- Redazione
- Sabato, 14 Giugno 2025 07:41
«M |
i definisco una “suonatrice di arte”, perché vengo dallo studio accademico e quindi dalla tradizione classica; tuttavia, a un certo punto, ho intrapreso lo studio della tradizione dei "musicanti girovaghi", sia dal punto di vista puramente musicale sia soprattutto antropologico. Da quel momento c’è stata una svolta totale nel mio approccio alla musica e all’arte in generale».
Si definisce una “outsider”, l’arpista e cantante Daniela Ippolito, quarantaduenne nativa di San Mauro forte (Mt), che è stata anche una pupilla prediletta di Antonio Infantino, forse per la sua capacità di intonare i canti tradizionali con una voce a tratti davvero “contadina”. Ma sulle corde della sua arpa “viggianese” (procuratevi il cd “Disincantati incanti”, del 2021) persino il rock e il blues sono di casa.
d - Daniela, spendiamo due parole su questi “musicanti girovaghi”, ricordo in merito un bel testo di Graziano Accinni.
r - Questa tradizione -soprattutto tra Sette e Ottocento- ha caratterizzato inizialmente Viggiano, ma poi anche altri paesi della Val d’Agri e della Val Saurina. Non a caso si parla di suonatori di “arpe viggianesi” che hanno intrapreso viaggi “temporanei” alla volta del mondo, e non esagero. Ciò che li caratterizzava era il fatto di svolgere d’estate altri lavori (in particolare erano contadini), per poi d’inverno spostarsi, all’inizio soltanto alla volta di Napoli, e poi anche verso Parigi, a Londra, addirittura ci sono tracce in Russia e negli Stati Uniti d’America. E questo in un’epoca in cui anche spostarsi da una contrada all’altra era problematico. Le loro arpe “viggianesi” erano un po’ più leggere rispetto anche a quelle celtiche, ma era peculiare che loro le portassero a spalla.
d - Lei tuttavia è della provincia di Matera...
r - Già, ho conosciuto questo strumento quando ero in collegio a Matera e studiavo in conservatorio; circolava un cd (frutto delle ricerche del professor Pino Gala) con della musica “superstite” di questa tradizione (che in realtà alcuni davano per estinta già ai tempi della Prima guerra mondiale). E mi prendevano in giro perché io studiavo musica classica, con tanto di spartito. Pertanto sembrava quasi una sfida, il fatto di doverla suonare a orecchio, questa musica, ma poi col tempo è diventata la “mia” musica.
d - La sua musica è condita anche di altri generi, molto diversi. Le è mai capitato che qualche “integralista” le contestasse di suonare con l’arpa persino il rock?
r - Eh sì, è capitato perché ci sono gli integralisti nel mondo classico e ci sono gli integralisti negli altri generi musicali; ma quello che mi ha affascinato della tradizione è proprio il valicare tutti questi confini, non solo geografici, perché la musica evolve in maniera naturale ed è chiaro che se c’è uno scambio -persino anche un contrasto- tra generi musicali o esseri umani, ne nasce sempre qualcosa.
d - Pertanto è probabile che qualche arpista di Viggiano, trovandosi a New York, con l’arpa abbia suonato anche jazz.
r - Secondo me è probabile tutto: non abbiamo testimonianze scritte, però da ciò che si legge -soprattutto dai giornali e interviste coevi al fenomeno- si evince che quei giorvaghi alla fine erano in grado di suonare qualsiasi melodia ascoltassero. Ecco, mi piace credere -forse anche un po’ pretestuosamente- che loro abbiano per certi versi inventato quella che oggi chiamiamo “musica etnica”, o “world music”.
d - Una volta Viggiano e la Val D’Agri erano noti per i musicisti girovaghi, oggi per il petrolio: cos’è successo nel frattempo?
r - Io penso che si tratti del naturale cambiamento degli eventi; alla fin fine, una terra così piccola come la Basililicata sta evolvendo come sta evolvendo il resto del mondo, ci piaccia o meno.
d - I musicisti possono avere un ruolo in tutto questo?
r - Lo chiede alla persona sbagliata, perché io sono una “outsider” per definizione, proprio per il mio modo di approcciare la musica che è estremamente libero e anche “borderline”, mi conceda il termine.
d - Cioè la musica non deve per forza avere un significato, non deve essere per forza una forma di ribellione?
r - Secondo me, fare il musicista di professione -oggi come oggi- in una regione come la Basilicata, piena di associazioni senza scopo di lucro, è già una forma di ribellione.
d - Cosa vuol dire essere musicista professionista qui da noi?
r - Vuol dire combattere con la propria autonomia stilistica di pensiero e anche con il proprio esempio di vita, nel bene e nel male.
d - Le istituzioni aiutano i musicisti locali o il musicista non deve avere bisogno della politica?
r - Io penso che non debba avere bisogno della politica, credo che questo status di professionista lo si possa ottenere lavorando in autonomia, appunto con una partita IVA. Tutto il resto mi pare soprattutto un modo per non considerare come un lavoro quello del musicista. E, chiaramente, venendo io da quella tradizione in cui comunque la figura del “musicante” non era inquadrabile dal punto di vista giuridico, mentre di fatto rappresentava una forma di sostentamento, mi sento più vicina a quel mondo che a quello attuale.
d - Ma si riesce a vivere di musica in Basilicata?
r - Sì, se si riesce a guardare non solo alla Basilicata, ma anche a quello che offre il mondo. Rispetto ad altre regioni, diciamo che noto delle differenze nei meccanismi di ingaggio, perché quando mando un progetto fuori dalla Basilicata, la prima cosa che mi chiedono è se sono “in regola”, invece qui tutto passa un po’ ...così (sorride).
d - Il pubblico nostrano ama la tradizione solo alle feste e d’estate?
r - Nel pubblico lucano -pur proponendo degli spettacoli abbastanza “estremi” (arpa e voce "a nudo" non sono di facilissimo ascolto)- comunque noto che c’è tanto affetto e anche tanta voglia di conoscere ciò che fa parte delle origini, e c’è anche una sorta di orgoglio quando vengono recuperati canti antichi, e da questo punto di vista ho avuto sempre riscontri positivi qui in Basilicata.
d - In che maniera si è documentata sulla tradizione?
r - Come tutti, attraverso ricerche precedenti alle mie, tuttavia per quanto riguarda il canto tradizionale, non mi sono documentata, sono nata in un contesto, quindi per me è stato estremamente naturale riprendere quello che ascoltavo da bambina e che continuo ad ascoltare oggi in giro per le colline. Allora le mie vicine di casa cantavano a San Mauro, così come si cantava nelle cantine durante le feste, durante le processioni e da lì insomma è iniziata la passione per il canto.
d - In che misura oggi questa cosa esiste ancora, per esempio a San Mauro?
r - A San Mauro rischiava di sparire perché non c’era più la processione del Venerdì santo e neanche quella del Sabato santo, in cui era tradizione appunto cantare, però negli ultimi anni c’è stata una sorta di “presa di coscienza”, soprattutto da parte di quei pochi giovani, e si è ripreso a cantare anche alcuni temi tradizionali. Però ci sono anche dei paesi in cui fino a pochi anni fa si è continuato a cantare con i cori, tipo a Oliveto Lucano, ove c’era una tradizione di canti devozionali in dialetto magnifica, e alcune cose sono riuscita a recuperarle. Ci sono dei canti meravigliosi, commoventi, addirittura un rosario, un canto di devozione a Sant’Antonio, a San Cipriano...
d - Ecco, siamo giunti al punto. Tutto questo ricchissimo e variegato patrimonio lucano (che altrove ci invidiano) riusciamo -come politica, come associazioni, come artisti, come giornalisti- veramente a preservarlo e a promozionarlo come merita?
r - Io credo che valga molto di più l’iniziativa di ogni singolo suonatore, musicista, cantore, cantante eccetera, perché non si può sempre far conto su “forze esterne”, o dall’alto; bisogna comunque valorizzare quello che si ha e a un certo punto anche senza aspettative. Personalmente, ho notato proprio che quando si sono abbassate le aspettative ho lavorato in maniera molto più serena. Bisogna anche accettare un po’ l’idea che le cose possano cambiare e basta.
d - C’è un canto, una canzone che è sua o che lei esegue nei live, che in qualche modo dovrebbe fungere da colonna sonora di questa intervista?
r - Proprio perché siamo a giugno, mi viene in mente un canto su Sant’Antonio, di Oliveto Lucano. È molto, molto triste e commovente, ma a un certo punto fa emergere la vera pietas, come dire, il vero amore, la vera fede (ne canta alcuni passaggi- ndr). Mi fermerei su questa strofa, con questa donna che vede passare la giustizia, e cioè le forze dell’ordine, ma a un certo punto il figlio le muore. “Perché?” chiede a Sant’Antonio, e questi le dice che a quindici anni sarebbe stato impiccato, quindi, alla fin fine, le ha fatto una grazia. E come si dice, “O c’è grazia o c’è giustizia”.