r - La dinamica dei partiti è prevista dalla Costituzione, non dimentichiamolo. Erano quelli i contesti in cui si allenavano i futuri membri della classe dirigente, si alimentava il dibattito. Venendo meno questi corpi di mediazione (oggi i partiti sono tutt’altra cosa), si è aperto il varco a logiche un po’ più compromesse con le dinamiche eccessivamente locali.

d- Lei prima diceva che il clientelismo c’è ancora oggi. Tempo fa lessi un libro in cui si riportava che alcuni neo-assunti nelle industrie della Valbasento, avevano ricevuto una lettera, a firma di Emilio Colombo, in cui questi sottolineava “l’intercessione” fatta. In che modo il clientelismo di oggi è diverso, se lo è, da quello di allora?

r - Torno ancora alla “transizione” degli anni Novanta (Tangentopoli), che ha aperto una diversa prospettiva interpretativa sulla gestione della politica: noi oggi troviamo questi biglietti nelle carte di archivio, le segnalazioni che arrivavano agli enti (che non erano solo di Colombo), e ci scandalizziamo. Tuttavia “la segnalazione” all’epoca era all’interno di un sistema di “attenzionamento” delle esigenze (e non parlo della questione etica, perché è evidente che la meritocrazia non sempre veniva rispettata). Ma per certi versi era un sistema “trasparente”: il politico di oggi non ci penserebbe neppure a inviare un biglietto del genere. Ma ciò che noi ritroviamo oggi tra le carte è comunque il segno di una “politica di prossimità” che guardava comunque alle necessità. E molto spesso si interveniva a supporto di emergenze vere. Gli aneddoti raccontano che su dieci assunzioni, probabilmente, tre potevano anche essere mediocri, ma sette dovevano essere necessariamente di qualità (cioè reclutando i migliori, anche attraverso un sistema rigoroso di selezione, e mettendoci la faccia).

d- Oggi non siamo sicuri che quella “percentuale” venga rispettata.

r - Esatto.

d- Un ultima domanda: perchè Colombo, pur partendo da una regione come la Basilicata (all’epoca ancora più “minuscola”), è riuscito a diventare Colombo? C’è, secondo lei, un suo possibile “erede” politico in circolazione?

r - E’ impensabile che la Storia possa ripetersi allo stesso modo e riproporre modelli politici del passato. Colombo arriva alla politica attraverso la filiera cattolica (e tra l’altro inizialmente pensa a una carriera universitaria). E, tra i “reclutati” di quelle giovani risorse, neanche ventiseienne, viene gettato nella campagna elettorale dell’Assemblea Costituente. Parliamo di un contesto e di una storia che non ha eguali con quelli di oggi, ma c’è un passaggio importante: nel suo ultimo intervento alla commissioni riunite Camera-Senato per gli esteri, si prefigurò la Brexit (che ancora non era neanche ventilata), aprendo anche uno squarcio sulla questione Mediorientale. Questo per dire che dobbiamo astrarre quelle esperienze, anche dal pregiudizio locale, perché nessun politico esce vincente dall’analisi dell’impegno locale, ove ci sono commistioni troppo forti. Certe cose vanno lette anche in una prospettiva nazionale. E’ ciò che fa la differenza tra uno statista e un politico: la capacità di visione, di lettura, ma anche la solitudine -molta- nella responsabilità delle scelte. C’è infatti un Colombo privato che ci parla del peso dell’assunzione della responsabilità e della solitudine delle scelte. E tenga conto che quella forza di decidere è una qualità che non sempre i politici hanno.Indpov

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

Francesco Potenza è un cinquantaduenne d'aspetto imponente, con la testa glabra, le sopracciglia folte e il sorriso pulito. Gli occhi chiari gli si inumidiscono quando parla del ricordo lasciato in città dal padre Domenico, avvocato come lui, sindaco di Potenza nel post-dissesto, dal 1995 al 1999. Francesco l’abbiamo voluto incontrare, tuttavia, nella sua veste di poeta (ha pubblicato tre libri, è presente in numerose antologie e ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti), in qualità dunque di esponente di una “nuova scena” che –anche grazie all’uso dei social- si sta affermando nella città capoluogo di regione.

d - Ci può essere poesia anche nell’avvocatura, o sono due mondi incompatibili?

r - Beh, poesia nell’avvocatura sembra un po’ un paradosso, ma diciamo che forse ha un quid in più quel legale che impronta i propri pensieri, la propria attività, “ad humanitas”. In qualche maniera, la letteratura, la poesia, aiutano una certa forma mentis, che anche il legale dovrebbe avere, o ci si augura che abbia. Ci può dunque essere una compatibilità tra i due mondi.

d - Nel suo caso, è nato prima il poeta o l’avvocato?

r - Difficile dare una risposta. Da un punto di vista meramente cronologico, sin dalle elementari mi ha accompagnato l’amore per i poeti, italiani e stranieri; con gli studi universitari è subentrato anche l’amore per la legge, amore che devo comunque alla figura di mio padre, avvocato per tanti anni.

d - Qual è stato il suo principale insegnamento?

r - Mio padre mi diceva tante cose a proposito della professione. C’è però una frase che mi è rimasta dentro, e che ho riportata anche in un mio scritto: «I fascicoli sono persone». Vale a dire, dietro quelle carte, ci sono dei respiri, delle vite, che vanno rispettate. Il suo ordine maniacale nel riporre i fascicoli nell’armadio, rispecchiava quell’umanità che, spero, in parte, di aver ereditato.

d - A dispetto di un luogo comune che vuole una città-capoluogo piuttosto “arida” culturalmente, a quanto pare esiste una fervida scena di poeti potentini. Penso anche a Oreste Lopomo, Francesco Cosenza, Vito Viglioglia…

r - …Claudio Brancati (anch’egli avvocato e poeta), Andrea Galgano, Angelo Parisi, Lorenza Colicigno, Ione Garramone, Alberto Barra…ci sono tanti bravissimi poeti, e questo amore si respira anche sui social, in questa forma ibrida e moderna di trasmettere sentimenti.

d - Si può dire che esiste un "cenacolo" potentino?

r - Non saprei se definirlo "cenacolo" o meno, ma certamente c’è un movimento, che sta nascendo.

d - Quali sono i rapporti tra di voi? Sa, la nostra è anche la città dei “giardinetti” che spesso ciascuno tende a coltivare in solitaria. C’è competizione? Vedo che alcuni di voi spesso postano sui social foto di enormi coppe vinte ai concorsi di poesia, e sembra che siate reduci da un qualche torneo di tennis.

r - (Ride) Sì, in effetti io sono uno di quelli. Ma, sa, essendo tifoso della Fiorentina, e come tale vincendo ben poco, almeno qualche volta mi posso esibire con un qualche bel trofeo! Tornando seri, beh, io ho rapporti di amicizia con quasi tutti, con alcuni di quei poeti siamo amici fraterni. Ultimamente ho partecipato a questo volume collettivo, “Jazz Club”, che ha coinvolto alcuni di noi poeti lucani e poi adesso c’è una forma “polifonica” di approcciarsi alla poesia, non più individualistica. Ciò che ci lega è l’amore per la cultura e per la bellezza.

d - E invece come venite percepiti in città? C’è ancora quella visione che vuole la poesia da un lato come una forma d’arte elitaria, o dall’altro come un genere in cui ci si infilano un po’ tutti?

r - Sono consapevole che un poeta, o un sedicente tale, possa essere percepito in maniera particolare, ci sta, comunque si avverte in città l’avvicinarsi di molte persone a questo mondo, grazie a coloro che lo praticano. La cosa più bella nello scrivere poesie non è partecipare ai concorsi, vincere trofei o vendere migliaia di libri (beh, se accadesse non sarebbe male), ma l’essere letti, riuscire a comunicare qualcosa.

d - Il famoso “scrivere per se stessi” è dunque una coperta del soldato.

r - Può anche esserci, all’inizio, ma se poi non c’è un messaggio che arriva a qualcuno, si rimane nel proprio limbo. Personalmente, per quanto riguarda la mia esperienza di “amante della poesia”, più che di “poeta”, mi sento felice quando qualcuno mi fa sapere che un mio verso gli è rimasto impresso, perché magari lo ha riportato a qualcosa. In quel momento mi sento felice.

d - Quindi, “tutto bene madama la marchesa”? L’ambiente culturale potentino la soddisfa o ritiene, magari, che ci potrebbero essere più spazi, occasioni e attenzioni?

r - Cerco di vedere le cose in positivo, è nella mia natura. Gli spazi per chi ama la poesia ci sono, e credo anche le occasioni, un po’ per tutti; penso al Polo Bibliotecario (con l’ottimo direttore Luigi Catalani), al Jazz Club, al Palazzo della Cultura. E potrebbero anche esserci nuovi spazi, certo, e me lo auguro.

d - Lei pensa positivo, ma io voglio farle dire una cosa cattiva. Anzi, facciamo così: mi dica qual è l’aspetto più poetico della nostra città, e poi quello meno poetico.

r - L’aspetto più poetico a mio avviso è legato alla natura, alla bellezza del posto, ai paesaggi, alla possibilità di vedere queste montagne che ci circondano, magari innevate. L’aspetto meno poetico, ahimè, è legato ai problemi che affliggono la nostra città. Io un pensiero ce l’ho sempre per i giovani; vorrei che ci fossero sempre più spazi per loro, che non si sentissero più soli e senza motivazioni. Spero ci possa essere un aspetto poetico sempre crescente anche per loro, senza dimenticare – ovviamente- gli anziani. Spero si possa, intanto, costruire in questa città, perché il rischio spopolamento c’è –diciamocelo- al pari di tanti problemi che non sto qui a elencare. Bisogna cercare di vedere il bicchiere mezzo pieno, ma i ragazzi bisogna comunque coinvolgerli, nel mondo della cultura, dello sport e certamente in quello del lavoro.

d - C’è il titolo di una poesia, sua o di un altro autore, che potrebbe adattarsi al momento vissuto dalla nostra città e dalla nostra regione?

r - Una mia poesia a cui tengo molto, anche perché dedicata a mio padre, è “Domani”. Ecco, sempre in un discorso di prospettive future, spero che anche per noi ci sarà un bel domani. Citando un altro autore, direi “Sognai”, di Evtušenko. In questo sogno del poeta c’è la possibilità che tutti possano avere pari condizioni e opportunità per vivere ed esprimere se stessi.

d - Chiudiamo con un passaggio su suo padre, Domenico, che è stato anche sindaco di Potenza. Quando ho avuto modo di parlarne con alcuni cittadini, ho spesso sentito ripetere «una brava persona». Brave persone lo sono state e lo sono anche gli altri, ma perché, secondo lei, è la prima cosa che dicono di suo padre? E’ stato anche un buon politico o magari viene ricordato soprattutto per la sua umanità?

r - Sottoscrivo, non senza un pizzico di orgoglio: papà era sicuramente una brava persona. Mi è rimasto il suo grande senso dell’umorismo, quella sua grande capacità, carismatica, di ridere e far ridere gli altri con una battuta. Era una persona di profonda moralità e umanità, riconosciuta dai clienti, ed è una cosa che ancora adesso mi emoziona. Come politico? Sicuramente, come sindaco, era “nuovo”, ma credo che abbia fatto bene; specie nel momento storico (1995-99) in cui si è trovato, e con i mezzi che aveva la nostra città. Credo abbia fatto tutto quello che si poteva fare per ridare dignità al capoluogo.

d - Potrà mai rispondere, lei, a quel tipo di chiamata?

r - Al momento, non è nei miei progetti. L’esperienza di mio padre l’ho vissuta con grandissimo entusiasmo, all’inizio, nella fase delle elezioni; tuttavia, essendo papà una persona sensibile, ho vissuto anche la sua amarezza, alla fine di quella esperienza (pur rimanendo sempre amato e ben voluto dai cittadini, anche come amministratore). E forse ho ereditato anche quella sensazione, per cui, non mi sentirei pronto a vivere un’avventura politica.

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di Walter De Stradis

 

 

 

 

E’ parroco della chiesa di “SS. Pietro e Paolo” da meno di cinque anni, ma lui in quel quartiere (Rione Francioso, a Potenza) c’è cresciuto, e quella parrocchia l’ha vista nascere, a metà anni Settanta. Prima di entrare in seminario, ci racconta, ha lavorato a lungo, cominciando da ragazzino, come garzone in una salumeria. Don Antonio Palo, insomma, è uno che la vita la conosce bene, e forse anche per questo, da ben quindici anni, è protagonista di un intenso dialogo con i ragazzi dell’Istituto Penale Minorile di Potenza, ove ricopre il non facile ruolo di cappellano.

d - Una decina di anni fa, da cappellano della chiesa “del Risorto”, situata presso il cimitero di Potenza, lei salì agli onori della cronaca per avervi celebrato un battesimo. Sempre in quel periodo, un’altra notizia che la riguardò fu il suo rimprovero rivolto a una giovane che si era presentata al cimitero indossando dei pantaloncini, a suo dire, troppo corti.

r - Senza arrabbiarmi, le feci notare che non era opportuno presentarsi così. E oggi lì non farei solo un battesimo, ma anche dei matrimoni. In realtà già allora molte coppie me lo chiedevano; io facevo presente che, in quella location, le foto non sarebbero state il massimo, e loro ribattevano che il matrimonio sarebbe avvenuto in una chiesa, e non al cimitero. E magari per loro era anche un modo di omaggiare i parenti che riposavano nei pressi. Ho però dovuto sempre declinare, per ragioni burocratiche (la chiesa all’interno del cimitero monumentale fa comunque parte della parrocchia di San Rocco).

d - E in merito alla questione del vestirsi in modo “appropriato” nei luoghi di culto, la situazione è peggiorata secondo lei?

r - Sì, tantissimo. Non ho bisogno di andare al cimitero per ritrovarmi in simili circostanze. Di solito, con educazione, faccio notare che c’è una sacralità (anche se in quel famoso caso i giornalisti gonfiarono). Ma, come accennavo, oggi è sufficiente recarsi a un matrimonio, o che il termometro salga sopra i ventitré gradi, affinché anche nella messa domenicale “si sfori”. E io la ringrazio della domanda. Pensi che oggi, nella mia chiesa, ci sono signore ortodosse dell’est, badanti, che durante la messa indossano il velo.

d - E lei se lo aspetta anche dalle parrocchiane del quartiere?

r - Non è che me lo aspetto, ma sarebbe bello. Da un velo in testa, capisci che c’è una coscienza del sacro: non puoi presentarti in mezze maniche. Non c’è nulla di cattivo, di rigoroso o di estremista in questo mio desiderio. anzi, se dovesse succedere, sarebbe un richiamo anche per me. Non lo chiedo, ma mi farebbe piacere.

d - Lei, da quindici anni, è anche cappellano al carcere minorile…

r - “PIM, Istituto Penale per i Minorenni”. Sostituisce quello che una volta era il riformatorio di Avigliano.

d - C’è una cosa che, in tutti questi anni, i ragazzi hanno insegnato a lei?

r - Una cosa sola sarebbe poca. Sa, all’inizio della detenzione, sono tutti ancora un po’ “infuocati”, però poi, a un certo punto, ti fanno capire cos’è la paternità. Proprio così. Loro la cercano, questa figura, perché probabilmente non l’hanno avuta. E questa cosa contrasta un po’ col prete messo sempre un po’ alla gogna perché “non sa cosa vuol dire essere genitori”. I ragazzi che sono lì detenuti, ti aspettano, e tu capisci qual è la responsabilità dell’esser padre: attendono una tua parola, e tu gliela devi dare. Magari il giovane ti racconta per dieci volte la stessa cosa, ma da te si aspetta una risposta diversa ogni volta, e tu gliela devi dare. Per me è una vera e propria presa di coscienza, questa.

d - Immagino intrattenga anche rapporti con ragazzi che sono usciti e sono diventati adulti.

r - Certamente. Tenga conto che si esce da un percorso fatto di lavoro di equipe (a cominciare dalla direttrice Angela Telesca, per arrivare alle educatrici e agli agenti di polizia penitenziaria). La cosa più simpatica è che, una volta che sono usciti fuori, ti capita di incontrarli “da uomo a uomo”, per prendere un caffè al bar. Non pensavi mai potesse accadere, e invece sei lì al bar a parlare, non del passato, ma del presente e del futuro. E magari, in quella occasione, se prima non l’avevano fatto, loro prendono piena coscienza di cosa significa essere un sacerdote e di tutti gli impegni che questo comporta.

d - Sono episodi che rappresentano la speranza.

r - Eccome. Specie in un mondo che getta la spugna. Con loro, per la verità, non è sempre facile, e possono scoraggiarti, ma io mi dico: se non porto loro la speranza, che ci vado a fare?

C’è un luogo comune, su questi ragazzi, che si può sfatare?

r - La ringrazio anche per questa domanda. Innanzitutto le parole sono importati: io parlo sempre di “istituto” e mai di “carcere”. Poi ci sono i ragazzi che hanno maturato la possibilità di avvalersi di alcuni permessi e vanno a lavorare fuori: tuttavia mi dicono sempre che si sentono percepiti come dei "detenuti messi alla prova", a mai come "camerieri", "muratori", etc. Questo è da sfatare. Per me sono “i ragazzi”, per voi fuori sono “i detenuti”. Già cambiando il linguaggio, si può infondere speranza.

d - Veniamo alla situazione del suo quartiere, rione Francioso. I costanti report della Caritas diocesana (Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo) parlano in generale di una povertà “sociale” in crescita, vale a dire solitudine e abbandono.

r - Nel quartiere c’è un alto tasso di persone anziane, in pensione, che stanno a casa. Ahimè, di funerali ce ne sono. La prima generazione del quartiere –nella quale sarebbe stato compresa mio padre- ormai sta sparendo. Io abito nel quartiere dal 1968 e lo conosco come le mie tasche, al pari della storia della chiesa. Registro però una sorta di ritorno: le tante case sfitte o vuote cominciano a essere vendute. Attualmente ho ottanta bambini al catechismo. Ciò, però, non toglie il problema degli anziani soli, che sono quelli con i figli andati via da Potenza. A volte finiscono nelle case di riposo. Nella nostra parrocchia, l’assistenza Caritas c’è, ma aiutiamo anche persone che provengono da altri quartieri (anche perché siamo in contatto con le parrocchie vicine). C’è poi il discorso “dignità”: ci sono dei casi di indigenza, ma non vengono fuori, anche se noi abbiamo un centro di ascolto con operatori professionali. A volte, c’è anche una cattiva gestione della povertà: capita di imbattersi in persone che chiedono aiuto, e però poi scopri che in casa hanno una Tv 55 pollici da milleduecento euro. Il fatto che lo paghino a rate non cambia di una virgola il discorso. E allora, di fronte a tali situazioni, devi fare il "muso duro", e ne esci pure con le rossa rotte, perché poi ti accusano di non voler aiutare.

d - Alla politica locale, invece, cosa chiederebbe?

r - Beh, basta arrivare alle otto di mattina, per capire che in piazza Francioso c’è un problema parcheggi. Il Comune ha investito nei giardinetti di Via Nazario Sauro, ma attorno alle dieci di sera, è possibile vedere dei diciottenni che ci giocano e che prima o poi li romperanno. Si rende quindi necessaria la manutenzione (e una telecamera), ma anche creare una coscienza. E come si fa? Certi genitori mi portano i bambini al catechismo, ma esigono che escano prima per non fare tardi al calcetto! Sa, il figlio deve diventare titolare, e allora…

d - Adesso diranno che la chiesa dà la colpa alle famiglie.

r - Non do colpe, ma guardi, alcuni genitori mi contestano i quindici euro per l’iscrizione al catechismo (comprensiva di colori, carta, materiale ludico), ma poi spendono centottanta euro al mese per far giocare i figli al pallone.

d - Concludiamo con qualcosa da dire al governo regionale.

r - Senta, abbiamo innanzitutto stravolto i nostri confini naturali (“Vallo della Lucania” non si chiama così tanto per, e discorso simile si può fare per la “Gravina” di Matera). Ma ormai, quando si parla di Potenza, si parla di Campania, e con Matera si parla di Puglia. E pertanto, se dico alla politica lucana “Ridateci la nostra Basilicata!”, ci fanno una bella pernacchia in faccia. Quindi, cosa chiedere più alla politica? Hanno scavato  la Val D’Agri…e quando i petrolio sarà finito cosa ci rimarrà dei pozzi? Chi andrà più a piantare da quelle parti? Eppure questa era stata un’esperienza già collaudata come fallimentare, basti pensare a Pisticci, alla Liquichimica di Tito Scalo. Non contenti, abbiamo scavato la Val D’Agri per il petrolio. E adesso, lei, mi domanda “cosa chiedo alla politica???”.

 

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“E’ con grande soddisfazione che accolgo la notizia della presenza di due donne particolarmente valenti e capaci, Maria Rosaria Sabia e Margherita Sarli, fra i nuovi vertici degli enti sub-regionali individuati dalla giunta presieduta dal governatore Vito Bardi.

Si tratta di due figure di conclamata professionalità e rimarchevole senso delle istituzioni.

Maria Rosaria Sabia, chiamata alla guida dell’Arlab (Agenzia regionale Lavoro e Apprendimento), è stata dirigente regionale all’Ufficio Politiche per il lavoro della Regione Basilicata e nella sua carriera professionale ha maturato una notevolissima esperienza, che l’ha vista curare l’elaborazione e la divulgazione di studi e pubblicazioni sull’andamento del mercato del lavoro locale e predisporre note informative e approfondimenti tematici.

Margherita Sarli, neo direttrice generale dell’Apt (Agenzia di promozione territoriale), è una nota giornalista professionista, organizzatrice, curatrice e moderatrice di un gran numero di eventi regionali volti alla promozione del territorio. E’ inoltre autrice, social media manager e vanta un decennio di attività nel ramo della comunicazione e delle relazioni istituzionali.

Tuttavia, la soddisfazione per queste due nomine si accompagna allo sdegno e al rammarico dovuti ad alcune stucchevoli polemiche, consumatesi anche a mezzo stampa, circa la vicinanza sentimentale della dottoressa Sarli a un importante esponente della politica regionale. Ritengo, senza mezzi termini, che sia da Medioevo, e cioè degno dei secoli bui, etichettare o bollare la nomina di una rispettata professionista, esclusivamente perché questa è, o è stata, legata sentimentalmente a una persona che ricopre cariche politiche. Va da sé, che se passasse questo principio, equivarrebbe a negare a priori alle persone capaci, e di conseguenza ai territori interessati, la possibilità di svolgere ruoli apicali e fondamentali per la propria terra. Francamente, sorprende dover ancora assistere nel 2025 a simili polemiche, sterili, ma preconcette, che cercano appigli nel gossip più trito, laddove non ne trovano nella sostanza dei fatti.

Il faro guida in tali ambiti, come già dimostrano le citate nomine effettuate dalla giunta regionale, deve essere quello della competenza e il comune sforzo deve costantemente andare nella direzione di favorire le donne nell’ascesa ai posti apicali, per vincere il divario di genere, contrastando, si spera una volta per tutte, gli stereotipi e i pregiudizi”.

Lo dichiara la Consigliera regionale di parità, Ivana Pipponzi.

 

 

 

 

 

 

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clikka sulla foto per guardare il video di LUCANIA TV

 

 

di Walter De Stradis

 

 

 

 

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islessia: semplicemente un differente modo di imparare, che all’inizio si manifesta anche come un apprendimento lento. E’ come se una persona dovesse imparare a guidare avendo a disposizione un’auto di Formula Uno e strade tortuose».

E’ quanto ho modo di leggere sulla brochure che mi ha consegnato, poco prima del pranzo, Marcella Santoro, una signora gioviale e loquace, presidente dell’AID, Associazione Italiana Dislessia, per la Basilicata.

d - Vorrei partire dai contenuti di un video che è diventato virale sui social, In questa clip, il presentatore Flavio Insinna, se ben ho interpretato, sostiene che l’uso ad ogni costo di un linguaggio “politicamente corretto” (“ragazzi speciali” etc.), in riferimento alle persone che vivono un disturbo, può far passare in secondo piano il fatto che “c’è bisogno di aiutare”. Cosa ne pensa?

r - Non ho visto il video, ma bisogna capire cosa significhi “bisogno di aiuto”. Nel caso della dislessia si parla di persone normalissime. Nel 1998, aderendo all’AID, sono stata la prima iscritta della Basilicata, perché ho un figlio dislessico, che sicuramente ha un diverso modo di apprendere, però come tutti noi, del resto. Non è né “speciale”, nè "handicappato", quindi, ma una persona che deve seguire le proprie modalità di apprendimento. E’ dunque un ragazzo che, come tutti, dovrà trovare la propria strada nella vita. Il problema vero è che dagli anni Novanta, a oggi, la situazione è notevolmente cambiata; il lavoro svolto sul territorio dall’associazione (fondata dal professor Giacomo Stella, psicologo e genitore di un ragazzo dislessico) è stato quello di far capire all’opinione pubblica cos’è un DSA, un disturbo specifico dell’apprendimento (dislessia, disortografia, discalculia etc.). Il problema è la scuola, che deve capire come aiutare questi ragazzi, anche perché, dal 2010, da quando c’è la legge 170 , con le linee guida uscite l’anno successivo, l’istituzione stessa sa come dovrebbe fare.

d - Quali sono i dati circa le persone dislessiche in Basilicata?

r - Abbiamo a disposizione i dati che ci ha fornito l’Ufficio scolastico regionale, col quale abbiamo un ottimo rapporto di collaborazione, soprattutto con la dottoressa Antonietta Moscato, che si occupa di disabilità e dislessia a livello regionale. Nell’anno scolastico 2023/2024, su una popolazione scolastica totale di 69.288 studenti, gli alunni certificati sono 2.801. Si tratta quindi di una percentuale del 4,04, che si avvicina alla media nazionale che è tra il 4 e il 5%. Si consideri, però, che nel passato avevamo dei dati molto bassi, perché le famiglie avevano magari paura di etichette, e c’era meno consapevolezza.

d - La Basilicata, storicamente, è stata la prima regione a dotarsi di una legge regionale sui DSA.

r - Sì, la legge 20 del 2007 (“Interventi in favore di soggetti affetti da dislessia e da altre difficoltà specifiche di apprendimento” - ndr).

d - Mi diceva a microfoni spenti, però, che i finanziamenti sono fermi.

r - Sì.

d - Cosa prevede questa legge?

r - Questa legge è intervenuta nei primi anni grazie al finanziamento di cui era dotata (se non sbaglio 100mila euro). E’ stato quindi possibile fare degli interventi a livello di aziende sanitarie (Potenza e Matera), che addirittura erano sfornite di computer, programmi, testistica aggiornata. Poi, per tre anni, ci furono (perlomeno con l’ASP), degli screening “non medici”, tramite dei dettati che vennero somministrati ai bambini di classi scelte in tutta la provincia di Potenza. Successivamente ci fu una grande collaborazione tra Asp, Ufficio scolastico, insegnanti, con delle logopediste che intervenivano nelle scuole a supporto di quei bambini che avevano manifestato delle difficoltà. A fine anno scolastico veniva poi somministrato un ulteriore dettato, per verificare quanto quegli interventi avessero apportato dei benefici, e risultò che il numero dei bimbi in difficoltà era notevolmente diminuito. Per cui, soltanto in riferimento ai bambini che mostravano ancora delle difficoltà, si suggeriva alle famiglie di portarli a diagnosi. Queste, a loro volta, non certificano una malattia, ma escludono la presenza di altro genere di difficoltà, visive o auditive, il che porta a concludere che il bambino è dislessico.

d - Ora tutto questo è fermo ?

r - Sì, questo screening non è stato più ripetuto, la legge non è stata più finanziata. Dopo si è andati avanti, per molti anni, grazie al capitolo inserito, a favore dei ragazzi dislessici, nell’ “Aiuto allo studio” (acquisto di strumentazione, computer e altri software, come la sintesi vocale).

d - La vostra attività quindi è rivolta anche a far ri-finanziare questa legge.

r - Il nostro intervento, riferito alla politica e sopratutto alla Regione, è affinché si diminuiscano i tempi di attesa, per la diagnosi e per la riabilitazione logopedica. Le liste sono praticamente bloccate da tre/quattro anni. Se una famiglia potentina fa richiesta di una prima visita, rischia di averla tra un anno. E questo, per il bambino, che dovrà lavorare senza poter avere degli strumenti, comporta un anno di scuola perso.

d - Prima diceva che in passato, nei genitori stessi, c’era meno consapevolezza. Oggi la situazione è cambiata?

r - Con tutto il lavoro svolto dal 2002, da quando abbiamo inaugurato la sezione di Potenza, ormai se ne sa tanto in materia, a meno che uno preferisca non interrogarsi sulle difficoltà scolastiche del figlio. La scuola ha fatto passi da gigante; la sanità, a livello di professionisti, ormai sa distinguere un ragazzo che ha difficoltà, da un altro che ha differenti problematiche. Il problema è la situazione in Italia, che è notevolmente peggiorata, a seguito della legge nazionale 170/2010 (“Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico” - ndr). A prescindere dagli insegnanti capaci, che sempre ci sono e ci saranno, l’adozione dei PDP, Piani Didattici Personalizzati (che, attenzione, non sono i Piani Educativi Individuali della legge 104), non funziona dappertutto, e ci sono istituti in cui questi PDP vengono fatti uguali per tutti, in stile fotocopia.

d - E’ una legge sbagliata?

r - Non è la legge a essere sbagliata, ma invece di fare di più, come si dice, in realtà si fa meno. La famiglia spesso delega troppo alla scuola, non collaborando e non intervenendo, e viceversa. Il problema è questo. In presenza di una scuola che attiva il PDP, lo fa firmare alla famiglia, e poi non lo applica, se dietro non c’è una famiglia attenta (che magari si lamenta che le interrogazioni programmate non vengano effettivamente svolte), diventa un problema. Le famiglie, molto spesso, ci contattano a fine anno scolastico, quando ormai è chiaro che il figlio verrà bocciato. Collaborare con la scuola non significa soltanto andarsi a lamentare verbalmente, o ricordarsi di un’associazione soltanto quando il ragazzino viene bocciato o porterà dei debiti scolastici. Bisogna invece far comprendere alla scuola che ciò che viene messo per iscritto deve essere attuato: un PDP, che viene stilato entro i primi tre mesi dell’anno scolastico, può inoltre essere rivisto, se non dà i suoi frutti.

d - Riassumendo, oggi cosa chiedete alla politica?

r - Alla politica regionale chiediamo che si intervenga sui tempi di attesa e che magari si rifinanzi la legge 20, per dare una mano ai ragazzi. Questa legge, inoltre, può intervenire nei bandi regionali; devono rendersi conto che nei bandi per le assunzioni deve essere inserito anche un ragazzo dislessico, e questo purtroppo, non viene mai fatto.

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di Rosa Santarsiero

 

 

Presso la nuova sala conferenze dell'ispettorato territoriale del lavoro di Potenza e Matera, sede di Potenza, è stato siglato un importante protocollo d'intesa tra la Consigliera regionale di Parità della Regione Basilicata: l'avvocata Ivana Enrica Pipponzi e lo stesso Ispettorato del lavoro rappresentato dal suo direttore: il dottor Michele Lorusso. L'obiettivo del prezioso documento attiene alla tutela e alla salvaguardia della parità di genere in ambito lavorativo.

Si tratta di un percorso di collaborazione, quello tra gli uffici della Consigliera di Parità e dell'Ispettorato territoriale del lavoro, iniziato anni addietro, precisamente nel 2017, e che pian piano sta producendo risultati significativi. L'accordo illustrato in occasione di una accorsata conferenza stampa presenta al suo interno una significativa novità: l'inclusione dei due presidenti dell'Ordine dei consulenti del lavoro di Potenza e Matera, rispettivamente il dottor Mario Spagnuolo e il dottor Sergio Raffaele Sasaniello, proprio in qualità di elementi di maggiore prossimità rispetto alle piccole, medie e grandi aziende che operano sul territorio.

Consigliera Pipponzi. Il protocollo d'intesa sulla parità di genere in ambito lavorativo è un appuntamento che si ripete, una collaborazione fruttuosa per le tante donne, madri lavoratrici e non solo. Che tipo di bilancio si può tracciare rispetto a questa intensa collaborazione?

Si tratta di un protocollo che muove certamente in continuità rispetto a quello stilato nel 2017 con lo stesso Ispettorato, tuttavia questa volta abbiamo annoverato anche i consulenti del lavoro, così come è già stato fatto in ambito nazionale dalle medesime figure istituzionali coinvolte. È fondamentale che tutte le autorità preposte al contrasto di ogni forma di discriminazione in ambito lavorativo si uniscano e collaborino in maniera sinergica, ciò non solo per un mero scambio di informazioni, ma anche per una più ampia diffusione di buone pratiche. La promozione della certificazione della parità di genere nelle aziende e il Welfare aziendale sono solo alcuni dei tanti esempi sui quali fondare una linea d'azione a favore di una parità salariale retributiva, al sostegno della maternità o riguardo la conciliazione dei tempi di cura e tempi di lavoro. Ci saranno, pertanto e ciò vale sia per l'ufficio che rappresento sia per l'Ispettorato- delle attività di controllo e vigilanza sulle aziende alle quali è affidato il compito di redigere un rapporto biennale sulla situazione del personale e, soprattutto, nei confronti delle stesse attività che si certificheranno. Bisognerà che tali realtà produttive facciano molta attenzione a mantenere i parametri richiesti e che non incorrano in discriminazioni di genere nei confronti dei propri dipendenti. Entrambi gli uffici vigileranno e avranno il compito di produrre segnalazioni al Ministero del Lavoro, con eventuali revoche della medesima certificazione nei casi più gravi. Il divario di genere in merito all'occupazione nella nostra regione è pari a circa il 36%. Negli ultimi mesi è aumentata l'occupazione femminile, è vero, ma è sempre ben al di sotto degli standard europei. Certo il cammino è ancora lungo, ma è anche grazie a queste misure che possiamo sostenerne l'evoluzione.

Direttore Lorusso, quali sono le novità introdotte dal protocollo?

Oltre alla consolidata presenza della Consigliera regionale di Parità, Pipponzi, è doveroso per me citare anche la cosiddetta presenza “sociale” di coloro che ogni giorno si interfacciano e dialogano con i datori di lavoro e i lavoratori, vale a dire i consulenti del lavoro rappresentati qui dai due presidenti di Potenza e Matera. È chiaro che gli anni di collaborazione con gli uffici della Consigliera di parità indicano che tanto è già stato fatto sì, ma che molto altro resta da scardinare all'interno della società. L'impegno dell'Ispettorato, pertanto, riguarda la piena tutela della donna lavoratrice: a parità di lavoro e mansioni si richiede altrettanta parità di salario.

 

 

 

 

 

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di Walter De Stradis

 

Dopo l’intitolazione del reparto di Endoscopia Digestiva tenutosi nelle settimane scorse al Crob Rionero, un altro grande evento, questa volta nel capoluogo, celebrerà la figura, la memoria e il messaggio di un medico come il dottor Orazio Ignomirelli, noto gastroenterologo lucano, scomparso nell’ottobre scorso, dopo aver dedicato tutto se stesso alla cura dei pazienti oncologici. L’evento si terrà, il 25 gennaio prossimo, presso il Due Torri di Potenza e vedrà la partecipazione dell’Orchestra della Magna Grecia e del cantautore Francesco Sarcina (Le Vibrazioni).

Il concerto, nelle intenzioni degli organizzatori (patrocinato, tra gli altri, da Croce Rossa e Ant), servirà a sensibilizzare gli Enti preposti e l’opinione pubblica sulla necessità di migliorare le condizioni di cura e supporto ai malati oncologici in difficoltà. I fondi raccolti durante il concerto saranno destinati a fornire supporto economico per le spese farmaceutiche non coperte da rimborsi per pazienti oncologici e cronici in difficoltà.

Per saperne di più, abbiamo incontrato la signora Antonella Altomonte, insegnante, moglie del compianto Orazio Ignomirelli, e Pasquale Di Tolla, ideatore dell’evento, nonché segretario SILP – CGIL (Sindacato Italiano Lavoratori di Polizia ).  

D: Signora Antonella, la prematura scomparsa di suo marito è stata accompagnata da una grossa eco, sia umana sia mediatica (giornali e social). Si aspettava questa sorta di afflato popolare?

R: Sinceramente no, anche se sapevo che Orazio era apprezzato da tutti, tanto nell’ambiente professionale quanto in quello cittadino e non solo. Molto del calore che lui trasmetteva ai pazienti, gli è stato restituito largamente, nei giorni della sua dipartita. Orazio era sempre molto attento alle tematiche delle persone più fragili, più deboli -sia economicamente sia in termini di salute- e questo, come dicevo, gli è stato restituito nel corso di questi mesi trascorsi dalla sua scomparsa.

D: Nel corso della sua malattia, suo marito ha avuto ulteriore modo di interrogarsi e riflettere sulle difficoltà e problematiche in cui possono incappare i pazienti oncologici, specie quelli meno abbienti. Uno degli scopi del Memorial, infatti, è anche quello di rimarcare che un decorso di patologia oncologica necessita anche dell’utilizzo di farmaci, non tutti coperti dal SSN.

R: Sì, infatti. Negli ultimi mesi della sua malattia, nonostante Orazio avesse i suoi problemi, si preoccupava di scrivere su Facebook un post -che ormai conoscono quasi tutti- in cui diceva, appunto, che i farmaci che ogni giorno bisognava comprare erano tanti, per poter curare tutti quei fastidi che, purtroppo, comportava l’uso dei farmaci chemioterapici, ma non solo. E quindi, come dicevamo, si rendeva conto di tutte le difficoltà che potevano avere i pazienti, soprattutto quelli meno abbienti: la stessa ambulanza, che lui utilizzava spesso per andare in ospedale, aveva un costo, il che lo portava a chiedersi come avrebbe potuto accedere a certi mezzi chi aveva difficoltà ad arrivare a fine mese.

D: Più in generale, anche attraverso la sua carriera di medico, c’era un messaggio che suo marito ha inteso lanciare?

R: In quel post lui scrisse: «Siate illuminati». E si rivolgeva soprattutto alla sanità lucana, ai responsabili, a tutti quelli che lavorano negli ospedali. Lo stesso invito, a essere illuminati e ad avere un cuore grande (per i bisognosi e i malati in genere), Orazio l’ha scritto in una lettera che ha lasciato allo staff del suo reparto al Crob.

D: Il frequente ricorso al termine “illuminati” presupponeva che ci fosse qualche aspetto un po’ più in ombra nella sanità lucana?

R: Sicuramente lui si poneva il problema, proprio perché la sanità non è “illuminata” nei confronti delle fasce più deboli e in difficoltà.

D: A suo marito, alcuni giorni fa, è stato intitolato il reparto di Endoscopia Digestiva del Crob.

R: Sì, il suo reparto. La famiglia ha apprezzato tantissimo, davvero. E anche questo gesto non ce lo aspettavamo, anche se lui aveva lavorato lì per tanti anni; non era però un atto dovuto, ma sono state apprezzate la sua professionalità, umanità e sensibilità. E noi ne siamo grati.

D: Un esempio che un giovane medico, o anche non giovane, deve trarre dalla testimonianza di vita di suo marito?

R: In primis la disponibilità all’ascolto. Purtroppo l’ho sperimentato anch’io, quando ne ho avuto bisogno: i medici non sempre guardano in faccia il paziente. E infatti una signora in cura da Orazio ci ha inviato un messaggio in cui lo definiva “Un medico che guardava in faccia i pazienti e li ascoltava fino all’ultimo”. Ecco, questo è l’esempio che i medici dovrebbero far proprio.

 

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D: Pasquale Di Tolla, quando e come nasce l’idea di questo primo memorial?

R: Nasce proprio dal famoso post che il dottor Ignomirelli pubblicò sul suo profilo Facebook, due/tre mesi prima la sua scomparsa. Come diceva Antonella, lanciava questo grido di allarme. In realtà, poiché Orazio -come me- era molto impegnato nel mondo della beneficenza e della solidarietà, con lui c’eravamo già incontrati, ponendo le basi per organizzare un concerto e raccogliere dei fondi. Poi, per varie ragioni, non si riuscì, ma a seguito della scomparsa di Orazio maturò l’idea di organizzare il Memorial, onde rilanciare il suo messaggio e ricordare la sua figura di grande professionista, stimato in tutta la comunità lucana anche e sopratutto come uomo. Abbiamo dunque condiviso questa idea con la famiglia, che è stata ben felice di organizzare insieme a noi questo memorial.

D: Ci sarà dunque questo spettacolo, al Due Torri qui a Potenza, con una “line-up” di eccezione, Francesco Sarcina (vocalist de Le Vibrazioni), accompagnato dall’Orchestra Sinfonica della Magna Grecia. Come ha “arruolato” Sarcina per la causa?

R: Lui è molto legato al nostro territorio, in quanto a maggio aveva preparato qui a Potenza il tour estivo, tenendovi anche il “concerto zero”. Più volte era stato in Basilicata per iniziative benefiche, per le quali è molto sensibile, e quindi si è reso subito disponibile. Ho avuto modo di vedere questo concerto a Matera lo scorso anno, ed è stato bellissimo, e lo ha riproposto anche al “Petruzzelli” di Bari, facendo sold-out. E’ qualcosa di spettacolare: l’Orchestra, diretta dal maestro Nigro, è composta di ben cinquantuno elementi. Insomma, è un cast eccezionale.

D: Il ricavato a chi andrà?

R: Abbiamo scelto la Croce Rossa, proprio perché il suo motto è “Aiuta”. E loro lo fanno, venendo in soccorso alle famiglie in difficoltà economica; pertanto gestiranno i fondi rivenienti non solo dalla vendita dei biglietti, ma anche dalle donazioni che i cittadini vorranno fare (allo scopo è stato aperto un conto corrente dedicato). L’obiettivo è aiutare le famiglie bisognose, in cui c’è un malato oncologico, e che hanno bisogno di cure mediche e di visite specialistiche.

D: In effetti in Basilicata, come in altre parti d’Italia, c’è anche la questione delle liste d’attesa.

R: Noi speriamo che il 25, la classe politica venga (sono stati regolarmente invitati) per portarci una buona notizia. Quest’anno ce ne siamo occupati noi, ma ne prossimi anni magari sarà proprio la Regione Basilicata a mettere a disposizione alcuni fondi per chi ne ha bisogno.

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