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di Walter De Stradis

 

 

A Potenza, lui, Michele “Lello” De Novellis, settantaduenne con voce pacata e leggera inflessione partenopea, e la sua famiglia, in quanto gestori dello storico bar, sono molto conosciuti. Tuttavia in pochi, ci dice, conoscono il loro cognome. Per tutti, e da ottant’anni, sono “quelli della Stazione”.

D - Come giustifica la sua esistenza?

R - Nel Dopoguerra mio padre si trovò a dover gestire brevemente il bar della Stazione (oggi Centrale). Doveva essere una cosa di una ventina di giorni, ma poi è durata ottant’anni.

D - Quali sono i suoi primi ricordi del bar della stazione di Potenza?

R - All’epoca la Stazione era un terminal di trasporto, con la funzione di accogliere -cinquanta chilometri a sud e cinquanta chilometri a nord- tutti i paesini limitrofi. E poi sul piazzale c’era lo stazionamento dei pullman, che raggiungevano quei comuni non provvisti di fermata ferroviaria. Questo trasbordo continuo rendeva la Stazione molto accorsata e popolata. L’unica cosa che oggi resiste, insieme a noi, è il barbiere: tutti gli altri sono andati via, perché economicamente non ce l’hanno fatta.

D - Gli altri sarebbero?

R - La storica edicola, una biglietteria a largo raggio...una rimessa di noleggio.

D - Perché non ce l’hanno fatta? Per la crisi economica o magari perché la zona è stata tagliata fuori?

R - E’ stata tagliata fuori da quel vecchio progetto di viadotto che doveva collegare la zona della Stazione con la superstrada. Un pezzetto ne è rimasto davanti all’Anas, ma tutta quell’operazione si è rivelata essere opportuna per la costruzione delle cosiddette “due torri”, abitazioni civili che sono di fronte. Ne consegue che però è stata del tutto “tagliata” la vecchia scorciatoia, che -asfaltata e rimessa posto- collegava la Stazione, viale Marconi con il Rione Francioso. E dava un “circuito” alla viabilità. “Tagliata” quella, la Stazione è rimasta strada...chiusa. Immagino che anche i vostri, di affari, siano calati. Siamo a un terzo di quello che era prima il movimento, perlomeno rispetto agli anni Novanta.

D - Non avete mai fatto presente questa situazione a chi di dovere?

R - (Scuote la testa) Mi ricordo una citazione, sentita in Stazione, anche se non so a chi attribuirla: “Gente di Basilicata avvezza, da sempre, a gratuite riverenze”. Questa cosa un po’ è rimasta a tutti: quando si tratta di rivendicare qualcosa, ci sembra sempre di essere, non so, presuntuosi.

D - Quindi per “pudore” lei non ha mai detto niente.

R - Sì, per “pudore”. Mi piace questa parola.

D - Oggi però ci sono più famiglie che dipendono dal vostro bar.

R - Senza esagerare, diciamo che sono tre.

D - E se dovesse provare a chiedere una cosa, attraverso questo giornale...?

R - Per parlare di una cosa possibile, partirei dalla scala mobile, o meglio, di una frazione della scala mobile. Quel piazzaletto pedonale costruitovi davanti è sicuramente, dal punto di vista architettonico, eccellente. Uno dei fautori, un architetto, è un mio amico. Impostato in spazi quattro volte più ampi, era assolutamente ben collocato, ma oggi, quello spazio che è stato preso dal giardinetto pedonale ha praticamente “annullato” il piazzale della Stazione (che è già chiuso verso il Francioso ed è privo di sbocchi). Una volta, nel piazzale, trovavano spazio vitale per il movimento anche i pullman, che potevano fare inversione, mentre adesso si è tramutato in una strada, il che rende tutto molto più complicato.

D - E quindi lei cosa chiederebbe?

R - Di ridurre quello spazio lì davanti.

D - Però presto dovrebbero partire i lavori di riqualificazione della Stazione, per gentile concessione dei fondi Pnrr.

R - Sì, per sentito dire, quest’opera di restyling atterrà più che altro all’interno della Stazione. In pratica, il camminamento per accedere ai servizi (bar, tabaccaio, biglietteria), comporterà una specie di riapertura di quell’arco che adesso, nel mio esercizio, è murato. Verrà aperto un tantino più a lato, con dimensioni più grandi, dando una visione più frontale, sino alla biglietteria. I lavori risolveranno anche quei piccoli problemi di barriere architettoniche, rappresentati ad esempio dai gradini (che sul lato binari sono molto evidenti). Lei è la memoria storica della Stazione: qualcuno vi ha chiesto dei consigli in merito? Beh, sì, i massimi esponenti del restyling si sono a lungo fermati a colloquiare con noi. Credo che il tutto dovrebbe partire a fine aprile, penso in coincidenza della chiusura per lavori della tratte per Foggia e Taranto-Napoli. Ma è sempre un sentito dire.

D - In ottant’anni di gestione familiare, ha un ricordo, di un fatto o di una persona, che l’ha segnata particolarmente?

R - Non si tratta di un solo fatto o di una sola persona. Prima esisteva un vero e proprio “Rione Stazione”, con le abitazioni di un gran numero di addetti (e famiglie) delle Ferrovie. C’era una gran bella vita sociale. Il passaggio continuo di gente che andava avanti e dietro dai paesi creava una rete di conoscenze e di “piccola solidarietà”.

D - La famosa “solidarietà di vicinato” che si racconta esistesse in Centro... ...c’era anche alla Stazione.

R - Quando ancora non erano ancora obbligatorie le cassette del pronto soccorso, nei cassetti del nostro banco c’erra sempre almeno un cerotto, dello iodio, del disinfettante, alcool denaturato, cachet per il mal di testa. C’erano, perché servivano spesso ai viaggiatori, dopo lunghi tragitti in treno. Tutto iniziò a finire quando mi fu intimato -dal medico del posto di infermeria appena istituito in Stazione- di non concedere nulla a nessuno, perché era reato. Quel posto di infermeria durò solo sei mesi, ma a noi rimase la paura di fornire quegli aiuti (di ordinaria amministrazione) e da quel momento venne un po’ meno quell’ “input emotivo”, su tutte le cose.

D - Lei è ancora oggi testimone delle differenti dinamiche del via-vai alla Stazione. Cosa ci racconta, tutto ciò, della Basilicata di oggi?

R - Di ragazzi che partono in realtà ne vedo pochi, poiché autobus e pullman privati, con orari e velocità più “spicci”, hanno praticamente assorbito il 90% dei movimenti. Senza tema di smentite, chi oggi usa il treno (o i sostitutivi) vi è costretto dagli orari di lavoro, che non gli consentono altro. E arrivano sempre un po’ scoraggiati, scoraggiati dalle lungaggini dei tempi di percorrenza. Si tratta più che altro di qualche professore del Conservatorio, di qualche impiegato di concetto che si intrattiene una decina di minuti e -senza voler apparire presuntuoso- magari ci ringrazia pure per l’esistenza di questa “isoletta”, di questa “oasi”, in questo squallore, in questo deserto.

D - Speriamo allora che campi a lungo il bar della Stazione.

R - Questa speranza ci ha sempre accompagnati. Vede, per noi quel posto è stato via via la culla, il parco giochi, la via Pal, il luogo ove si tornava al tramonto, dopo le escursioni in viale Trieste e in via Pretoria (che per noi della Stazione erano zone lontane e ambite). Noi qui ci abitavamo. Intorno c’era tutto verde, la collinetta. Qui ci ho trascorso la vita, dunque, e quindi oggi ti ritrovi a considerare il profitto in seconda posizione, rispetto ai ricordi.

D - La vostra, lo dico io, a conti fatti è anche una piccola “missione”, quella di mantenere vivo quel presidio di socialità.

R - Io non posso dirlo.

D - Cosa, di quel passato che ha descritto, si può realmente recuperare?

R - Torno a dire che ridurre l’ “anti-scala mobile” ridarebbe un pochino di agio alla “rotabilità” della piazza. Molti con le auto non ci vengono, perché è un imbuto. E poi, naturalmente, i treni regionali -oggi sacrificati sull’altare degli autobus, che sono dislocati dalla Stazione sono la vocazione della Stazione stessa, non certo le lunghe percorrenze, che ci sfiorano e vanno via.

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

Il poeta, scrittore, cantautore e anche pittore rionerese Vito “Vitus” Viglioglia, è -a pelle- una persona spirituale, un individuo, cioè, connesso con le “antenne” sempre accese (per chi sa a ascoltare) dell’universo umano e non.

Libri, dischi (in solitaria o con la sua band attuale, i Meteopanik), “sono-poesie” e un’infinità di altre produzioni, lo rendono -e non è un mistero per nessuno- uno degli artisti più vividi e originali della nostra Terra... Con tanto di “beneplacito”, a suo tempo, di Antonio Infantino. E chi si intende di musica sa che non è certo cosa da poco.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r- Io non giustifico la mia esistenza. E’ esattamente il contrario. E dubito anche dell’esistenza stessa. Nella vita ho provato delle emozioni e delle esperienze tali, che a volte mi fanno dubitare persino del fatto che possiamo esistere.

d - La vita è illusione?

r- Mi viene in mente una bella frase di Pessoa: “Lontano da me, in me esisto”.

d - In questa (non)esistenza, è l’arte ad aver scelto lei o viceversa?

r- Quando parliamo di esistenzialismo -no?- è come se mettessimo una prerogativa alla vita, alla libertà, all’amore, ai sentimenti. E’ un po’ come se la categorizzassimo. Prima, scherzando a microfoni spenti, lei mi ha detto: chi fa troppe cose, è capace che non ne faccia bene una. (Risate).

d - Scrittore, poeta, cantante, pittore...

r- Banalmente le rispondo che è un’esigenza, la mia, quella di suonare, di dovermi esprimere, perché credo che ogni essere umano, al di fuori della quotidianità, ha bisogno di elementi che gli consentano di esprimere completamente se stesso. Allora questo può avvenire attraverso una ricerca sperimentale della propria esistenza, e nella forma pratica dell’arte: pittura, musica, scrittura.

d - C’è forse un grido esistenziale che Vitus cerca di far arrivare al prossimo?

r- Può essere un grido, così come un canto, può essere un piano o un forte. La voglia è però quella di comunicare ciò che di vero e importante c’è nella mia vita: le relazioni, ciò che provo e che sento. E questo è abbastanza per farmi sentire vivo.

d - Non sarò così ingenuo da chiederle se è nato prima il cantante o il poeta.

r- Il primo brano che ho cantato in pubblico è stato “Starway to Heaven”, al centro sociale “Pasquale Sacco” di Rionero. C’era una manifestazione ed ero coi miei amici Antonio Sernia, Michele Consiglio, Pina Cammarota. Ero emozionatissimo.

d - C’è stato poi un fatto, o una persona, che l’ha convinta a continuare su questa strada?

r- E’ stato molto semplice, perché frequentavo tutte persone che suonavano e c’era un bel fermento. Maurizio Di Lucchio, per esempio, mi fece conoscere “Dylan Dog”, il fumetto: Antonio e altri amici mi fecero vedere la prima Fender Squier nera. Mi innamorai subito. Devo anche ringraziare molto Antonio Savella, un caro amico del mio babbo, che mi addentrò nel mondo del jazz e della musica classica. Nella mia infanzia, dunque, vedevo questi universi nuovi che si aprivano.

d - Lei infatti, oltre che tra varie forme artistiche, spazia anche fra vari generi musicali: rock, jazz, le “sono-poesie”...anche se c’è chi dice che le poesie non vanno musicate.

r- Anche, sì, beh, ognuno la pensa come vuole, non sono uno di quelli che emette veti su certe cose. Non mi piace nemmeno la competizione nell’arte. Mi piace vivere il mio mistero nella maniera più libera. “A ciascuno il suo” diceva Sciascia.

d - Per queste poesie in musica lei collabora, anche, con Graziano Accinni, storico chitarrista di Mango. Qual è il suo pensiero su Angelina, fresca vincitrice del Festival?

r- Credo sia una bellissima persona e una bravissima ragazza. Mi dà l’impressione di una persona limpida, che sa vivere i sentimenti. Al di là del talento, del successo e dell’essere figlia d’arte, il lo vedo nei suoi occhi. Quando ha cantato “La rondine” io mi sono emozionato tantissimo. E solo chi porta dentro di sé l’amore, la verità, la bellezza, può comunicare queste cose.

d - La domanda che rivolgo a tutti gli artisti lucani: quali sono le difficoltà nel proporre un proprio percorso qui in Basilicata?

r- Se penso alla carriera artistica come obiettivo per arrivare da qualche parte, dal punto di vista del marketing, ritengo che qui da noi ci siano dei limiti, perché l’industria discografica è completamente assente. Però, attenzione, l’arte, nelle sue fondamenta, si nutre anche di ciò che ci circonda, e la Basilicata, paesaggisticamente, umanamente, è bellissima. Quindi io mi nutro della mia terra, dono alla mia terra e questa a sua volta mi dà, perché parliamo di arte, che come tale, è pura. La mia terra è la MIA ispirazione.

d - Quindi tutto bene?

r- Per me ogni luogo che sa regalare ispirazione, anche con le sue contraddizioni -che ci sono- è bene.

d - Col gruppo di cui lei fa parte, i Meteopanik (in cui militano anche Vito Di Lorenzo, Peppe Di Tolla e Gianluigi Santoro e Antonio Verbicaro), è stato anche lei a Sanremo.

r- Sì a “Sanremo Rock” che appunto è la declinazione “rock” di Sanremo. E noi, con i riff di Vito Di Lorenzo, non possiamo non definirci una “rock band”. “Kinapoetem”, il contrario di “Meteopanik” è invece il nostro progetto acustico. Sì, siamo stati a Sanremo e -che glielo dico a fare- è un luogo magico.

d - Sì, ma so che vi siete dovuti confrontare con una realtà che ha le sue regole, diciamo così.

r- Sì, più che le sue regole, a volte sembra avere le sue ingiustizie. Tocca parlare dell’ovvio, in un Paese come questo. Noi vi partecipammo da indipendenti, ma vinse un artista, Nevruz, sostenuto da Elio e Le Storie Tese. Noi non eravamo sostenuti da nulla, se non da noi stessi...e dal Creatore. Per noi dunque è stato un po’ più difficile, però ci siamo tolti lo stesso delle grandi soddisfazioni: alla fine della nostra esibizione, Matt Backer, chitarrista di fama mondiale (Elton John), che era in giuria, mi disse questa cosa, col suo accento anglosassone: «Questo ragazzo è il figlio di Chris Cornell e Yoko Ono». In quel posto si era creata un’energia incredibile, un trasporto straordinario, quel Teatro ha una sua anima!

d - Come artista e uomo, cos’è che in Basilicata la fa indignare?

r- A volte la miseria umana è un’indignazione per me stesso e per gli altri. E’ un sentimento universale, è la radice del male che può nascondersi ovunque. Ma non è un problema della Basilicata, bensì dell’essere umano. A mio avviso, in questa vita, noi siamo tenuti a sperimentare continuamente i nostri limiti e a migliorarci continuamente in ogni momento. C’è sempre la possibilità di migliorarsi, di fare esperienza e di redimersi, dai peccati e dalle brutture che a volte circondano la nostra vita. Vorrei dunque una Basilicata, e un mondo intero, più solidale, più fraterno. Una Basilicata, più allegra, più positivamente orgogliosa di quello che ha.

d - I suoi progetti imminenti?

r- Con i Metepoanik siamo in fase di composizione del nuovo disco. Poi c’è un progetto con Graziano Accinni, col quale musicheremo delle preghiere. Inizialmente mi propose di cantare i testi che mi aveva mandato, in dialetto moliternese (“‘U Bambinieddu”), ma poiché ho avuto qualche difficoltà, ho scritto delle preghiere in Italiano e le sto musicando. E’ un percorso spirituale, oltre che artistico.

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di Walter De Stradis

 

«L

a sezione di Potenza dell’Associazione Italiana Donne Medico è nata sei anni fa (a Matera è attiva da undici, con una prima presidenza della dottoressa Titti Laurentaci). Il nostro è un gruppo di ventitré medici, tutte donne, con diverse specialità. Vorremmo inserire anche uomini, per la verità, come uditori e collaboratori per i vari congressi, incontri, webinar che ci apprestiamo a organizzare».

Elena Carovigno, ginecologa dalla voce gentile e i modi particolarmente garbati, è una donna assai appassionata, interprete di un lavoro nobile, che lei ha deciso di vivere in maniera il più possibile intensa, completa (anche dal punto di vista sociale)... e soprattutto libera, come vedremo.

d - Su cosa si concentra la sua attività e per quali necessità è nata l’associazione?

r - L’Associazione Italiana Donne Medico, che di per sé è una società scientifica, è nata più di cento anni fa. In tutta Italia le iscritte sono più di duemila e la nostra presidente nazionale è la dottoressa Vezzani. Ci occupiamo di prevenzione, pediatria, oncologia... ma la “mission” è principalmente quella di informare/formare il personale sanitario e i medici circa la “medicina di genere”. Direi che l’intento in realtà è rivolto a tutta la cittadinanza perché, purtroppo, si sente parlare di questo tema, ma non si sa bene cosa sia.

d - Ottima occasione per spiegarlo.

r - La medicina di genere è nata nel 1991, con la pubblicazione di un editoriale di Bernanrdine Healy, una famosa cardiologa americana, nel quale evidenziava il diverso trattamento medico riservato alle donne con patologie coronariche. In quella sede evidenziò che le donne arrivavano a una diagnosi di patologia coronarica con ritardo, perché non veniva prestata molta attenzione nei loro riguardi.

d - Perché, c’era forse la convinzione diffusa che l’infarto fosse un evento prettamente maschile? O di mezzo c’era una questione “di genere” più complessa?

r - Innanzitutto va detto che sia gli uomini sia le donne possono avere la stessa sintomatologia; ma le donne possono manifestare anche epigastralgia, dolore a livello dorsale, nausea. E così capita che queste vadano in pronto soccorso e vengano curate semplicemente per epigasltralgia, e mandate a casa. Ma poi, ovviamente, in preda a dolori sempre più gravi, quelle donne al pronto soccorso ci ritornano e quindi, finalmente, dal tracciato risultano le alterazioni tipiche dell’infarto. E’ una questione, dunque, di conoscenza. Però va anche detto anche che, fortunatamente, in questi ultimi anni i colleghi si sono dimostrati sempre più bravi nell’individuare le patologie cardiache nelle donne che si presentano in pronto soccorso con sintomi atipici dell’infarto.

d - Immagino che la medicina di genere vada anche oltre le patologie cardiache.

r - E’ associata a tutte le branche della medicina. Ed è importante che nei corsi di laurea e in quelli delle varie professioni sanitarie, i docenti parlino anche di medicina di genere. Personalmente lo faccio, nei corsi di laurea triennali che tengo alla Cattolica.

d - La vostra associazione collabora anche con le altre realtà locali riferibili al mondo femminile, rivestendosi anche di un ruolo sociale.

r - Ci occupiamo anche di violenza: le donne che l’hanno subita spesso manifestano patologie che non sono conosciute o che perdurano per lungo tempo, richiedendo un approccio multidisciplinare.

d - Parliamo di patologie principalmente a livello psicologico o...

r -...no, anche ginecologico: varie problematiche derivanti dalle violenze subite.

d - Si ritiene falsamente che la nostra città sia un’isola felice, e di conseguenza spesso si è portati a pensare che da noi certe cose non accadano, se non in maniera residuale rispetto ad altrove. Invece il problema c’è.

r - Sì. Di recente abbiamo collaborato con la dottoressa Perretti, con la dottoressa Bonito e abbiamo organizzato diversi webinar e congressi ai quali hanno preso parte e collaborato non solo le nostre socie, ma anche illustri personaggi, persino al di fuori della professione medica (come il professor Giovanni Gasparini al nostro convegno d’esordio o -al regionale del 2021- il nuotatore Domenico Acerenza, il cestista Aristide Landi o la schermitrice Francesca Palumbo). Stiamo lavorando insieme a tutte le altre associazioni per formare e informare cittadinanza e medici circa il problema.

d - A proposito di cittadinanza...avete una sede?

r - (Sorride) Al momento è nel mio studio, per questioni economiche, non avendo un gran numero di iscritti.

d - Ma al Comune l’avete chiesta?

r - No. L’associazione è nata anche per essere un’oasi felice, ove, tutte quante noi, possiamo decidere, scegliere, circa i convegni etc.

d - Insomma, non volete dover dire troppi “grazie” ed essere il più possibile libere.

r - Esatto (sorride).

d - Quindi al sindaco, per esempio, non si sente di chiedere alcunché?

r - No, nulla.

d - Quando ha iniziato lei, è stato difficile per una donna pensare di fare il medico in Basilicata? Qui da noi ci sono eguali opportunità per entrambi i sessi? Adesso abbiamo anche la Facoltà di Medicina...

r - Adesso infatti è un po’ più facile, non a caso il 70% degli studenti di Medicina è composto da donne. Ai miei tempi non era così. Le racconto un solo aneddoto: il mio professore alla scuola di specializzazione non amava molto le donne. E purtroppo, su dieci specializzandi, eravamo in sette. Ma lui, in sala operatoria preferiva lo stesso i colleghi di sesso maschile, per puro pregiudizio, e tenga conto che una delle mie colleghe era un chirurgo eccezionale.

d - Mi auguro che quella collega abbia ugualmente avuto una brillante carriera da chirurgo.

r - No. Purtroppo no.

d - Quindi il “danno” c’è stato.

r - Eh sì.

d - Oggi però -diceva- le cose vanno meglio.

r - Sì. Spero che altre colleghe decidano di iscriversi alla nostra associazione, perché possiamo fare tante cose. Il 29 novembre scorso, grazie all’aiuto di Inner Wheel, dell’Ande e soprattutto di Giovanna D’Amato, abbiamo organizzato un concerto di solidarietà per le ragazze uscite dalla tratta. E’ stato un grande successo, la chiesa di Sant’Anna era piena, davvero. Il tutto rientra in un progetto più ampio: ogni quindici giorni, teniamo un incontro formativo sulle patologie e sulle questioni che loro ritengono più importanti (gravidanza, fisiatria e pilates etc.).

d - Rimaniamo in ambito delle vittime di violenza e dei danni, fisici e psicologici che subiscono. Oggi, soprattutto tra i giovani, a volte si avverte una percezione alterata della sfera sessuale. Al telegiornale sei sente sempre più spesso parlare delle conseguenze di “rapporti malati”. Si sente, pertanto, di lanciare un messaggio anche agli uomini?

r - Secondo me, innanzitutto, è importante l’educazione in famiglia. Un primo passo in avanti, per fare un esempio banale, potrebbe essere un’equa distribuzione, fra maschietti e femminucce, dei “lavoretti” in casa. A scuola, invece, si potrebbero organizzare corsi di sessuologia. Dovremmo collaborare tutti insieme affinché questi giovani vengano educati onde porre fine a queste violenze.

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di Antonella Sabia

 

 

 

 

La Chiesa è di recente costruzione, inaugurata nel 2019, sin da subito è diventata luogo di grande accoglienza grazie “alla Provvidenza e alle donazioni che cittadini e artisti locali hanno fatto alla parrocchia”. A dircelo, mentre ci guida tra le stanze che compongono la Parrocchia di Santa Chiara a Macchia Giocoli, è il parroco Don Giuseppe Ferraiuolo.

d - La parrocchia ingloba altri rioni/contrade?

r - Il territorio parrocchiale di Santa Chiara comprende Macchia Giocoli, il suo nucleo originario e la sua successiva espansione, per intenderci cito piazza Albino Pierro, poi ancora parte di via dei Molinari, c.da Dragonara, c.da Giarrossa e altre piccole frazioni.

d - Quando i suoi primi passi nel mondo della Fede?

r - Sicuramente in famiglia e nel percorso dell’iniziazione cristiana ho mosso i miei primi passi nella fede, ma se volessi essere più preciso, richiamandomi alla sapienza della Chiesa orientale parlerei di tre nascite, ovvero la nascita naturale alla vita, quando, collaborando con Dio, i miei genitori mi hanno generato, la rinascita nel battesimo, che mi ha reso figlio di Dio per grazia e infine la terza rinascita nella conversione, quando dopo i 25 anni, arricchendo il modo di vita corporale e psichico con quello spirituale, ho cominciato ad aprirmi a un esercizio sempre più maturo della libertà, muovendo così i miei primi veri passi nella fede.

d - Cosa significa essere parroci e guidare una comunità? Nel caso specifico, Santa Chiara è una parrocchia “giovane”.

r - L’immagine biblica che credo dica meglio il ministero del Parroco è quella del buon pastore, ma se volessi tradurre questa immagine in una più prossima alla nostra cultura contemporanea utilizzerei la figura genitoriale del padre. Un padre dovrebbe avere un’umanità sempre più matura, pronta all’ascolto, che tanto dice della nostra capacità di accogliere, che sia capace di prossimità e di relazioni personali umane ed empatico-affettive, che sappia provare tenerezza e compassione per servire la comunità dei fratelli che gli è stata affidata. Un uomo che ha faticato e continua a faticare per conquistare una libertà sempre più vera, che gli permetta di accompagnare nella comunione, con un discernimento spirituale-ecclesiale, le persone che gli sono state affidate, riconoscendo, ordinando e valorizzando i loro doni carismatici, accogliendo con umiltà e amore la croce e accettando senza scoraggiamenti le sfide e le cadute, in un percorso che sappia e che abbia come traguardo sempre più perfettibile, l’adultità, intesa come dono maturo di sé.

d - Si parla spesso di giovani che non frequentano le celebrazioni e attività della chiesa, è riuscito a coinvolgerne alcuni? Quali sono le attività che svolgete?

r - La nostra comunità è rappresentata in modo particolare da giovani famiglie ed è anche frequentata da giovani. Sono molte le attività, di ascolto e accoglienza, di annuncio e catechesi, ancora attività liturgico-sacramentali, caritative, di promozione culturale, corsi per apprendere attività manuali, momenti ludici, di festa e convivialità. C’è una buona partecipazione alle attività.

d - Avete anche un sito web costantemente aggiornato, è un modo per attrarre questi ragazzi e renderli partecipi?

r - In un mondo che cambia non può non cambiare continuamente anche la comunicazione, il veicolo cioè attraverso cui i contenuti vengono diffusi adeguandosi alle nuove sensibilità dei tempi. Abbiamo un sito internet e diversi canali telematici di comunicazione come whatsapp e facebook. Se ne occupano gli operatori pastorali in un continuo confronto sinodale con il Parroco e gli Organismi di partecipazione parrocchiale.

d - C’è qualcosa che lamentano in particolare i cittadini?

r - Maggiore attenzione alle problematiche correlate ai bisogni e diritti delle persone, con particolare riferimento al diritto di libertà sostanziale, garantito dalla Costituzione e su cui non si farà mai abbastanza, non solo per negligenza, ma soprattutto per l’aumentare delle fragilità e le caratterizzazioni di emergenza e urgenza con cui si presentano, e a quelli della famiglia, del lavoro e della salute. Dispiace poi che i nostri giovani per cui tanto investiamo fuori della nostra regione per la formazione, non sentendosi attenzionati con politiche adeguate di promozione e occupazione, decidano poi di occuparsi e vivere altrove, con un duplice impoverimento per i nostri territori in termini umani e di risorse.

d - Esiste un comitato di quartiere?

r - Esiste un comitato di quartiere ed esistono associazioni nel quartiere che comprendono parti del territorio, come l’associazione Piazza Albino Pierro, Albero della vita Onlus, Cucciolo home e Associazione Free Smiling Angels con le quali siamo in dialogo con il desiderio di costruire un cammino sempre più sinodale.

d - Servizio CARITAS: funziona? Quante famiglie assistete? Locali o stranieri?

r - Abbiamo costituito in Parrocchia servizi di accoglienza, cura e accompagnamento delle fragilità. Accanto alla Caritas che accompagna 39 persone, c’è la Boutique solidale Santa Chiara che estende il suo servizio al territorio della Diocesi e che sta provando, con buoni risultati, a dare dignità alla povertà, offrendo ai fratelli bisognosi abiti nuovi e non usati, collocati in spazi adeguati forniti di spogliatoi, in cui i fratelli e le sorelle vengono accolti e accompagnati con umanità e tenerezza. Frequentano questi servizi anche famiglie straniere che provengono dalla Romania, dall’Ucraina e dal Marocco. Infine, abbiamo costituito un gruppo di giovani e adulti che prestano servizio agli anziani e agli ammalati presenti sul nostro territorio, anche in case di riposo, visitandoli, intrattenendosi con loro e rispondendo ad alcune loro esigenze.

d - Nei prossimi mesi i potentini saranno chiamati a scegliere il loro primo cittadino. Se lei fosse sindaco…?

r - Rispondo in modo diverso all’ultima domanda considerando che indirettamente abbiamo già risposto. Noi sacerdoti non possiamo candidarci come sindaci, né possiamo fare propaganda politica, però rispetto a ciò che mi è possibile dire e fare, mi piacerebbe, a prescindere dal colore politico dei prossimi candidati a questo ufficio, che il futuro sindaco avesse e facesse proprie, coltivandole, alcune caratterizzazioni: una persona umana accogliente, capace di ascoltare il grido della città in tutte le sue componenti ed espressioni, e questo sempre, sia quando è facile perché secondo il proprio personale gusto e interesse, sia quando è meno facile. Una persona che sappia anteporre il bene comune delle parti all’interesse soggettivo di parte. Un uomo appassionato di umanità e di servizio, capace di dare speranza e che sia lungimirante, ovvero che non sappia solo amministrare l’oggi, ma custodirlo e accrescerlo per consegnarlo alle generazioni future. Vi saluto augurandoci di continuare a camminare e sognare insieme. Tre parole queste, comunione, cammino e speranza, inscindibili, perché nessuno accetta la fatica di un cammino se non è mosso dal desiderio e dalla speranza, dal sogno, e nello stesso tempo perché nessun sogno potrà mai realizzarsi se non accettiamo l’impegno e la fatica di camminare e camminare insieme.

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di Walter De Stradis

 

 

 

Il loro simbolo è il “taste vin”, ovvero quello piccola ciotola, in argento o metallo argentato, che portano al collo. Serve ad assaggiare, ma i sommelier oggigiorno sono anche e soprattutto degli “story-teller”, a cui spetta il compito di raccontare un intero territorio, attraverso il suo vino.

Dal 2018, Presidente regionale dell’Associazione Italiana Sommelier (la cui prima incarnazione lucana risale agli anni Settanta del Ventesimo Secolo) è Eugenio Tropeano.

d - Presidente, chiariamo innanzitutto cos’è, più precisamente, un sommelier, che nell’immaginario comune è quel tizio elegante che assaggia e poi ti serve il vino a tavola.

r - Sì, è importante chiarire perché la figura del sommelier si è modificata negli anni. In effetti è comunemente vista come colui che, in un ristorante, assaggia e consiglia il vino, roteando il bicchiere etc.. Tuttavia, oggi il sommelier è più che altro un esperto di vino, dotato delle competenze per comunicare, per raccontare il territorio attraverso un bicchiere, ovvero le storie di vigne, di produttori, di tradizioni. Insomma, è un po’ un ambasciatore. Un comunicatore.

d - La vostra associazione di quanti sommelier consta in Italia? E in Basilicata?

r - Nata nel 1965, è la più antica del Paese. A livello nazionale abbiamo circa 50mila soci, in Basilicata oscillano tra i trecento e i quattrocento. La nostra è un’attività di formazione molto importante: negli ultimi dodici anni sono passati per i nostri corsi mille, millecinquecento persone.

d - Si tratta di corsi per ottenere il “patentino” di sommelier...che possono poi tradursi anche in sbocchi lavorativi?

r - Questo è un aspetto importante. Tanti si avvicinano ai corsi per pura curiosità o passione per il mondo del vino, ma moltissimi giovani la vedono come un’occasione lavorativa, perché il “food & beverage” come settore sta crescendo. Ma non stiamo parlando solo di personale di sala, bensì anche di influencer, di blogger: aver fatto un corso da sommelier ti dà le competenze per parlare e scrivere di vino in maniera più professionale. Alcuni la chiamano addirittura “liturgia”, ma un sommelier deve saper descrivere un vino anche con una certa eleganza, un certo savoir-faire. Occorre quindi conoscere perfettamente i territori, i vitigni, i vini. Sarebbe troppo facile dire soltanto: “Questo vino è buono”.

d - Mi tolga una curiosità da profano: cosa diavolo vuol dire “gusto fruttato”?

r - (sorride) E’ una delle sensazioni che il vino dà, dal punto di vista olfattivo/gustativo. C’è anche il “floreale”, l’ “erbaceo”, tutta una serie di profumi,

d - Ma come fa un vino a sapere di fragola?

r - Non c’è la fragola. Il punto è che, nel processo di fermentazione in cantina, si sviluppano una serie di profumi che possono ricordare la frutta rossa, i fiori, i vegetali etc.

d - A tavola lei ci ha portato la “Guida Vini 2024”, realizzata dall’Associazione, con un capitolo, ovviamente, dedicato alle DOC nella nostra regione.

r - Abbiamo recensito trentasei cantine lucane (che in totale sono molte di più, ma abbiamo valutato quelle che ci hanno inviato campioni o si sono prestate alla nostra analisi). Invece di attribuire “stellette”, ci sono le “viti”, in un massimo di quattro. I vini che ci arrivano vengono degustati, anonimamente, a scatola chiusa, da un panel di esperti che poi attribuiscono un punteggio attraverso una nostra scheda di valutazione. Se si ottengono più di 91 punti, viene attribuita l’eccellenza (le quattro viti). In questa edizione, su oltre centocinquanta vini assaggiati e su trentasei cantine, abbiamo a queste ultime assegnate in tutto tredici eccellenze.

d - Non c’è solo l’Aglianico...

r - No, non solo, anche se fa un po’ la parte del leone, avendo il maggior numero di cantine. Grandi passi in avanti li ha fatti la DOC di Matera, che vanta ben due eccellenze, col vitigno simbolo che è il Primitivo.

d - Nella mappa della Basilicata pubblicata sul vostro libro, vedo che c’è un’area viola, a Nord, riferita all’Aglianico del Vulture; una orientale, verde, che fa capo a tutta la provincia materana; più in basso e più al centro c’è quella azzurra del Grottino di Roccanova; e infine, più verso Ovest, c’è una piccola area verdina, che indica le Terre della Val D’Agri. Tutto il resto, la grossa parte occidentale, è tutta in grigio. Perché?

r - Quella è un’area dove il vino si fa, ma non è classificato DOC, bensì IGP, che è comunque una classificazione europea, più a maglie larghe, che identifica tutte le uve che seguono quel disciplinare

d - Ma che momento vive il vino lucano, anche e soprattutto dal punto di vista del mercato?

r - Se dobbiamo parlare di qualità, essendo giunti alla decima edizione di questa Guida e avendo assaggiato tanti vini, posso testimoniarne un costante innalzamento. Ormai i nostri produttori fanno vini di altissimo livello, che non hanno nulla da invidiare alle etichette più blasonate delle altre regioni. Il vero problema è la conoscenza, farli conoscere. D’altro canto, il periodo che sta vivendo la viticoltura, come l’agricoltura in generale, non è facilissimo. Usciamo da un’annata molto complicata, con gli attacchi della peronospera e della siccità, che certamente hanno avuto impatti anche economici sulle aziende; senza contare la difficoltà nel reperimento della manodopera, i costi legati a pandemia e guerra (il vetro). Tuttavia, il vino ha in sé un carattere di resilienza molto forte e nel panorama agroalimentare lucano è comunque un fattore trainante. Essendo un simbolo del territorio, si tira dietro anche altre produzioni, quelle olivicole, i salumi, i formaggi. E ha anche un valore molto attrattivo, anche più alto rispetto ad altre produzioni nostrane.

d - Può diventare quindi anche un attrattore turistico reale?

r - Certo, ed è un discorso che si innesta anche molto bene con la figura del sommelier, così come l’abbiamo descritta poc’anzi. In quanto comunicatore, infatti, si sta sempre più proponendo come figura intermedia tra le aziende e colui che può accompagnare i cosiddetti “eno-turisti”. E’ un settore del turismo, questo, che in Italia movimenta molti milioni di euro, che va alla ricerca di cantine, vine e cibi: per intenderci, in Francia, l’accoglienza dei turisti rappresenta circa la metà del fatturato delle aziende vitivinicole, più ancora della vendita del prodotto stesso. L’Italia si sta aprendo a questo, e la Basilicata, che già gode di un’immagine di regione dove si mangia bene, dove c’è poco inquinamento etc., ha grandi possibilità. Il sommelier è la figura ideale per raccontare e accompagnare queste cose.

d - Lei ha detto che il vino va raccontato, ma cosa ci racconta, il vino lucano, del nostro territorio e del suo popolo?

r - Si tratta di tradizioni antichissime, avendo il vino accompagnato l’uomo in tutta la sua civiltà, da duemila anni prima di Cristo: gli Enotri, la Magna Grecia, i Fenici, gli Etruschi. Se ci concentriamo sull’Aglianico, che è un po’ il nostro vino-simbolo, ci rendiamo conto che racconta anche un po’ la storia del Lucano, perché coltivare questo vino è molto, molto difficile. I produttori di Aglianico si possono definire eroici, perché quello è un vitigno molto tardivo, che matura molto tardi, a fine ottobre e novembre, tra l’altro in collina e in zone non meccanizzabili; il che comporta andare a vendemmiare con condizioni climatiche avverse, anche col rischio che non vada bene. Rispecchia quindi il carattere del lucano, tenace e con duro lavoro.

d - In conclusione, quale vino lucano consiglierebbe al nostro Presidente del Consiglio e perché?

r - Mi faccia fare una battuta. Si dice che i Presidenti del Consiglio, dal punto di vista della durata, abbiano vita politica breve. Quindi consiglierei l’Aglianico, la cui caratteristica è proprio la longevità, dura tantissimo. Lo consiglierei dunque per ragioni scaramantiche.

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di Walter De Stradis

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agazzini Sociali - Solidarietà Circolare” prende avvio ufficialmente il 20 Ottobre 2020 in seguito all’approvazione, da parte della Regione Basilicata, della progettualità omonima. Dal giorno di avvio ufficiale e sino al 31.07.2023, le attività progettuali hanno consentito il recupero e la successiva distribuzione di 68.338 kg di cibo in eccedenza, pari a 395.663 porzioni recuperate».

E’ quanto si legge nel report ufficiale, del 2023, di Magazzini Sociali, particolare progetto di contrasto alla povertà, nato e cresciuto (molto) all’interno di “Io Potentino”, Onlus il cui presidente è Francesco Romagnano.

d - Presidente, “Io Potentino”, mi pare di capire, è nata prima come associazione dedita alla preservazione delle tradizioni, culturali e religiose, del Capoluogo, e in un secondo momento si è evoluta in una Onlus che si occupa principalmente di povertà.

r - Sì, l’associazione nacque ufficialmente nel 2010 (dopo alcuni anni come realtà interna a un organismo di carattere parrocchiale), come associazione culturale che si occupava (e in minima parte lo fa ancora oggi) di fare aggregazione nel corso dei festeggiamenti del Santo Patrono. A un certo punto, però ci rendemmo conto che, rispetto all’organizzare eventi, supportare gli enti caritatevoli già esistenti o stimolare la comunità alla partecipazione alla donazione, poteva dare risultati molto più concreti. Da lì è nata l’idea di un progetto, dedicato ed esclusivo, per la nostra associazione, che è quello dei “Magazzini Sociali”.

d - C’è stato un particolare episodio che vi ha fatto scattare quella molla?

r - Facemmo una prima raccolta fondi attraverso una maglietta, caratterizzata da un messaggio di appartenenza (veniva distribuita nel periodo di San Gerardo), e il tutto era legato all’acquisto -tramite ogni singolo capo venduto- di un tot di cibo. L’iniziativa ebbe grande successo e ci rendemmo conto che, mettendo “a sistema” un’idea del genere, si potevano ottenere risultati notevoli. Ci siamo dunque auto-formati e auto-dotati di un applicativo per avere informazioni puntuali sul cibo donato, e questo ha contribuito a creare un clima positivo, unito a una sempre crescente attenzione sul tema.

d - Dare del cibo è l’intervento più diretto che esiste, se si vuole aiutare una persona in difficoltà.

r - Siamo nati in un momento storico, quello dell’Expo, in cui c’era anche molta attenzione allo spreco alimentare. Pertanto siamo partiti subito da quello, lavorando su due fronti: con le collette alimentari “classiche” (davanti ai supermercati, durante gli eventi, raccolta di cibo a lunga conversazione, donandola a una platea condivisa con Caritas) e parallelamente con il progetto, mai affrontato sino a quel momento in Basilicata, della raccolta delle eccedenze alimentari (tutto ciò che, derivando dalla produzione agricola, dai forni, dalla distruzione nei supermercati, dalla ristorazione organizzata, è vicino alla scadenza e non viene somministrato).

d - In pratica cosa accade?

r - Esiste una platea di trentacinque/quaranta volontari (e anche di persone, un’altra decina, che affrontano percorsi d’inclusione col Comune, il servizio civile etc.), che -quotidianamente- si recano presso i donatori con cui abbiamo stipolato accordi, che ci donano tutto il cibo in prossimità di scadenza. Se necessario, questo cibo viene poi porzionato nel nostro hub (la ex mensa universitaria in via Racioppi - ndr), ma vi è anche una fase di completa ri-tracciatura del prodotto, che viene di nuovo etichettato (per una questione di tracciabilità), e poi infine consegnato ai nostri partner, i cosiddetti “distributori di secondo livello” (una rete composta da oltre trenta realtà, fra parrocchie, cittadine e non, amministrazioni comunali etc.) che, a rotazione, ricevono questi prodotti. Non abbiamo dunque rapporti diretti con le famiglie.

d - Il cittadino bisognoso non viene quindi direttamente da voi?

r - No, anche se è chiaro che facciamo un primo ascolto, quando ci viene chiesto un primo aiuto; cosa che forniamo, indirizzando poi però la persona agli enti che se ne occupano. Oltre alle eccedenze alimentari, che noi raccogliamo e distribuiamo, ci sono infatti gli enti caritatevoli “classici” che raccolgono e distribuiscono gli aiuti FEAD (prodotti acquistati coi fondi nazionali ed europei).

d - Si è parlato molto di povertà in aumento nel Capoluogo, ma anche di povertà “cambiata”, aggravata da situazioni di abbandono e di indigenza anche “sociale”.

r - Sono tantissimi anni che la povertà ha una costante di crescita progressiva. Nell’arco degli anni il contesto di riferimento è cambiato, specie nella post-Pandemia, quando anche persone in possesso di un reddito, a differenza di quanto accadeva prima, per la prima volta hanno necessitato di aiuti alimentari. Così come ci sono persone che hanno patologie, o sono affette da ludopatia, e che pur potendo contare su redditi corposi, non possono garantirsi il sostentamento.

d - Dietro la povertà, insomma, spesso c’è tutta un’altra serie di problemi.

r - Sì. Prima della Pandemia la situazione era più “strutturata”, mentre adesso è più “dinamica”: ci sono persone che hanno difficoltà momentanee, legate all’emergenza, al caro-bollette. Però il numero generale è sempre in costante aumento.

d - E questa situazione cosa ci dice delle dinamiche della nostra città?

r - Rispetto a un quadro nazionale, non ci sono sostanziali differenze, a parte un grande problema, che abbiamo più volte evidenziato, ma che è rimasto tale: una rilevazione del bisogno che non è condiviso tra i vari soggetti. Mi spiego: “Magazzini Sociali” parla molto bene con Caritas e col Comune di Potenza, e riesce ad analizzare un fenomeno. Tuttavia molto spesso, all’interno della città, si avviano iniziative di solidarietà che non fanno confluire le loro informazioni in un unico calderone.

d - Cioè ogni realtà ha i propri, di numeri?

r - E quindi non riusciamo a dare un quadro esaustivo. Se uno dice che ha mille famiglie, non sappiamo se sono le stesse riferibili ad altre organizzazioni.

d - Perchè accade questo?

r - Non ce lo riusciamo a spiegare.

d - Non ci sarà anche una certa voglia di “protagonismo”?

r - E’ chiaro che questa può essere la peggiore delle ipotesi. Quella alla quale voglio pensare io è una certa reticenza, un po’ di pudore, a diffondere i dati su una determinata platea; ma bisogna comunque capire che di fronte alle risorse a cui si va ad attingere (il cittadino-donatore che fa la spesa per conto terzi o i fondi statali), è meglio andarci con un dato che sia univoco.

d - Il messaggio dunque è...?

r - Quello di fare rete e di essere particolarmente trasparenti da questo punto di vista. Ovviamente occorre anche formare il personale all’interno di tutte queste organizzazioni che gestiscono la privacy dei soggetti bisognosi. Nella nostra organizzazione c’è una professionalità specifica che si occupa, solo ed esclusivamente, di quello. Io stesso non sono a conoscenza dei nomi dei beneficiari (anche se è ovvio che, affiliandoci a una parrocchia, sappiamo di avere una platea, anche per avere certezza che alcuni soggetti non facciano riferimento contemporaneamente anche a un’altra parrocchia).

d - Che tipo di sostegno pubblico ricevete?

r - Abbiamo contribuito a far scrivere e finanziare una legge regionale: come accennavo, nel nostro territorio era assente un sistema organizzato di raccolta delle eccedenze alimentari. Abbiamo fatto dunque un progetto che ci vede in rete con ventisei partner (Comune di Potenza, Caritas, Università etc.), e, a fronte di un investimento di circa 200mila euro, noi ne abbiamo misurati già oltre 650mila, in controvalore, di cibo recuperato e donato ai bisognosi. Abbiamo dimostrato, e questo era il nostro intento, che in questo settore c’è molto da investire, perché si ottengono risorse. In alternativa, infatti, quei 650mila euro di cibo, qualcuno avrebbe dovuto comprarli. 

d - Qual è, secondo lei, un aspetto della povertà lucana che non si è ancora capito?

r - Il tasso di assistenzialismo. Qui da noi, è ancora forte. Da un lato bisogna dunque lavorare sicuramente sugli strumenti di supporto al reddito, di supporto alimentare, ma dall’altro bisogna separare l’aspetto clientelare dell’aiuto alla povertà, dall’effettiva necessità dell’intervento. Pensiamo alla questione Bucaletto: c’è chi, di fatto, fa il povero di professione.

d - Quindi i falsi poveri esistono.

r - I falsi poveri non lo so, ma magari c’è chi si sa barcamenare bene tra tutti i “benefit” che ci sono in città, giocando proprio sul fatto che non tutti gli enti riescono a comunicare bene tra di loro.

d - Il “furbetto” dell’assistenza c’è, diciamo, allora.

r - Sicuramente sì, e questo si supera soltanto con un sistema di controllo molto forte.

d - Le è mai capitato di incontrane qualcuno?

r - Mi è stato raccontato e Potenza è piccola e certe cose si vengono a sapere. Chi attua queste cose non si preoccupa molto delle conseguenze, e anche durante alla Pandemia certe cose si sono viste.

d - C’è una cosa che avreste voluto, ma non siete riusciti a fare?

r - Al momento, mettere a regime questo progetto dal punto di vista infrastrutturale. Si potrebbero utilizzare meglio i contenitori pubblici, in questo caso la nostra mensa (collocata ancora nell’asset dell’Università e che necessita di importanti finanziamenti per la ristrutturazione etc.). Occorre quindi una maggiore e condivisa ottimizzazione degli spazi pubblici e un maggiore protagonismo degli enti preposti.

 

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di Antonella Sabia

 

 

 

 

 

 

Riprende questa settimana il viaggio all'interno dei rioni di Potenza. Lo faremo attraverso gli occhi di chi vive la quotidianità e la comunità ogni giorno, proprio come il parroco di Rione Lucania, Don Giovanni Di Carlo, che da poco più di un anno è parte viva di uno dei quartieri più popolati della città.

d - Come si vive nel rione? Cosa ha trovato al suo arrivo?

r - Mi trovo bene qui, all'inizio è stato un po' difficile, dopo essere stato per quattro anni a Santa Croce, di cui due di COVID. Ho dovuto rimettermi in cammino, esattamente come le pregresse esperienze, infatti, sono stato 15 anni a Paterno, 10 ad Avigliano, 11 a Tito. Ho fatto tanti spostamenti nella mia vita, e cambiare nuovamente a 70 anni, è stata un po' una novità. Sono arrivato qui dopo vari problemi che si erano creati in questa parrocchia,e il vescovo ha pensato di mandarmi pensando che fossi la persona giusta in quel momento. Sono un po' il parroco delle emergenze, non è la prima volta che accade, però Dio vede e provvede, e al di là dei traslochi qui sto bene. Ho trovato sicuramente una bella comunità, persone semplici con cui si può dialogare, però mi sono accorto sin da subito che è una realtà che presenta diverse problematiche sia a livello sociale sia religioso.

d - Rione Lucania veniva definito da alcuni “rione ghetto”, ancora oggi si percepisce questa sensazione?

r - No questo ormai è superato, anche grazie a tutta l'opera messa in campo da Don Peppino e da tutti gli altri sacerdoti che con lui hanno collaborato. Naturalmente però bisogna camminare, non bisogna fermarsi, è necessario uscire a riveder le stelle, la luce. In generale i tempi sono difficili, se pensiamo alle crisi economiche che si susseguono una dietro l'altra, poi la pandemia è andata ad aggravare ulteriormente le crisi già esistenti e infine tutti questi conflitti, che seppur lontani dal nostro quotidiano, sono più vicini di quanto pensiamo e ci portano a vivere talvolta in uno stato di tensione a livello inter-sociale, ma anche nella vita religiosa poiché c'è stata una sorta di diaspora...

d - Non c’è partecipazione alla vita religiosa da parte del quartiere?

r - Proprio qualche giorno fa, in un incontro con oltre 200 parroci provenienti da tutte le parti d'Italia, abbiamo appurato che la realtà delle chiese vuote è generalizzata in tutto il Paese. In questo quartiere però ho notato una cosa, già questa estate, quando venivano organizzati degli eventi aggregativi da parte delle associazioni. Molto spesso purtroppo la gente preferisce rimanere chiusa nelle proprie case, nei loro problemi e nella loro malinconia. Molti hanno difficoltà a uscire, a incontrarsi con gli altri.

d - C’è qualche motivo che giustifica queste chiusure?

r - Indubbiamente più di qualcuno è stato fortemente preso e condizionato da una sorta di apatia, di stanchezza psicologica e a volte anche sfiducia a livello di rapporti umani. Ma non è chiudendosi che si può risolvere una situazione, anzi probabilmente si peggiora. Ed è per questo che tante volte stimolo anche io alla partecipazione e alla presenza.

d - Anche lei vive nel quartiere, i cittadini lamentano qualcosa?

r - Ho cominciato il mio cammino il 7 gennaio 2023 e a marzo stabilmente ho iniziato a vivere qui. In realtà non ho mai sentito grosse lamentele, proprio perché molto spesso non è semplice avere rapporti con le persone, per la mancanza del dialogo che dicevamo prima, non si progetta qualcosa tutti insieme e quindi non si riesce a creare quel senso di comunità. Provano a farlo le associazioni di quartiere realizzando frequentemente degli eventi e per quanto riguarda la chiesa, io ci credo e voglio crederci. Abbiamo avviato un percorso di incontri con un parroco che viene da Firenze, che ho conosciuto in terra santa poco prima dello scoppio della guerra. Padre Gaetano Lorusso è un rogazionista, viene una volta al mese proprio per cercare di far rinascere la comunità parrocchiale coinvolgendola sotto più aspetti, dallo sport alla musica, dalla cultura all'oratorio che vorremmo cercare di ripristinare. Ci sono poi la Caritas, i centri di ascolto, e stiamo pensando anche alla creazione di una pagina web.

d - È un modo anche per attirare i giovani?

r - Esatto, perché ahimè tranne due o tre che vengono in chiesa la domenica, i ragazzi hanno totalmente abbandonato la chiesa, quando in realtà dovrebbero essere loro la mente e il motore per la rinascita della comunità. Ci abbiamo provato con un oratorio estivo, ma purtroppo non so se è stato più un centro estivo o un “parcheggio”, talvolta capita anche questo, per ovvie ragioni.

d - Possiamo dire però che Rione Lucania è un quartiere accogliente, visto l'ampio numero di cittadini stranieri residenti?

r - Sì assolutamente, la gente è abbastanza accogliente, qui alloggiano molti cittadini stranieri, anche se sono solo di passaggio per cui a volte non c'è neanche il tempo di potersi inserire. Purtroppo è la situazione del lavoro che preoccupa molto, se prima il quartiere era vissuto dal cosiddetto ceto medio oggi purtroppo è medio-basso, anzi più basso che medio. Io credo però che se ci fosse una maggiore partecipazione da parte dei cittadini, con proposte che vengono direttamente da loro e con apertura al dialogo, si potrebbero fare delle cose belle, che ci aiuterebbero a crescere ma anche ad uscire da quella situazione di apatia e blocco che dicevo prima. Da un punto vista più prettamente religioso devo dire che nelle ultime settimane ho notato una maggiore partecipazione in chiesa, talvolta meravigliandomi.

d - La famosa mensa di Rione Lucania è attiva?

r - È una bella realtà, era stata chiusa per poi riaprire, ma vedo che funziona e lavora bene. È aperta a tutti, ad ora di pranzo, dal lunedì al sabato, anche a chi viene da fuori, i prezzi sono accessibili e contenuti ed è molto frequentata in particolare dalle persone anziane. Uno dei tanti problemi di questo quartiere è proprio l'alto numero di persone sole e in là con gli anni.

d - Nei prossimi mesi la città di Potenza sarà chiamata a scegliere il nuovo primo cittadino, se fosse lei il sindaco quali sarebbero le sue priorità?

r - Prendo in prestito quello che disse John Kennedy nel 1961, il giorno della sua elezione. Disse agli Americani di non pensare tanto a quello che lo Stato avrebbe potuto fare per loro, ma ciò che loro invece avrebbero potuto fare per l'America. Pertanto direi ai cittadini di Potenza, e di Rione Lucania, di pensare a cosa loro vorrebbero per il Rione affinché possa crescere. Non bisogna stare lì sempre ad aspettare che scenda il panierino dall'alto, ma è necessario che ognuno faccia la sua parte, così da arricchirsi tutti. Di una ricchezza, anche se grande, una volta preso tutto rimane ben poco. Bisogna mettere a disposizione il proprio talento a servizio della comunità affinché cresca ognuno di noi, ma anche la società in cui viviamo, e questo vale a tutti i livelli.

 

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di Walter De Stradis

 

 

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ppuntamento è all’ingresso del tribunale di Potenza, ove lavora come centralinista. Siamo fuori al portone e gli telefoniamo: “Esco”, dice lui. Pochi istanti dopo, distratti un attimo dal cellulare, ci vediamo sorpassare da un agile giovane che cammina veloce e sicuro con un lungo bastone bianco. Trentacinque anni, il potentino Maro Rafaniello è un inno alla gioia al solo vederlo. Non è un caso che la sua storia, quella di un ragazzo ipovedente che a un certo punto perde completamente la vista, raccontata nel libro “Vedo il mondo con le mani” (realizzato insieme alla giornalista Eva Bonitatibus), abbia avuto molto successo.

Impegnatissimo nel sociale (e non solo), Marco è vicepresidente di Uici (Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti), sezione di Potenza.

d - Qual è stato il percorso che l’ha portata in associazione e quali le attività principali?

r - Sono un giovane potentino, da sempre dinamico e attivo in città. Anche da ipovedente (sono diventato non vedente totale in un secondo momento), mi sono dato molto da fare nel volontariato, a partire dall’oratorio nel mio quartiere, rione Cocuzzo. Dopo essere a lungo stato socio, da luglio 2020 sono vice presidente della sezione potentina dell’UICI. E’ una bellissima realtà. Ci occupiamo di ogni aspetto (burocratico, assistenziale, ludico) in favore dei soci, tutti affetti da disabilità visiva. Creiamo inoltre progetti in partenariato con altre associazioni: lettura, sensibilizzazione, percorsi al buio, cene al buio (sperimentando gusti e odori insieme a persone che non si conoscono), con camerieri ciechi e ipovedenti.

d - Parliamo degli aspetti sanitari, in Basilicata ci sono eccellenti strutture per quanto riguarda l’oculistica.

r - Io l’ho sperimentata ben poco, anche perché il mio oculista, molto umilmente. a suo tempo mi consigliò di rivolgermi fuori regione, perché qui la situazione non era buona. Quand’ero piccolo, dunque, ci rivolgemmo a centri specializzati di fuori, ove alla fin fine mi è stato creato, tra virgolette, un danno. Oggi, anche in virtù delle testimonianze da me raccolte, posso dire che l’oculistica lucana è molto buona, e mi riferisco sia al centro di Venosa sia a quello di Potenza (anche se è chiaro che, rispetto ad altre regioni, per forza di cose, il numero degli interventi chirurgici magari è minore).

d - E la Città in sé per sé? Sa, si parla e si legge spesso di strade, buche e marciapiedi pericolosi per chiunque...

r -...certo, per le persone anziane, per quelle con bambini. Guardi -non per giustificarmi, ma per rimarcare ciò che sto per dire- premetto che io Potenza la amo. Però, a livello di accessibilità, non ci siamo.

d - Si riferisce ai non vedenti?

r - No, parlo in generale. Di recente ho camminato con un’amica con passeggino al seguito, e lei ha riscontrato difficoltà, in molte parti di Potenza. Io vivo la città in toto, movida compresa, ma sono sempre accompagnato; in alcune zone riesco a muovermi anche da solo (avendo avuto la vista fino a un certo punto della mia vita, alcuni tratti me li ricordo), però in generale debbo dire che la città non è accessibile. In molte zone i marciapiedi mancano o sono rotti. Un passo avanti è stato fatto, da parte dell’Amministrazione (che ha ascoltato le nostre richieste) con l’acquisto dei pullman dotati di sintesi vocale (cioè con avvisi su zone e fermate). Alcuni soci mi riferiscono che non sempre vengono attivati, ma io li ho presi pochissime volte e funzionavano,

d - Accennava al fatto che si è confrontato con il Comune, su certe problematiche.

r - Sì, da diversi anni, specie con l’ultima Amministrazione. Devo essere sincero: le nostre richieste quasi sempre sono state accolte. A volte no. Ma è chiaro che bisogna anche mettersi nei panni di chi amministra. Le richieste sono tante e non sempre i fondi ci sono e non sempre si può pretendere.

d - Per un ipovedente o un non vedente quali sono le problematiche di questa città che in primis andrebbero risolte?

r - Beh, c’è la viabilità...se uno vuole muoversi da solo, non tutti i parchi sono accessibili. Un po’ di anni fa, nell’ambito di una “camminata al buio” al Parco Mondo, bendammo tutti gli amministratori, dando loro anche il bastone bianco col quale ci muoviamo, onde poter sperimentare le difficoltà che incontriamo noi. In generale, sul luogo in sé si può anche intervenire, ma il problema vero è: come ci arrivo io? Ci sono le strisce pedonali? E i sensori? Io faccio fitness ogni mattina e percorro -accompagnato- dieci chilometri, sperimentando tutta la città e relativi problemi. In molte zone non si può camminare da soli, mancando i semafori sonori per poter essere autonomi, come invece accade a Bologna, ove infatti ho sperimentato una vera accessibilità.

d - Ecco, cosa si potrebbe “copiare” da queste città?

r - Innanzitutto la buona educazione del cittadino. Ci si lamenta sempre dell’Amministrazione, ma bisognerebbe interrogarsi sul proprio comportamento, quando si parcheggia sui posti per disabili, sui marciapiedi, o non si dà adeguata attenzione all’altro. Molti sono attenti, alcuni mi chiedono se ho bisogno di una mano, quando mi vedono per strada; ecco, partiamo da qui, iniziamo a cambiare la forma mentis. Come dicevo, gestire una città non è semplice e le risorse economiche non sempre ci sono.

d - Anche a seguito dell’uscita del suo libro, di cui s’è parlato molto, lei ha fatto e fa tutt’oggi molti incontri nelle scuole. Per esperienza so che i bambini fanno domande “senza filtri”.

r - Dipende dall’età. I bambini delle scuole elementari possono rimanere sorpresi dal “diverso”, ovvero dal ragazzo col bastone bianco o con la “bacchetta magica”, e in quei casi racconto la mia esperienza tramite un breve cartone animato, in cui si evidenzia la diversità come valore aggiunto. Coi ragazzi di medie e superiori, che sono in una fase di crescita, il discorso si sposta sulla mia esperienza di studente. Con gli adulti, poi, è bellissimo, perché lì devi aiutare a scardinare tanti limiti: facendo esperienze sensoriali, da bendati, sperimentano la perdita di controllo. Si tratta di toccare ciascuno le proprio corde ed è bello, perché negli adulti si smuovono proprio gli animi.

d - Cos’è che oggi la fa incazzare più di tutto?

r - Sempre la maleducazione, mi manda in bestia. Stare poco-poco più attenti all’altro, e cambiare il modo di comunicare, può davvero fare qualcosa. Così è tutto risolvibile.

d - Siamo a pochi mesi dalle elezioni: la politica l’ha mai cercata?

r - Mmm... no. Mi piacerebbe lavorarci, dare cioè un contributo gratuito, da volontario, come faccio oggi nel sociale, ma non nascondiamoci: quello è un ambiente in cui, per sua natura (anche per la presenza di tante idee diverse), bisogna scendere a compromessi, e a me non piace. La situazione in città oggi è molto difficile, e pur avendo del potenziale, non so se potrei essere all’altezza. Bisognerebbe trovare una squadra giusta.

d - Rispetto a quali problemi si può dire che la politica lucana è ipovedente o non vedente del tutto?

r - Prima parlavamo di viabilità e di accessibilità... e poi viviamo in un contesto che costringe i ragazzi ad andare via, per poter assistere a un banale concerto, o per trovare lavoro. Un po’ è anche la posizione del territorio, le strade, i mezzi... Qualcosa si sta facendo, specie con i tanti giovani volenterosi: se uno VIVE la Città, come faccio io, si rende conto che il fermento c’è. Il problema di fondo è sempre l’assenza di risorse (ma c’è anche chi va via per presa di posizione). A me basta quello che ho, faccio tutte le attività possibili, dal canto allo sport.

d - La sua città, mi diceva a microfoni spenti, non la cambierebbe per nulla al mondo.

r - Qui ho la mia famiglia, ho la fortuna di avere un lavoro (grazie anche alla mia disabilità, altrimenti sarebbe stato un problema anche per me), ho qui tutte le attività creative che mi interessano (fare un libro, organizzare incontri di lettura, teatro, sport, associazionismo, serate di salsa e bachata)... e poi, qui, rispetto alle altre città, la movida che c’è te la puoi godere davvero: parlo di spazi, di economia e di sicurezza. Qui a Potenza ho la mia dimensione e ho TUTTO.

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di Antonella Sabia

 

 

 

 

Dopo qualche settimana dedicata alle festività natalizie, ai bilanci di fine anno e ai buoni propositi per il 2024, torniamo a dare voce ai giovani studenti del Liceo Galilei di Potenza, impegnati nel progetto “Galilei in Radio” su Spotify. Questa settimana riprendiamo alcune domande di Giulio Pedota all’attrice Anna Ferruzzo, che ha avuto onere e onore di vestire i panni di mamma Filomena, probabilmente uno dei ruoli più complessi, forti e profondi della fiction Rai “Per Elisa – Il caso Claps”.

G - È stato uno dei ruoli più difficili, rimasto nelle nostre memorie e nei nostri occhi, un volto minato dal dolore, che lei ha saputo interpretare magistralmente.

A - Non so se è il ruolo che è arrivato di più, ma sicuramente mi ha emozionato sin dal momento in cui mi hanno proposto di fare il provino. Conoscevo la storia di Elisa dalla televisione, dagli interventi che Filomena e Gildo di frequente facevano a Chi l’ha visto, alla disperata ricerca della verità. Questa figura di madre mi commuoveva ed emozionava ogni volta, una donna piena di forza e dignità, ma anche di ostinata saggezza, che ho potuto constatare dopo averla conosciuta e diventando sua amica.

G -Con la famiglia Claps è rimasto quindi un rapporto di amicizia anche dopo il set?

A - Assolutamente si. Filomena sul set venne una sola volta, mentre Gildo era più frequente. Dopo la messa in onda mi ha chiamata, una telefonata piena di affetto e riconoscenza: ci era grata per aver restituito dignità alla loro storia. Poi è nato questo rapporto, e lei mi ha più volte chiamata per sapere come stanno i miei genitori a Taranto. È una donna molto materna e accogliente.

G - Cosa ha portato a casa di questa fiction?

A - Per un'attrice quando si interpretano ruoli così complessi, soprattutto quando sono ispirati a personaggi realmente esistiti e che ancora vivono, l'esperienza emozionale è doppia. Si ha la paura di non essere all'altezza della situazione perché bisogna restituire dignità a una storia così importante, poi per regalare verità al personaggio, bisogna continuamente attingere alle proprie esperienze e alla propria verità emotiva, che non sarà mai dolorosa quanto quella di Filomena. Quando si è concluso questo percorso ho avvertito un vuoto, perché sul set le giornate vengono riempite dalla sensazione di fare una cosa importante. (…) Di Filomena volevo rappresentare lo spirito combattivo nella ricerca della verità, nonostante il dolore, riprenderne il timbro di voce, ma mai farne una fotocopia.

G - Fino a qualche mese fa la città di Potenza è stata silente, spesso omertosa nei confronti di una famiglia che meritava più affetto per tutto quanto accaduto. Questa pagina è stata riaperta solo grazie a un cambio generazionale, cioè grazie a dei giovani che nel 1993 non erano neanche nei meandri del pensiero dei loro genitori. Che effetto fa essere riconosciuta come “la madre di Elisa”?

A - È una bella responsabilità, mi fa solo piacere se qualcuno ricorderà la figura di Filomena attraverso il mio viso, anche se lei ha un volto talmente importante, forte, con occhi profondi e un volto scavato nel marmo. La presa di coscienza della città di Potenza rispetto a tutta la vicenda dei Claps passa soprattutto attraverso la vostra generazione che ha una marcia in più rispetto anche alla mia, quando alcuni temi erano pressoché sconosciuti, penso al femminicidio, ma anche alla legislazione assurda che allora non permetteva a nessuno di andare a denunciare la scomparsa di un caro, se non erano passate le 48 ore. La partecipazione della vostra generazione è un momento di grande speranza, anche per tutti quelli che attraverso la televisione hanno aperto il cuore, e con una certa libertà mentale hanno compreso che finalmente doveva essere riaperta quella pagina e letta con occhi giusti. (…) Devo dire che in questo caso mi sono piaciuta, nel senso che credo di essere stata credibile e mi sono emozionata nel rivedermi, cosa che non capita spesso.

G - Ha utilizzato l'aggettivo “credibile” parlando del ruolo interpretato, in questa lunga storia che dura da 30 anni forse è proprio la credibilità a essere mancata in alcune istituzioni, Chiesa e Stato: il vostro cast, ma anche Pablo Trincia con il podcast, è come se avesse dato uno schiaffo morale proprio a chi in questi trent’anni anni si è girato dall’altra parte.

A - Abbiamo tirato fuori la verità da una fiction, sovvertendo un po' i ruoli, è una delle più grandi soddisfazioni per noi tutti. Dove non ha voluto o potuto la Chiesa o la Magistratura o le Istituzioni, è arrivata una presa di coscienza attraverso una storia rappresentata dalla televisione, un prodotto di alto livello che ci ha visti coinvolti, e la presenza di Gildo sul set ci ha sempre confortati, avendo il suo appoggio e una visione corretta delle cose.

G – Il suo è un Curriculum molto denso, una lunga carriera cinematografica, tanti ruoli televisivi, passando per il teatro.

A - Sono sempre stata timida e ho fatto molto teatro perché credevo che per fare cinema e televisione ci volesse un carattere molto più arrembante e non riservato come sono io. Per passare da teatro a piccolo/grande schermo è stata necessaria tanta di volontà oltre al caso, e una giusta dose di talento. Poi ti capita un ruolo come quello di Filomena, che cancella tutte le preferenze fino a quel momento, mi riempie di bei ricordi e di emozioni belle.

G - Un consiglio a tutti gli studenti: che cosa il teatro potrebbe regalare a un giovane e cosa il teatro invece ha regalato a lei?

A - Per me il teatro è stata la cura, ero di una timidezza quasi patologica, ho scoperto il teatro proprio grazie alla scuola, al liceo, perché la mia insegnante mi aveva eletta lettrice ufficiale di Dante ad alta voce. Mi faceva tanti complimenti e disse che dovevo andare a teatro, ma venendo da una famiglia molto umile non potevo, fu proprio lei a regalarmi un abbonamento, e da quel giorno la mia vita è cambiata. Da lì è cominciata la mia risalita, sono partita dai laboratori teatrali che mi hanno fatto scoprire qual era la forma di comunicazione che mi mancava. Per me il teatro dovrebbe essere imposto a scuola, una materia di studio proprio perché i laboratori teatrali sono prima di tutto una cura per l'anima, ogni laboratorio è prima di tutto un mezzo di condivisionesoprattutto in questi tempi dove ognuno di noi è preso dal proprio cellulare.

Auguro quindi a tutti gli studenti di trovare insegnanti illuminati, dare loro credito e fiducia. Proprio come la mia insegnante, che mi ha aiutato a credere in un sogno, e io ho studiato tanto per riuscire a realizzarlo. Mi raccomando ragazzi, a testa alta sempre!

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di Walter De stradis

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calo di Grassano, Tursi, San Giorgio Lucano, Sant’Arcangelo, Oliveto Lucano e Stigliano in provincia di Matera; Teana e adesso Montemurro in provincia di Potenza. Venticinque anni di sacerdozio (festeggiati l’estate scorso a Stigliano), di cui quindici in Italia.

Il neo parroco di Montemurro, il cinquantenne don Mario Antonio, è un sacerdote originario dell’Angola, dai modi particolarmente soavi e con un sorriso che è di per sè un abbraccio. La fuga dei giovani, dai piccoli centri lucani -di cui ormai ha vasta esperienza- ma anche dalla fede, è uno dei sui crucci: per questo, a un certo punto -lui, cintura nera di karate- ha deciso di sposare la pastorale con le arti marziali.

d - In quale momento della sua vita ha capito che sarebbe stato un sacerdote?

r - Da ragazzo, in Angola, a Cubale, il mio paese, mi piaceva molto pescare, e una mattina, mentre mi accingevo a farlo, vidi che lì nei pressi c’era il gruppo scelto per il seminario e allora mollai la canna e andai dal parroco (che era Svizzero). Lui disse ok: potevo anch’io dare gli esami (che superai il giorno dopo).

d - Ma cosa la spinse, quel giorno particolare, a contattare il suo parroco?

r - Da bambino pregavo sempre, e fui colpito dall’arrivo di un sacerdote nel mio paese. Dissi subito a mia madre che anch’io volevo essere sacerdote. Anche a scuola mi dissero che ci ero portato. E così, poi, in quel giorno di pesca, mi convinsi del tutto.

d - E’ interessante, perché lo stesso Gesù disse ai discepoli «Vi renderò pescatori di uomini».

r - Infatti. Ci ho pensato spesso, anche perché al mio Paese abbiamo trascorso situazioni non facili. Io ho fatto anche gli studi di medicina, e mi sono trovato davanti a un bivio, anche perché ero l’unico ad aver superato la selezione per il seminario. Alla fine, pur sapendo che il percorso sacerdotale era lungo, mi affidai a Dio, seguendo la Sua volontà, e le cose sono andate bene. E adesso sono in Italia da quindici anni, dopo essere stato sacerdote nella mia stessa Angola.

d - Veniamo ad alcune questioni attuali. In Basilicata, come del resto in tutto il Paese, il dibattito sui migranti è sempre all’ordine del giorno. Ieri (martedì – ndr), c’è stata la notizia di questa maxi indagine sul CPR a Palazzo San Gervasio, che sarebbe stato teatro di gravissimi maltrattamenti. Qual è la situazione nel nostro Paese, a suo modo di vedere?

r - Quello dell’immigrazione è un problema serio e difficile. Non vorrei entrare nei dettagli, ma sappiamo che ci sono vari tipi di immigrazione, quella economica, quella dovuta a guerre e calamità. Ci sono luoghi di partenza, di transizione e di arrivo. Io ho fatto una tesi sul tema, incentrata sul conflitto tra il diritto internazionale e l’immigrazione: se pensiamo alla tutela internazionale dei diritti umani, beh, sappiamo già che esistono delle violazioni di base, a livello di persona umana, figuriamoci per chi emigra. La persona umana è “imago dei”, immagine di Dio, ecco perché è molto importante tenere alta l’attenzione. E non mi riferisco solo ai migranti. Parlo di diritti fondamentali della persona. Ciò non esclude che vi siano però delle situazioni positive, ed è bello che tramite anche gli studi che si fanno nelle università, i giovani imparino quanto è importante la persona umana.

d - Spesso, anche per molte altre questioni, gli esseri umani diventano solo numeri?

r - Bravo, esatto.

d - Ma i giovani migranti, africani e non, potrebbero essere una risorsa -come sostengono alcuni- per ripopolare i paesi lucani come questo, sempre più svuotati?

r - Non saprei dire se potrebbe trattarsi di una risorsa per i paesi in via di spopolamento, ma certamente l’immigrazione in sé è GIA’ una risorsa. Se pensiamo agli Italiani che sono emigrati in America, Australia o Germania, sappiamo che hanno contribuito grandemente allo sviluppo di quei paesi.

d - Lei è stato sacerdote e parroco in vari comuni lucani, tutti afflitti -chi più chi meno- dallo spopolamento. So che è una tematica che le sta a cuore, ma se potesse prendere sottobraccio il Presidente della Regione, cosa gli direbbe?

r - E’ una bella domanda. Incoraggerei solamente a continuare a fare il bene, inteso come bene comune.

d - La gente che vive in questi posti di cosa ha bisogno principalmente?

r - Di attenzione. C’è il problema della disoccupazione e dei giovani che, andati fuori a studiare, poi non tornano più. E piano piano li perdiamo. Ma occorre pure capirli, se rimangono a Milano, Torino, Germania, Francia. Proprio lì, a Notre Dame di Rems, l’arcivescovo mi aveva dato la responsabilità di fare una pastorale universitaria ed ebbi il piacere di conoscere tanti studenti di Lecce, che non volevano più tornare indietro. Dunque l’attenzione a questi giovani è importante, ma sappiamo anche che non è facile trattenerli; in ogni caso una soluzione va trovata, perché perdiamo un vero capitale umano, medici e altri professionisti lucani che se ne vanno definitivamente, quando invece servirebbero qui.

d - C’è anche la questione povertà: le Caritas lucane periodicamente diffondono dati allarmanti. Qual è la sua personale esperienza in merito, avendo operato in vari comuni?

r - Sì, la povertà c’è e l’ho vista in alcune parrocchie in cui sono stato. La Chiesa, tramite la Caritas, cerca di operare nel sociale e tante persone sono venute proprio da me, e ho dato il contributo. E’ una dimensione che certamente si nota.

d - Lei è cintura nera di Karate, e ricordo che a Oliveto Lucano aveva organizzato delle “scuole” per i ragazzi del posto. Come si conciliano il sacerdozio e le arti marziali?

La questione è infatti tutta qui. A livello personale, per me non sarebbe poi così importante, ma mi rendo conto che a livello pastorale, trattandosi di curare le anime, in giro ci sono problemi di socializzazione. Dopo la famiglia e la scuola, lo sport è un mezzo molto bello per socializzare.

d - Ma perchè proprio il karate?

r - E’ una disciplina in cui ci sono tutte le fasce d’età, dal bambino all’adulto. A mio modo di vedere, se vogliamo “tenere” i giovani, dobbiamo inventarci qualcosa. Ho provato con seminari di studi biblici, ma i ragazzi non ci calcolavano nemmeno. Quando invece qualcuno di loro mi ha visto, anche in tv, praticare il karate, si è incuriosito e ha manifestato il desiderio di prendervi parte. Ho capito allora che quello poteva essere un modo per “tenerli” e evangelizzarli tramite questa disciplina. Nel karate ci sono tanti valori: il rispetto, l’auto-dominio, lo spirito indomabile, l’equilibrio. Coi ragazzi creiamo allora un modo di fare pastorale, facendo magari messe solo con gli allievi (ma anche con i genitori e i nonni). I giovani ci vengono volentieri e poi organizziamo momenti di socialità come pranzi e cene. Notiamo che in questo modo si guariscono tante cose, a livello, spirituale, a livello psichico. Si tratta anche di “fabbricare” la salute già a partire dall’età pediatrica. Sappiamo inoltre che ci sono tanti suicidi, ma tramite questa autodisciplina i giovani si concentrano, sanno che hanno dei compiti da fare e pertanto acquisiscono autostima e stanno bene con loro stessi. Io stesso ho rivoto una domanda alla campionessa lucana Terryana D’Onofrio: «Come ti troveresti di fronte a un fidanzato che ti lascia?». E lei mi ha risposto: “Proseguo per la mia strada. Mi faccio il mio “kata”, il mio “papuren”, e sto bene». Si tratta quindi di trovare un equilibrio e saper gestire i pensieri negativi. A Oliveto Lucano avevo una scuola ben avviata, che ha ospitato anche il Presidente del Coni, e adesso penso che dobbiamo ricrearla anche qui.    

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