- Scritto da Redazione
- Sabato, 14 Dicembre 2024 07:21
di Walter De Stradis
Se Don Matteo e Padre Brown utilizzano la bicicletta, Don Salvatore Sabia si sposta in groppa a una Ducati fiammante; il che contribuisce a portare quella “ventata” di aria nuova, anche nella pastorale, che il trentacinquenne vice-parroco (assieme a don Luigi Sarli, parroco della chiesa di Santa Maria della Speranza) si propone di portare nella vita di uno dei rioni più problematici della Città di Potenza: Bucaletto.
d - Lei ha trentacinque anni, si è approcciato tardi alla vita ecclesiastica, o il suo è stato un iter normale?
Nel periodo odierno direi che i tempi sono nella media. Moltissimi ragazzi entrano in seminario dopo aver concluso almeno un ciclo di studi, una laurea triennale insomma. Io mi sono dapprima laureato qui a Potenza in Economia aziendale e poi ho deciso di intraprendere il Seminario iniziando l’anno propedeutico, il cosiddetto anno zero. Il percorso prevede sei anni, più un anno di preparazione in cui si fanno tre giorni in seminario e tre fuori per capire se quella può essere davvero la tua vita. Sono diventato diacono nel 2021 e, nel giorno del mio trentaduesimo compleanno, sono stato assegnato a Bucaletto.
d - Qual è stato il momento in cui ha capito che avrebbe fatto il sacerdote?
Frequentavo la parrocchia di San Giovanni Bosco come un’agenzia, facevo le mie preghiere, frequentavo i ragazzi e le ragazze dell’oratorio come un qualsiasi giovane della mia età, ma poi andavo via. Durante un pellegrinaggio a Medjugorje è iniziato un processo che mi ha fatto vedere la chiesa come una casa e una comunità nelle quali avvertivo il bisogno fisico di starci, dando il mio contributo. Le opzioni erano due: la vita matrimoniale e quella sacerdotale, ma non le ho mai vissute come un aut aut. Dopo la laurea nel 2012 mi sono preso un anno di tempo insieme a un prete per capire se poteva essere realmente quella la mia strada.
d - Lei è un giovane, spigliato e alla mano, un sacerdote che gira in Ducati. È un nuovo approccio che vuole infondere al sacerdozio?
Non possiamo essere diversi da ciò che siamo, altrimenti la gente fiuta subito l’ipocrisia. C’è poi, di contro, un’altra necessità che attiene a una certa freschezza negli approcci da parte della chiesa. L’esperienza che sto facendo a Bucaletto mi dimostra quotidianamente che i ragazzi non ripugnano la parrocchia come istituzione, tutt’altro. Come dice il Papa, bisogna uscire dalle sacrestie, poi spetta a ciascuno di noi incarnare questo ruolo per come è.
d - Lei ha ricevuto in questi giorni l’annoso compito di Direttore della pastorale giovanile diocesana. Come fare, dunque, per consentire ai giovani di avvicinarsi nuovamente alla chiesa?
Sicuramente con un approccio sereno e progressivo. Magari coinvolgendoli con la squadra di calcio, che quest’anno è partita anche a Bucaletto, o con il centro estivo. Bisogna consentire ai più giovani di assaporare le cose, un po’ come il metodo preventivo di Don Bosco. Io non sono diventato Salesiano, ma certamente Don Bosco è stato il mio maestro.
d - C’è un sacerdote locale al quale si ispira, o che più semplicemente è stato il suo maestro?
Tanti salesiani, ma se dovessi fare un solo nome le segnalerei quello di Don Bruno Bertolazzi, il sacerdote di centodue anni morto l’anno scorso di Covid, che è stato tra l’altro anche il primo a spingermi ad approfondire la mia vocazione. Un uomo di grande cultura.
d - Bucaletto è un quartiere problematico, a volte visto addirittura come una sorta di “parente scomodo”, che Potenza fino ad ora non è riuscita ad accudire come merita.
Le difficoltà sono state molteplici. Io sono il vice-parroco insieme a Don Luigi che, invece, è il parroco titolare e con il quale ho un ottimo rapporto, siamo come dei fratelli. Ebbene lui gestisce i compiti ordinari della parrocchia, mentre io mi occupo di interviste o di tutto ciò che attiene alla promozione della parrocchia tramite i social o nei rapporti con le istituzioni. Le difficoltà sono state molto attenuate dal fatto di essere in due. Siamo stati anche fortunati perché arrivati nel momento in cui la chiesa doveva essere aperta, beneficiando anche dei fondi dell’8/1000 con i quali è stata finanziata l’intera costruzione. Abbiamo riscontrato ovviamente diverse situazioni limite, pensi che il primo anno hanno fatto esplodere il Presepe in chiesa, cosa che oggi non accade più. Tanti ragazzi lasciano la scuola, non lavorano e non sono avvezzi al lavoro, anche perché le famiglie non li avviano a questa filosofia di vita.
d -...Insomma, è vero quel che alcuni dicono, ovvero che a Bucaletto esiste anche un certo “adagiarsi” alle situazioni?
Il problema di Bucaletto lo definirai civile, c’è chi si impegna per uscire da una situazione di difficoltà, ma anche persone che si abbandonano e sono completamente abbandonate a loro stesse, al punto che la Chiesa si sostituisce allo Stato. Come dico sempre anche a Don Luigi, noi siamo tornati a fare ciò che la chiesa faceva nel 1600: abbiamo avviato percorsi di educazione, socialità e attività di scolarizzazione e formazione. Sul lato politico, be’, direi che siamo stati spesso un bacino di voti. Abbiamo poi avuto situazioni particolari: il Sindaco Telesca (che ringrazio per la sua presenza e vicinanza al quartiere, come nel caso specifico dell’asilo, incontrando le mamme e mettendoci la faccia), durante la campagna elettorale promossa tramite i social, diffuse un post in cui annunciò che avrebbe incontrato i potenziali elettori alla parrocchia Santa Maria della Speranza di Bucaletto, ma senza averlo concordato con noi, anche perché siamo assolutamente super partes, come precisammo sui social. Un equivoco che si risolse. Altri candidati consiglieri invece si sono però recati di persona nelle case dei cittadini facendo delle promesse, tant’è che con Don Luigi abbiamo fatto un cartellone scrivendo “Cristo ci ha liberati per la libertà. Siate liberi!”. Parlavano addirittura di presunti fondi per aggiustare i bagni nei prefabbricati.
d - Insomma la vecchia storia, Bucaletto come patria delle promesse pre-elettorali.
La colpa è sempre a 50 e 50. La politica ha accatastato dei prefabbricati come case popolari. Negli anni, un terreno che era della chiesa è stato dato dapprima in comodato d’uso al comune, che poi lo ha “confiscato” dando a sua volta alla medesima chiesa una miseria, al punto che questa ha dovuto ricomprarselo per l’edificazione della parrocchia. Insomma le istituzioni su Bucaletto hanno fatto carne da macello. L’altro 50% delle colpe lo attribuisco alle persone che si sono lamentate poco. I poveri non sono solo poveri nella tasca, ma a volte anche nella testa, per la totale rassegnazione.
d - Come vede Bucaletto da qui a dieci anni?
Stiamo facendo un buon lavoro, anche perché la comunità risponde positivamente. Non possiamo fare tutto da soli o con l’apporto dei privati, come la Pittini che da tre anni a questa parte dona fondi per l’organizzazione del centro estivo e che ringrazio di cuore. Sarà sempre un tappare dei buchi se si continua così. La proposta del commissario straordinario, partita da noi e promossa dall’assessore Giuzio, è sicuramente la scelta giusta. Chiaro è che la Chiesa certo non può costruire case, abbiamo fatto già tutto ciò che era in nostro potere
d - Tra poco è Natale, che regalo si aspetta dai cittadini di Bucaletto?
Già l’ho ricevuto, perché cittadini vivono la comunità e non si sentono più isolati. Abbiamo costituito la prima comunità energetica e solidale tramite un finanziamento di Legambiente e grazie ad una donazione di Edison energia. Ci sono stati donati dei pannelli fotovoltaici che distribuiranno 55Kw di energia. I preti possono fare tutto, ma mai da soli.
d - Una canzone che la rappresenta?
“Un giorno così” degli 883.
d - E quella che rappresenta Bucaletto?
Una sola canzone non potrebbe rappresentare le tante anime di Bucaletto.
L’intervista si conclude con la benedizione del pranzo, da parte di Don Salvatore, che recita (testuale): «Gesù, thank you!»
- Scritto da Redazione
- Sabato, 07 Dicembre 2024 07:07
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di Walter De Stradis
Il lettore più assiduo di “Controsenso” si sarà reso conto che, da qualche tempo, la nostra testata cerca di prestare maggiore attenzione alle cosiddette “aree interne” della Basilicata, di cui fanno parte, secondo il sito dell’Alsia, ben 126 comuni su 131. Questa settimana c’ è pertanto sembrato interessante affrontare l’argomento “minoranze linguistiche”, con particolare riferimento alle comunità Arbëreshë presenti in regione.
Di questo, e di molto altro, abbiamo parlato col professor Donato Michele Mazzeo (originario di Barile), fondatore della storica rivista “Basilicata Arbëreshë”, giornalista, saggista, coordinatore di vari progetti inter-culturali sulla tutela delle minoranze linguistiche, già membro dell’esecutivo della Commissione Immigrazione della Regione Basilicata e supervisore di lingue straniere S.S.I.S all’Unibas.
d - “Cristo è nato a Barile” è un suo libro di qualche anno fa, incentrato su quella parte di riprese del film “Il Vangelo Secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, che furono girate nel suo paese. Anche lei fu tra le comparse, come diversi giovani dell’epoca?
r - Non proprio. I figuranti erano contadini, barbieri, professori, piccoli artigiani. Il merito di Pasolini fu proprio questo: avvalersi di un materiale umano fatto di persone semplici, diseredate, magari non portate per la recitazione. Io avevo 16 anni e con gli amici del vicinato ci incuriosimmo molto per questo piccolo terremoto culturale, che si stava verificando in un piccolo paese senza un albergo, senza un ristorante. C’erano solo le cantine...
d - Quanto tempo si fermò Pasolini a Barile?
r - Due settimane, ma quello che mi preme dire davvero è che i ciak di quel film sono INIZIATI proprio a Barile, con gli episodi de La Natività, La Strage degli Innocenti, l’Adorazione dei Re Magi. Le foto presenti nel mio libro, gentilmente concesse da alcuni fotografi dell’epoca, rientrano nel progetto internazionale “Barile come Betlemme” che, come “Basilicata Arbëreshë”, avviamo col compianto Rocco Brancati, quando questi lavorava in Rai.
d - Quindi lei non fu una comparsa, bensì un osservatore.
r - Un osservatore molto interessato. Ricordo tutti questi cavalli presi in prestito dalle masserie di Piano del Conte di Avigliano, oppure a Rapolla; così come Pasolini che armeggiava con la sua macchina da presa; oltre a tanti episodi stupendi, raccontati nel testo.
d - Come veniva percepito in paese Pasolini, che in quell’Italia dei primi anni Sessanta era un intellettuale costantemente al centro di polemiche, tanto per le sue posizioni politiche quanto per la sua omosessualità dichiarata?
r - Incuteva in effetti un pochino di soggezione, specialmente nei bambini e nei ragazzi, e direi anche nella chiesa: c’era un sacerdote che aveva addirittura convinto alcune famiglie ad astenersi dal partecipare al film. Tant’è vero che uno dei piccoli che doveva interpretare il Bambinello Gesù fu dissuaso dal farlo, anche da parte di alcuni sacerdoti dell’epoca. Sì, c’era quel tipo di pregiudizio, oltre alla novità in sé per sé. Ma Pasolini “incoraggiava” la gente, cioè anche economicamente, pur di poter svolgere questa sua “missione cinematografica”. Com’è noto, il regista era stato anche in Palestina, alla ricerca di locations, ma non aveva trovato la grotta giusta perché secondo lui c’era già troppa modernità. La trovò dunque a Barile, dove avviò il film. A questo proposito, vorrei dire che a Matera c’è questa...come chiamarla..., non direi “prosopopea”, bensì “leadership”, in virtù della quale si dice sempre sulla stampa che quel film è stato “in gran parte” girato lì. Non è proprio così: il ciak fu avviato a Barile e il lungometraggio in parte fu girato anche a Castel Lagopesole (Avigliano), a Gioia del Colle e a Castel del Monte (in Puglia) nonché a Crotone (in Calabria) e nella Valle dell’Etna (in Sicilia). Insomma, abbiate pazienza! Date a Cesare quel che è di Cesare!
d - Veniamo alle cosiddette minoranze linguistiche della Basilicata. Chiariamo, innanzitutto, che quando si parla di lingua “Arbëreshë”, non si fa riferimento a quella parlata attualmente in Albania...
r -...Direttore, è proprio la domanda che mi auguravo. Si sta tentando di “barattare” la lingua dell’Albania...con la quale, in un certo senso, c’è un qualche riferimento; tuttavia qui stiamo parlando della lingua dell’ “Albanese d’Italia”, che fu importata dai profughi nel 1500/600. A ciò seguirono tutte le polemiche del vescovo di Melfi di quei tempi, Diodato Scaglia, che era contro il Rito Bizantino. Attualmente, così come la professoressa Del Puente e l’Unibas, noi si sta lavorando alla salvaguardia dei codici linguistici Arbëreshë, ovvero quelli di San Costantino Albanese, San Paolo Albanese, Ginestra, Barile, Maschito e non ultimo Brindisi di Montagna, che fino al 1904 fu una comunità Arbëreshë.
d - Si può fare un calcolo, anche approssimativo, circa le persone e le comunità “alloglotte”, che parlano dunque un’altra lingua, presenti in Basilicata?
r - Un discorso statistico si può fare fino a un certo punto. D’altronde, c’è un problema più generale: in Italia si parla solo l’Italiano? O magari “un certo” Italiano? Ci sono di mezzo i dialetti romanzi con le loro influenze, e poi, la lingua “domina”, ovvero l’Anglo-Americano. Pertanto, il codice della lingua italiana va difeso, al pari dei dialetti o delle lingue minoritarie. A suo tempo, il già ministro della Pubblica Istruzione, professore universitario di filosofia del linguaggio, Tullio De Mauro, ci incoraggiò a continuare in questo senso, con una serie di seminari tenutisi a Roma e a Frascati. Il codice linguistico degli Albanesi d’Italia è una storia bellissima, comprensiva del Rito Bizantino, che in Basilicata si celebra a San Costantino e a San Paolo Albanese, che a loro volta fanno parte dell’“eparchia” di Lungro (e infatti il vescovo bizantino viene chiamato “eparca”). In Italia ci sono altre due eparchie: a Piana degli Albanesi (in Sicilia) e a Grottaferrata (Roma).
d - In un comune Arbëreshë della Calabria, Santa Sofia d’Epiro, anni fa mi dissero che loro parlavano questa lingua “tutti i giorni”. Accade lo stesso nelle comunità lucane?
r - In gran parte sì, ma c’è sempre l’alea percentuale degli influssi dei dialetti circostanti e della lingua anglo-americana.
d - Quali sono i rapporti con le istituzioni? Come comunità Arbëreshë vi sentite adeguatamente rappresentati?
r - Beh, sì. Esiste una legge nazionale, la 482/99, che tutela le minoranze linguistiche: oltre a quella Arbëreshë, c’è la Franco-Provenzale, la Croata, la Grica (nel Salento), il Tedesco-Germanico etc. Ultimamente, inoltre, c’è stata una notizia bellissima: la Rai avvierà -speriamo presto- una serie di notiziari informativi, letti nelle lingue minoritarie.
d - Quindi, siete contenti.
r - Siamo contenti, sì, ma occorre sempre tutelare la lingua, cercando di far aprire biblioteche specialistiche; da noi ce ne sono solo due, albanofone, una a San Paolo Albanese (gestita dal Comune), e un’altra a Barile, il Centro documentazione “Basilicata Arbëreshë”, gestita dalla nostra associazione. Quest’ultima ha diversi collegamenti con realtà consimili in altre regioni d’Italia.
d - Lei ha portato qui al pranzo due libri: il primo, di cui abbiamo già discusso, si chiama “Cristo è nato a Barile”; il secondo (proveniente dalla vostra biblioteca sociale di Rionero, “Voce del Vulture”), scritto da Antonio Capuano, si intitola “Cristo di Eboli”. Insomma, Cristo è di Barile o di Eboli?
r - (Sorride) No, il secondo fa riferimento...
d -...a Carlo Levi, ovviamente.
r - Sì, e al suo Cristo che, fermandosi a Eboli, non ha portato lo sviluppo da noi. Il testo di Capuano narra dell’amicizia di Levi con l’editore Francesco Esposito. L’altro libro, come dicevamo prima, si riferisce invece al film di Pasolini, film che è “nato”, appunto, a Barile.
d - La mia era una provocazione: Cristo è ancora fermo alla stazione di Eboli?
r - Per certi aspetti sì. Le popolazioni, le comunità non si stanno ancora rendendo conto che tutte le nostre ricchezze, materiali e immateriali, se ne stanno andando “a quel paese”. Anche oltre Eboli, dunque. Stiamo parlando di acqua, di Stellantis...
d -...di petrolio.
r - Già. E quando ho saputo della scomparsa di Giuseppe Di Bello, mi sono dispiaciuto davvero molto.
- Scritto da Redazione
- Sabato, 30 Novembre 2024 07:41
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di Walter De Stradis
Gli scorci lucani dei suoi quadri li immagina di notte, ma di giorno, spesso e volentieri, recita poesie, per pubblici ristretti o più ampi (come all’ultima edizione del Festival di Potenza), spaziando in un repertorio che va da Eduardo a Scotellaro. Michele Ascoli, esponente di spicco di una “scuola potentina” di pittura che forse, in sé e per sé, non esiste, inaugurerà presto una delle sue (molto rare) mostre alla Torre Guevara, ciò che rimane di un vecchio quartiere vittima, parole sue, dei potentini “incivili”.
d - Come giustifica la sua esistenza?
r - Forse delle volte non la giustifico affatto.
d - Un’esistenza ingiustificata.
r - Ingiustificata, infatti. Le racconto un aneddoto. Molti anni fa mi recai a Palermo insieme ad altri colleghi dirigenti dell’Enel; il summit lo conduceva una donna preparatissima, che a un certo punto mi chiese: “Se potesse ottenere una grazia dal Divino, quale sarebbe?”. Io risposi: “Essere più intelligente”. Il mio vicino di tavolo, un collega di Napoli, invece se ne uscì così: “Io chiederei ‘na cosa ‘e soldi”.
d - Stavo per iniziare affermando che lei è un noto esponente della “scuola potentina”...ma, innanzitutto, esiste una “scuola potentina”?
r - Che io sappia, no. Sono esistiti, per quanto mi riguarda, personaggi di un certo rilievo e tra questi mi piace ricordare, più che Masini (che più volte mi ha dato dei, vaghi, suggerimenti), il professor Giuseppe Leone, che mi è stato vicino sin da ragazzo. Era il marito di Maria Padula, a mio avviso fra i tre pittori più bravi della Basilicata. Aggiungo con piacere anche Rocco Falciano, mio amico di infanzia, e Italo Squitieri, che per me è il numero uno. Gli altri? Rispetto tutti, ma non mi affascinano.
d - Diceva che è stato un dirigente Enel.
r - Sì, ho avuto questa fortuna di fare carriera.
d - Ma la pittura le dava la scossa...
r - La pittura mi ha suggerito di andare quanto prima in pensione.
d - Lei è un potentino verace. Di quale quartiere?
r - Santa Lucia, attenzione, non di quell’altro (Vico Addone) che gli incivili hanno distrutto. Infatti, quella che tutti chiamano Torre Guevara, io la chiamo Torre Degli Incivili.
d - Perchè?
r - Lì c’era il castello, e me lo ricordo vagamente...ero bambino. Ne è rimasto un mignolo. La Lucania è patria di castelli, uno più bello dell’altro (Moliterno, Venosa, Lagopesole, Brienza), e gli incivili di Potenza il loro castello l’hanno distrutto.
d - Siamo autolesionisti?
r - Autolesionisti, sì. Riconosciamo sempre il valore degli altri.
d - Molti dei suoi quadri sono scorci lucani: paesi, rocche, dirupi...
r -...la maggior parte sono paesaggi inventati da me, di notte.
d -...ma in questo catalogo che mi ha dato non vedo acqua.
r - Qualche volta l’ho anche fatta. Oggi dipingerei marine tranquille, ma con rigurgiti di acqua molto violenti, mi piace quell’acqua bianca che arriva e sbatte sulla sabbia.
d - Adesso però c’è solo sabbia.
r - (Ride) Adesso sì.
d - La crisi idrica che quadro dipinge della nostra regione?
r - Un quadro di incompetenza e, può darsi, di scarsezza di finanziamenti. Può darsi. Ma l’incapacità c’è senz’altro. Da bambino si diceva che, dopo quella di Vienna, l’acqua di Potenza era la migliore d’Europa. Oggi non ce n’è a sufficienza neanche per lavarsi le mani, o quasi.
d - Lei da piccolo viveva a Santa Lucia: oggi cosa è rimasto di quella “Potenza dei vicoli”, delle “cundane”? E’ sparito quello spirito o in qualche modo rimane?
r - Rimane. Non a caso, la mostra che inaugurerò il 14 dicembre alla Torre Guevara è intitolata “Le pietre che non vedete”. A Rione Santa Lucia sono rimaste infatti un po’ di quelle pietre che la gente aveva messo una sull’altra, con le mani bagnate di sudore, e avvolte da stracci. Ho voluto ridare vita a delle cose su cui la gente, nel vederle, oggi s’interroga e dice: “Cosa sono quelle robe vecchie?”.
d - E nello spirito del potentino è rimasto qualcosa di quel tempo?
r - Credo di no. Sono rare le persone che ripensano al passato, che è comunque il preambolo del futuro.
d - Il potentino di oggi è più chiuso in se stesso?
r - No, è più “sparpagliato”. E’ più “diluito”. Specialmente i giovani: sanno tutto, ma capiscono poco.
d - Fra poco inaugura una mostra, ma lei è noto per non farne molte.
r - E’ verissimo. Non amo esibirmi. Le ho mai chiesta un’intervista, io? Allo stesso modo, non ho mai chiamato i politici. C’è chi ha scritto su di me, bontà sua...non per merito mio.
d - Nel suo catalogo c’è un elenco di testimonianze, anche illustri, ed è molto nutrito...
r - Sì, a cominciare da Claudio Angelini, direttore Rai a New York...
d -...già, cosa ritiene li abbia colpiti? C’è un minimo comune denominatore fra questi commenti?
r - Forse sì, una sorta di intesa tacita tra questi critici. Tant’è che spesso li ho invitati a trovarmi dei difetti!
d - Qual è il suo peggior pregio?
r - In pittura? Evitare che i toni si spostino, sbilanciando il quadro. Un’altra cosa: non dipingendo più col pennello, bensì con la spatola, riesco a infondere minore o maggiore massa.
d - Il suo miglior difetto?
r - Non saper valorizzare le mie cose. Di centinaia e centinaia di quadri che ho fatto, ne salvo una ventina. Sono il peggior critico di me stesso, detto in parole povere.
d - Uno di quelli che ha scritto di lei è Lucio Tufano, il teorico dello “sconfittorialismo”, il cantore di quei lucani di talento, che -pur avendo un peso- non emergono a livello nazionale...
r - Lucio è un uomo eccezionale.
d - Tufano descrive dunque una Potenza molto “esterofila” e che rivaluta i suoi concittadini solo qualora siano risultati “vincenti” fuori regione.
r - Sono pienamente d’accordo con lui. E’ una conferma della sua preparazione. Ciò che lui descrive è qualcosa di secolare, è stato sempre così. Lei immagini Sinisgalli a Montemurro...
d - A proposito, lei è molto attivo anche in poesia, ma non come autore, bensì come “fine dicitore”.
r - Sono un “ladro dei poeti”. Mia madre, che non aveva studiato, mi diceva sempre: “Michele, leggimi una poesia”. Magari non capiva tutte le parole, ma si emozionava lo stesso.
d - La poesia è anche suono?
r - Proprio così. Lo diceva Borges.
d - Mettiamo che tra cent’anni (in questa città che abbiamo detto non essere sempre “riconoscente”), scoprano una targa a suo nome. Cosa le piacerebbe ci fosse scritto?
r - «Michele Ascoli, un modesto pittore».
- Scritto da Redazione
- Sabato, 23 Novembre 2024 07:31
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di Walter De Stradis
Il motivetto che fa “ti-ti-ti-ti” (come lo descriverà lui stesso) del brano “Popcorn”, lo conoscono praticamente tutti, trattandosi anche del primo brano elettronico-pop mai entrato in classifica nel nostro Paese. Lui, il cantante, batterista, produttore e scrittore torinese Valerio Liboni -che come membro de “La Strana Società”, lo registrò nel 1972- è da anni presenza, fissa e illustre, al “Festival di Potenza”. Organizzata come sempre dal direttore artistico Mario Bellitti, la kermesse (giunta alla 23esima edizione) si è tenuta per la seconda volta al Centro Teatrale Polivalente di Malvaccaro, nel capoluogo lucano.
d - Valerio, quando e dove nasce la sua amicizia col patron Mario Bellitti?
r - Innanzitutto chiedo scusa per il cappello, ma al di sotto c’è un taglio in via di guarigione. Beh, io avevo un amico a Contursi, o meglio un fratello: il mio impresario Mario Porcelli (che purtroppo non c’è più), e credo sia stato lui a portarmi, per la prima volta, al Festival di Potenza.
d - Immagino che la prima cosa che l’ha colpita della città è il freddo...confessi, ne parlava prima a microfoni spenti.
r - (sorride). No, mi piace venire qua. Al Sud ho lavorato per una vita intera e quindi ci vengo sempre con piacere. Mario, di suo, è un amico carissimo, ma soprattutto un organizzatore serio, onesto, e ogni anno con fatica costruisce questa bella serata, e la cura nei minimi particolari.
d - “Popcorn”, è il suo brano più famoso; “La Strana Società” e successivamente “I Nuovi Angeli” sono le band di cui ha fatto parte; com’è cambiato il panorama musicale italiano, rispetto a quei tempi...
r - (fa un segno di diniego... ndr)
d - Vedo che già scuote la testa. Spesso si dice che il problema sia l’assenza dei discografici di una volta.
r - No, non c’entra nulla, poiché ci sono altri manager molto più...”arrembanti” -chiamiamoli così- che costruiscono questi personaggi, che vengono fuori dal niente, con delle canzoni, di cui -secondo me- non si capisce una parola. Sono infatti brani con la “voce dentro” (termine tecnico) con dei testi a volte astrusi, che però piacciono moltissimo ai giovani e le radio li trasmettono, quasi tutte a pagamento. Cosa le devo dire? Io e molti miei colleghi in questa musica non ci ritroviamo; non mi piacciono questi “pupazzi” vestiti in maniera orribile, che tra l’altro non danno niente, nessuna emozione, non trasmettono nulla.
d - Però diceva anche che il pubblico li gradisce. E’ cambiato anche quello? O lo si è fatto, in qualche modo, cambiare?
r - No, no, il pubblico è proprio cambiato, non ha un’educazione musicale. Quando noi iniziammo a fare questo lavoro, c’era un entusiasmo, una voglia di conoscere. Avevamo dei maestri, incredibili, sia italiani sia provenienti da Oltreoceano. C’erano dei personaggi molto importanti. Non lo so come mai si sia verificato questo cambiamento, ma immagino sia tutta una questione di soldi. Anche perché questi personaggi magari fanno un pezzo o due, partecipano a queste trasmissioni (che io detesto cordialmente) e poi spariscono.
d - Nonostante tutto, questi “talent show” spopolano in vari settori dello spettacolo (nonostante anche la presenza di alcuni “giudici” sulla cui “titolarità” a giudicare gli altri è lecito interrogarsi): si tratta comunque di opportunità che prima non c’erano?
r - Beh, intanto è molto difficile entrarci, a meno che tu non conosca qualcuno. Non so se sa che ad “Amici” sono tutti “parenti di...”, “figli di...”, “nipoti di...” e “amici di...”; anche se devo dire che il livello di quella trasmissione (sia per la danza sia per la canzone) è il migliore tra tutti i “talent”. Gli altri, per la verità, non li guardo, quindi non saprei neanche dirle chi c’è e chi non c’è. Non mi interessa nella maniera più assoluta. E lo stesso vale per i miei amici.
d - E invece qual è il consiglio che lei dà agli artisti, fra quelli giovani ed emergenti, che partecipano a una manifestazione storica come “Il Festival di Potenza”?
r - Guardi, solo qualche minuto fa, nel corso delle prove, ho ascoltato una ragazza -di cui ignoro il nome- che potrebbe partecipare tranquillamente ad “Amici”. La bellezza di questa manifestazione è proprio questa: a volte Mario fa ascoltare, a me e ad altri produttori presenti, dei talenti che possono davvero ambire a qualcosa di più grosso, se qualcuno li prende per mano e li conduce verso quella carriera.
d - La provoco un po’, a proposito di programmi con giurie. Ho visto “I Cugini di Campagna” partecipare a “Ballando con le Stelle”...lei ci andrebbe, se ne avesse l’opportunità?
r - I “Cugini” ci sono andati perché Ivano è molto amico della Carlucci. Loro sono un’icona in Italia, tra l’altro grazie a una canzone sola, “Anima mia”. Io li conosco molto bene, sin dal 1975, in quanto con noi della “Strana società” condividevano la stessa vettura. Loro avevano già questo successo, solo che al posto di Nick c’era chi ha scritto veramente quella canzone, che -non so se lo sa- è Flavio Paulin. Loro fanno benissimo a sfruttare tutte le opportunità televisive (dispongono di un bellissimo ufficio promozione), perché in questo modo fanno un sacco di serate; si tratta di un gruppo da duecento serate l’anno. Io? Certo che ci andrei, a “Ballando”. Domani mattina.
d - Il suo brano più famoso è “Popcorn”, ma è proprio quello col quale -tra cento anni- vorrebbe essere ricordato? O magari ce n’è un altro.
r - Diciamo, innanzitutto che quel brano ha una storia particolare. “Popcorn” è un pezzo del 1960, scritto da un certo Gershon Kingsley. Venne portato in Italia da un produttore torinese, Ivo Lunardi, e dal suo socio, che produceva anche gli Earth Wind & Fire, stiamo quindi parlando del top. Lunardì portò questo 45 giri a Torino, nel mentre io avevo un gruppo, “La Strana Società”, che era un quintetto che faceva solo rock e che in repertorio non aveva un solo brano in Italiano. Pertanto lo propose a me, e io gli dissi che quel pezzo strumentale non sapevo neanche come si facesse. Lunardi però insistette, dicendomi che mi avrebbe cambiato la vita. Partimmo dunque per Milano, alla volta della sala di registrazione in via Meda 45, e vi trovammo un VCS3, un sintetizzatore a oscillatori, che era appartenuto a Keith Emerson (quello di "Emerson, Lake & Palmer"). Ma nessuno sapeva usarlo. Il fonico di allora era Plinio Chiesa e tenga presente che all’epoca i fonici indossavano il camice bianco, e non i pantaloni strappati, Pertanto, con un “quattro tracce”, girando la macchina a metà velocità, e facendo così col dito sulla tastiera “ti-ti-ti-ti” (io ero alla batteria), facemmo “Popcorn”, praticamente a memoria. Il tizio a quel punto ci chiese se avevamo qualcos'altro, per “dietro”.
d - Il lato B.
r - E chi ci aveva pensato. Eravamo poveri, facevamo una gran fame, avevamo un furgone tutto scassato... ma poi mi ricordai di un pezzo che avevamo fatto, si intitolava “Nel giardino di Tamara”. E, niente, andammo a suonare a Laiqueglia e la mattina dopo venne uno che ci annunciò che eravamo in hit parade. Così nacque “La Strana Società”. Il nostro “Popocorn” vendette dodici milioni di copie in tutto il mondo. Dunque, sì, voglio essere ricordato per quel brano lì.
d - Lei però in tempi recenti si è molto dedicato alla letteratura.
r - Sì, ho scritto quattro libri. Il primo si chiama “Crash”, edito da Franz Di Ciccio (sì, proprio quello della PFM); il secondo è dedicato alla mia squadra del cuore, il Torino (di cui ho scritto anche l’inno, che vanta un milione e mezzo di visualizzazioni, e che ogni tanto vado a cantare allo stadio); il terzo s’intitola “Stasera Liboni” (dedicato a me e a mio padre, che era la spalla di Erminio Macario); l’ultimo si chiama “Storie” ed è una serie di racconti di viaggio.
- Scritto da Redazione
- Sabato, 16 Novembre 2024 07:44
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di Walter De Stradis
Hanno iniziato, come si suol dire, “sui banchi di scuola”, ma poi la loro passione per la musica elettronica (quella che potremmo definire “house music”) li ha fatti diventare, nell’arco di venti anni, un duo storico nell’ambito della “club culture” potentina. Ma non solo: Aniello Golluscio e Maurizio Marchese, al secolo gli “Shake Beat”, sono anche -rispettivamente- presidente e tesoriere dell’associazione culturale “Open Space”, che conta migliaia di iscritti.
E scusate se è poco.
d - Ricordate il momento in cui, da semplici frequentatori di serate musicali, siete passati dall’altra parte, ovvero dietro la consolle?
r - (Aniello) E’ iniziato tutto grazie a un amico, che ci ha avviati all’ascolto di un genere musicale peculiare e poco diffuso dalla radio. A un certo punto la passione è diventata tale da spingerci a selezionare questa musica e a suonarla, nei vari posti in cui ci chiamavano. Avevamo circa sedici anni.
d - Immagino che abbiate iniziato dalle feste scolastiche, ma poi vi siete ritrovati anche su scenari importanti, anche europei.
r - (Aniello) Sì, siamo stati a Berlino, a Roma, a Milano e a Firenze. E’ in programma un nuovo evento nella Capitale, il 29, al famoso “Sanctuary”. A Firenze ci torneremo a dicembre.
d - E in Basilicata quante date avete fatto?
r - (Aniello) Non le abbiamo mai contate.
d - Chiedevo, perché mi dicevate prima che gli iscritti alla vostra associazione culturale, “Open Space”, sono 7.500!
(Maurizio) E’ un buon risultato.
(Aniello) Lo scopo è divulgare la musica dal punto di vista culturale, ma sono incluse anche presentazioni di libri e quant’altro afferente a questo mondo. Ricordo con piacere anche una collaborazione proprio con “Controsenso”, di alcuni anni fa.
d - Siete sulla scena da vent’anni, avete iniziato selezionando vinili?
r - (Maurizio) Sì, proprio col giradischi e un mixer. Iniziammo a comprare i vinili e a mixarli “a orecchio”, mettendo due dischi insieme sotto la stessa battuta.
d - La domanda nasce spontanea: e dove li compravate, a Potenza, certi dischi?
r - (Aniello) A Potenza no, li compravamo in Germania, per posta. Aspettavamo “anima anima” che arrivassero.
(Maurizio). Quando capitavamo dalle parti di Roma o Firenze, li compravamo lì, dopo averli ascoltati.
d - Adesso l’uso degli mp3 ha consentito praticamente a chiunque di improvvisarsi DJ, nei generi musicali più disparati. Voi come vi muovete?
r - (Aniello) “Suonando” gli mp3 “sopra” i vinili. E’ una tecnologia in voga da una decina d’anni, nei DJ set di tutto il mondo. Noi non prepariamo mai la scaletta, ci lasciamo ispirare dalle varie situazioni, ma ciò comporta che portarsi dietro due-trecento dischi diventa una cosa impraticabile. Pertanto, utilizziamo questi vinili speciali, con delle schede audio (dopo aver regolarmente acquistato degli mp3 da alcuni portali) attuando un processo inverso: la puntina del giradischi, anziché “leggere” il vinile, lo “scrive”. In questo modo, tu mantieni il controllo su un disco fisico, che però è un vinile “magico” che veicola degli mp3.
d - Spostiamoci sul discorso “movida” a Potenza. Con la vostra associazione, qualche anno fa, avete dato vita al progetto “Basentum”, sul fiume Basento, appunto, con l’istallazione di alcuni gazebo. Quell’evento fu foriero, però, anche di molte polemiche.
r - (Aniello) Sì, molte. Usammo materiali di uso comune, legno e quant’altro, onde evitare un impatto invasivo, come da prassi. L’unica cosa che disturbava un po’, evidentemente, era il bel movimento che si era creato, con numeri importanti, con gente che veniva addirittura dalla Campania.
d - Quindi a Potenza, nel vostro settore, c’è invidia?
r - (Aniello) Più che altro, fu una questione di politica e permessi. Noi ci eravamo limitati a leggere un bando, a parteciparvi e a essere autorizzati.
(Maurizio) Dopotutto si trattava di rivitalizzare un posto completamente abbandonato a se stesso.
d - Specie d’estate, puntualmente, divampano le polemiche sulla “movida notturna” in città, nel Centro in particolare. C’è chi lamenta rumori, schiamazzi, comportamenti inappropriati da parte di alcuni giovani, e quindi la questione è spesso sui giornali, compreso il nostro.
r - (Aniello) La questione centro storico è molto complessa.
(Maurizio) Anche in virtù dell’età media dei residenti, che è molto alta. Il che spinge alcuni di loro a non tollerare...
(Aniello)...ma giustamente, anche. Perché c’è chi si comporta bene e chi si comporta male, ma non si possono giustificare atteggiamenti incivili o ineducati. Tuttavia, spesso gli organizzatori, comunali o privati che siano, perdono le speranze: ottenere un permesso (per una serata, un Festival, la presentazione di un libro) è molto difficile; e una volta ottenute le autorizzazioni, diventa complessa anche la questione sicurezza. Cioè, è giusto, ma una città come Potenza, se è a corto di eventi, va subito in declino.
d - C’è troppa burocrazia?
r - (Maurizio) Sì, troppa.
(Aniello) A volte si tratterebbe di chiudere un occhio, per far del bene alla città, non per fare disastri. Molte volte, invece, vengono messi i bastoni tra le ruote.
d - Da parte di chi?
r - (Aniello) Non saprei dirlo, però a volte trovare una “presenza” negli uffici, o altrove, è molto complesso. E’ difficile arrivare a una soluzione seduti a un tavolo; ogni volta è necessario fare più incontri, più sedute, e quindi l’imprenditore o l’associazione di turno si stanca. A quel punto, o fa le cose alla carlona, tanto per farle, o rinuncia del tutto.
d - Il dibattito è anche un po’ questo: da sempre esiste il ritornello “A Potenza non c’è mai niente”; ma ci sono quelli che invece sostengono che nel Capoluogo le iniziative non mancano. I vostri 7.500 iscritti lo testimonierebbero. Insomma, Potenza è “viva” o no?
r - (Aniello) E’ “viva”, eccome. Anche se fanno di tutto per farci “morire” , in senso lato...
(Maurizio) ...per farti gettare la spugna, per farti perdere gli stimoli a promuovere qualcosa di diverso nella città, ma che altrove vedi dappertutto. Nelle nostre “one night” mensili ospitavamo anche DJ dall’estero. Il punto è: perché ciò deve accadere solo in altre città e non anche a Potenza?
d - Voi dite: “Ci vogliono far gettare la spugna”; ma cosa significa: c’è una volontà precisa o si tratta solo di “inedia”?
r - (Aniello) Non è una volontà. Semplicemente, vedo e noto che gli eventi ci sono (dal teatro alle mostre di pittura); tuttavia, rendendo le cose difficili per il popolo che magari ama la musica live o la discoteca, così come per l’intenditore d’arte, si rende la città meno vivibile rispetto ad altre realtà. Bisognerebbe essere un po’ più aperti mentalmente, tutto qui. Proprio il detto “A Potenza non c’è mai niente”, spinge la gente a non seguire più le cose.
d - E’ un cane che si morde la coda: meno le cose si fanno e meno si ha voglia di farle.
r - (Aniello) Proprio così. Aggiungerei: “E meno si ha la voglia di seguirle”. In questo momento, se la nostra e le diverse altre realtà ottengono seguito, l’organizzatore (pubblico o privato) è più invogliato a creare delle situazioni.
d - Pertanto, il messaggio rivolto, non so, a sindaco o governatore, quale potrebbe essere?
r - (Aniello) Dare più spazio ai giovani, consentendo loro di organizzare cose...
(Maurizio) E ci vuole più tolleranza. Specie se pensiamo che ci sono tanti spazi vuoti abbandonati.
(Aniello) L’esempio più eclatante è proprio il fiume.
d - Altra questione assai dibattuta: esiste collaborazione tra le varie associazioni?
r - (Maurizio). Esiste, abbiamo fatto alcune cose, ma poi arriva puntualmente il momento in cui c’è chi vuole avere sempre l’ultima parola o vuole essere predominante.
(Aniello) Il mondo delle associazioni ha voglia di fare, ma -come dicevo prima- se troppo vuoi, non te lo permettono. Noi abbiamo collaborato con altre associazioni, che da anni si sbattono come noi, per fare delle lezioni musicali nei centri estivi, alla “Torraca”, alla “La Vista” etc.
d - So che questo sabato (oggi, per chi legge), c’è un evento importante.
r - (Maurizio) Al “Basilikos” ospiteremo Sara Bluma, una famosa DJ internazionale, “resident” di uno dei più importanti club romani, che a sua volta ha sedi distaccate anche in Costa Smeralda e a Mykonos.
(Aniello) Noi le faremo da spalla e dobbiamo dire “grazie” all’organizzazione di un privato, che condivide con noi questa passione da anni, Mladen Lazic, figlio di Ranko, noto allenatore di calcio.
d - Ritenete che l’abbinamento che alcuni fanno, “musica elettronica = rave”, in qualche modo vi danneggi? O voi non c’entrate nulla con quel mondo?
r - (Maurizio) Non c’entriamo assolutamente nulla. I rave sono fatti in posti illegali, invece la musica elettronica che proponiamo noi si basa sulla “club culture”, ovvero la cultura del club, quello legale.
d - Esiste un brano, nel vostro genere, che si adatterebbe a titolare la situazione attuale della Basilicata?
r - (Maurizio) Difficile individuarne uno, considerato il nostro bagaglio di conoscenze.
(Aniello) ...anche perchè la Basilicata è in constante evoluzione. Non so se più nel bene o più nel male. Forse un po’ più nel male.
- Scritto da Redazione
- Sabato, 09 Novembre 2024 07:05
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di Walter De Stradis
Forse, più che un giornalista, per descrivere la bellezza sfolgorante del contesto, ovvero la Sellata, ci sarebbe voluto un poeta (ma bisognerà accontentarsi). E’ infatti in quella splendida e coloratissima cornice, che abbiamo incontrato -al Parco Ricevimenti Hotel Pierfaone (di cui è direttore)- il presidente dell’Associazione Cuochi Potentini, Donato Pessolani.
d - Presidente, la sua associazione esiste addirittura dal 1975.
Sì, l’anno che viene compieremo cinquant’anni. Rappresenta tutti gli associati sul territorio, tantissimi colleghi professionisti che ne fanno parte da tanto tempo, ma anche molti allievi, ai quali si cerca di trasmettere i valori della professione del cuoco.
d - Però l’associazione è aperta, mi pare di capire, anche agli amatoriali, agli appassionati di cucina.
r - Esattamente, vi partecipano anche amatori e tutti coloro che si vogliono avviare al mondo della cucina e delle ristorazione. L’associazione nasce preminentemente per rappresentare la nostra professione, con particolare riferimento alla trasformazione dei prodotti del territorio. Noi siamo paladini, portiamo la Basilicata fuori dai confini, attraverso i prodotti che ci offre.
d - Mediaticamente parlando, questo è un momento in cui la cucina, i cuochi, gli chef, hanno grande visibilità; sono dappertutto, disseminati in moltissimi programmi televisivi. Il messaggio che arriva ai telespettatori è sempre quello giusto?
r - Occorre distinguere. E’ vero, oggi la televisione ci offre una grande vetrina e il cuoco non è visto più soltanto come uno “spadellatore”, trattandosi invece di un uomo di cultura che trasforma i prodotti in un certo modo, rispettando il territorio e gli abbinamenti utili a un’alimentazione più corretta. Pensi alla citatissima “dieta mediterranea”, che ben rappresenta ciò che facciamo noi. Però, come dicevo, bisogna distinguere lo “show” che appare in tv, dal mestiere vero e proprio, che rimane dietro le quinte, ove c’è tutta una conoscenza, un sacrificio, una dedizione, impiegati affinché i clienti si sentano bene. Tra l’altro noi lucani siamo ottimamente rappresentati in Federazione nazionale, in virtù della presidenza di Rocco Pozzulo, fattore che contribuisce alla visibilità del cuoco lucano a ogni livello.
d - Ambasciatori dei sapori lucani, ma -abbiamo detto- anche dei valori. In che modo?
r - Abbiamo cucinato in vari posti del mondo, Brasile, Francia, la settimana prossima saremo a Tirana. Il punto è far conoscere il nostro prodotto in modo tale che anche all’estero noi si venga riconosciuti come terra di coltivazione: abbiamo il peperone di Senise, il canestrato di Moliterno, il formaggio podolico, i fagioli di Sarconi. Ci sono poi gli abbinamenti coi vini dell’Aglianico e le trasformazioni che proiettano all’esterno l’immagine di una Basilicata che ESISTE e che è foriera di grandi prodotti.
d - Ma c’è un minimo comune denominatore, fra tutti questi prodotti, che differenzia la cucina lucana da tutte le altre?
r - Credo che la nostra differenza risieda in una cucina, tra virgolette, povera. La patata rossa di collina, assieme al peperone, per i nostri contadini rappresentava il cibo da portare in campagna quando si andava a lavorare. Pensi al nostro strascinato, con peperoni cruschi e mollica di pane: nasceva da un grano di grande qualità, quello del senatore Cappelli e poi, il pane che avanzava, sbriciolato, con un po’ di olio extravergine, magari di Ferrandina, andava a comporre, assieme a una sbriciolata di peperoni, un “piatto povero”, ma saporito e consistente.
d - A proposito di “povertà”, la vostra associazione è stata spesso protagonista di “pranzi sociali”, come “U muzz’c d San Gerard”, tenutosi qualche giorno fa.
r - Per noi, essere a disposizione anche di chi non può avere un pranzo fatto per bene la domenica, è fondamentale. Prima di Natale ripeteremo un’esperienza simile all’Hospice. Si cerca di lenire un po’ di sofferenza per queste persone, facendole sentire bene a tavola, all’interno di una giornata diversa dal solito.
d - Questi pranzi solidali che immagine vi restituiscono a proposito della povertà nel capoluogo?
r - Il problema c’è dappertutto. Noi giriamo un po’ tutte le regioni d’Italia e a Potenza, come in tutte le città, ci sono persone che hanno bisogno di essere aiutate, accolte, integrate. Noi, come associazione, ci occupiamo del lato cibo, ma poi avremmo bisogno di tante altre realtà -e anche forse della politica- affinché queste persone possano essere accolte in maniera dignitosa. L’altro giorno, in occasione del “Muzz’c”, è stato bellissimo: c’eravamo noi, il vescovo, il sindaco, l’assessore Mongiello. Tutti insieme, disponibili a far vivere questa bella giornata. Serviamo un po’ tutti, ecco.
d - Come associazione avete qualcosa da chiedere alla politica?
r - La ringraziamo, la politica, perché -per quel che ci riguarda- sono sempre molto disponibili. Non è una risposta di facciata: ovunque siamo andati, abbiamo chiesto il loro sostegno, e sono sempre al nostro fianco. Credono nei cuochi e nel fatto che possiamo esportare la conoscenza della Basilicata. Guardate che il nostro lavoro, oltre a quello di cucinare bene, è anche quello di far conoscere la regione!
d - Ai clienti lo raccontate, anche, il piatto?
r - Assolutamente sì. Spieghiamo come viene fatto il prodotto a chilometro zero, come si tratta, come si cucina, come si conserva...Il connubio politica e associazioni è molto importante perché la Basilicata, ahimè, non proprio è riconosciuta in tutti modi. E quindi, serviamo anche noi, ma abbiamo bisogno di aiuto. Ma sono convinto che riusciremo tutti in questo intento.
d - Ma il cliente vi chiede anche le “storie”, quelle di una volta, che ci sono dietro i piatti e le ricette?
r - Il cliente è MOLTO interessato a questo. Attenzione: fra vent’anni, i nostri figli e nipoti non sapranno più cos’è la pasta di casa, come si fa il maiale, come si prepara la salsiccia e si conserva la sugna. I clienti chiedono e noi ci stiamo applicando per far sì che le nostre tradizioni siano portate nel tempo.
d - Le faccio una provocazione: visto che ne siamo circondati, è immaginabile, in futuro, anche la nascita di un qualche “All you can eat” di cucina lucana?
r - Non giudichiamo mai il lavoro che fanno gli altri, ma la nostra non può diventare una cucina di massa. La nostra cucina va ricercata, vissuta, gustata. D’altronde, in questa Basilicata che propone un turismo all’insegna della vita “lenta”, della natura, della passeggiata, noi abbiamo bisogno di gustarli, i nostri piatti. Non si può massificare. Il prodotto di nicchia non lo trovi tanto facilmente, va ricercato e poi venduto, o servito, con una certa esperienza e qualità.
d - Due parole sulla location. Lei stesso ha denunciato, sulle nostre pagine, che non sempre la Sellata si è fatta trovare pronta all’appuntamento coi turisti che vogliono praticare sci da queste parti. Siamo alla vigilia della stagione: com’è la situazione?
r - Sembra che gli impianti si apriranno, sempre che arrivi la neve. Vorrei fare una premessa: oggi la montagna non è solo sci, l’impianto deve girare 365 giorni all’anno, perché la zona va vissuta in tutte le sue sfaccettature. Oggi, come può ben vedere, è una giornata fantastica d’autunno, da vivere con delle passeggiate. E qui serve la politica. Occorre dare una “accoglienza certa”, che si verifica se l’impianto gira tutti i giorni. Da parte nostra, stiamo cercando di dar vita a un consorzio, un’associazione di imprese, sia con Viggiano sia con Lauria, poiché la seggiovia è la montagna, non è solo “sci”, ma tutto un insieme. E la politica, così come sostiene i costi di un pullman che fa la tratta Abriola-Potenza, o Calvello-Potenza, dovrebbe sostenere i costi di un impianto che gira tutti i giorni e fa vivere la montagna. Altrimenti, diventa faticoso aprire “all’occorrenza”: non è un lavoro che si può fare “a bottone”. La politica DEVE sapere che in un contesto professionale, in presenza di questa offerta ricettiva a 360 gradi, i servizi servono tutti i giorni. La montagna va passeggiata, va vissuta. Qui abbiamo un clima pazzesco, fantastico, da vivere all’insegna della salute e del benessere, visto anche lo stress che c’è nelle città.
d - Mentre parliamo (è mercoledì – ndr), alla radio discutono della vittoria di Trump alle presidenziali USA. Cosa gli cucinerebbe, se fosse invitato alla casa Bianca, e perché?
r - In linea con quanto ho detto finora, userei il peperone crusco di Senise, il nostro pane, e la farina del grano senatore Cappelli. Gli cucinerei gli strascinati, che sono la nostra tradizione: olio extravergine, molliche di pane preparate a parte e aromatizzate; saltiamo tutto in padella, e aggiungiamo il cacioricotta nostrano. Secondo me, si farebbe bella figura. E Trump sarebbe ben contento.
- Scritto da Redazione
- Lunedì, 28 Ottobre 2024 16:43
Maglia nera alla Basilicata per presenza femminile nei Consigli di amministrazione. Il dato emerge da un’indagine di Manageritalia, che posiziona la regione all’ultimo posto nella classifica italiana con appena il 16,6 per cento di donne nominate nei Cda aziendali.
“Il punto – commenta la consigliera regionale di parità, Ivana Pipponzi – non è la mancanza di professioniste con titoli e competenze adeguate a ricoprire posizioni di vertice”.
Nel 2023 la Basilicata è stata una delle 13 Regioni ad aderire a “Woman on board 2023”, un progetto che ha fornito, principalmente alle donne, gli strumenti necessari per occupare ruoli di responsabilità nelle aziende e nelle società pubbliche e private.
“La formazione universitaria e gli stessi master post laurea non bastano più” – aggiunge Pipponzi. “Oggi conta moltissimo la formazione continua, l’essere continuamente aggiornati. Le donne lucane, avvocate, commercialiste, consulenti del lavoro, hanno colto l’opportunità offerta da “Woman on board 2023”. Alla fine del percorso formativo, è stata creata una short list a disposizione delle società che ricercano talenti per le posizioni apicali. Un elenco, consultabile sul sito del mio ufficio, dal quale le aziende della regione possono attingere per inserire manager donne nei propri Cda”.
La differenza tra uomini e donne in termini di opportunità, accesso, diritti, status è evidente nelle aziende. Eppure è dimostrato che le imprese che investono sulle donne crescono di più e sono più competitive. “Le donne – sostiene ancora la consigliera di parità – hanno visione, prospettive e competenze diverse da quelle degli uomini, portando così a decisioni più informate e migliori. La legge determina i casi nei quali è un obbligo il rispetto della quota di genere per i Consigli di amministrazione. E’ auspicabile, invece, che ci sia una maggiore apertura alle donne manager anche nei cda anche dove tale opzione è discrezionale. Sarebbe una scelta importante e antidiscriminatoria, un passo in avanti verso una maggiore uguaglianza di genere e fonte di progresso per le aziende stesse”.
- Scritto da Walter De Stradis
- Sabato, 12 Ottobre 2024 07:00
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Con un timbro vocale pacato e una leggera inflessione pugliese (è originario di Molfetta), da pochi giorni l’ingegner Domenico De Pinto è il nuovo Comandante Provinciale dei Vigili del Fuoco di Potenza. Nella sua carriera, ha ricoperto importanti ruoli tecnici e operativi, partecipando alle attività di soccorso in occasione di diversi eventi sismici di rilevanza nazionale, tra cui il terremoto delle Marche nel 1997, dell’Aquila nel 2009 e dell’Emilia Romagna nel 2012
d - Comandante, lei viene qui a Potenza a ricoprire un ruolo molto importante, che nello scorso anno e mezzo è stato ricoperto -ad interim- dallo stesso direttore regionale.
r - Sì, il posto era rimasto vacante, ma in quel periodo è stato ricoperto egregiamente da Vincenzo Ciani, che ha una grandissima esperienza di comando, oltre che di direttore. Grazie a lui, quindi, il Comando non ha subito alcun contraccolpo e tutti i servizi sono andati perfettamente in linea. Tuttavia, va da sé che in ogni Comando provinciale ci vuole una figura di Comandante, con la sua presenza fissa, continua, e i suoi rapporti con le istituzioni locali e soprattutto con il personale: quest’ultimo ha bisogno di vedere la figura di riferimento, che è appunto il Comandante.
d - Trattasi di una figura operativa che...
r - ...è una figura assolutamente operativa. Nella mia carriera ultra-trentennale ho partecipato a numerosissimi interventi di soccorso, anche a livello di calamità nazionale.
d - E adesso si ritrova qui a Potenza, territorio sismico.
r -E’ così. So anche che è in fase di conclusione un piano di emergenza provinciale, nel quale un eventuale sisma rientra tra gli eventi presi in considerazione.
d - Lei è pugliese, quindi un nostro vicino: quali sono le caratteristiche della nostra provincia da attenzionare maggiormente?
r -Mi sono insediato da una settimana e ho bisogno di studiare bene il territorio. Il mio ultimo comando è stato a Foggia, un territorio molto differente; oltre a Foggia stessa, che conta 160mila abitanti, sono presenti tre grandi centri urbani (Cerignola, San Severo e Manfredonia), che insieme ne contano almeno altri 160mila. Per non parlare di una lunga superficie costiera, delle isole Tremiti, del Parco del Gargano e del Subappennino Dauno, che è poi quello che più si avvicina al territorio della provincia di Potenza. Quest’ultima, invece, consta di molti più comuni, più piccoli, su cui si riversano problematiche diverse.
d - A cominciare dai collegamenti.
r -Sì, ho visto: in alcuni casi per raggiungere un posto ci si impiega anche due ore, due ore e mezza. Fortunatamente, Potenza è anche baricentrica rispetto all’estensione della provincia. Tuttavia devo dire che i nostri distaccamenti coprono perfettamente il territorio. Abbiamo una copertura a Nord e un’altra a Sud, alle quali poi sia aggiungono anche due distaccamenti volontari, che per me sono una parziale novità. A Milano, dove ho lavorato, c’erano, ma a Foggia e Barletta no.
d - Interessante. Ci spiega meglio di cosa si tratta?
r -I distaccamenti volontari sono formati da persone che non sono vigili del fuoco permanenti (assunti per concorso); fanno un altro lavoro, ma “a chiamata” raggiungono il distaccamento, si tolgono il cappello da operaio o da professionista, e diventano vigili del fuoco a tutti gli effetti. I due nostri distaccamenti sono a Terranova di Pollino e a San Chirico Raparo. Sono molto operativi e noi facciamo grande affidamento su di essi.
d - Diceva, quindi, che questa cosa non è presente ovunque.
r -No. Cioè, al Nord è quasi normale avere distaccamenti volontari (Torino ne ha una quarantina), che vanno avanti anche per tradizione familiare (con passaggi di testimone tra padre e figlio) e includono anche imprenditori che -come in Brianza- proteggono le numerose strutture presenti, attivando una sorta di auto-tutela (anche se, come vigili del fuoco, ci sono anche per tutto il resto e costituiscono un rafforzamento degli strumenti dello Stato).
d - Come si diventa vigile del fuoco volontario?
r -Di solito l’iniziativa parte dal Sindaco. Nel fare richiesta, questi mette a disposizione una struttura (un “piccolo comando”, che deve essere vagliato da noi, con camerate, bagni, autorimesse, etc.); dopodichè emette un bando, a cui possono partecipare anche i residenti delle città limitrofe. Dopo alcune visite mediche predisposte da noi, superate queste, i vincitori del bando partecipano a un nostro corso, di 120 ore; a quel punto mandiamo tutto l’incartamento al Ministero per l’iscrizione nei quadri volontari dei Vigili del Fuoco. E’ quindi una procedura abbastanza lunga, non è una cosa semplice, ma se c’è la volontà, si fa.
d - Lei ha già incontrato il Prefetto. Cosa si aspetta dalle altre istituzioni?
r -Nulla, perché ho già trovato totale disponibilità. La necessaria collaborazione inter-istituzionale già c’è, quindi non devo fare altro che continuare su questa linea.
d - Cosa chiede invece al cittadino?
r -Non vorrei utilizzare delle frasi fatte, parlando di “coscienza civica”, ma da quel che ho capito, qui già c’è.
d - Però, in base alla sua esperienza, quanti incendi, quante calamità dipendono dal comportamento o dalla negligenza umana?
r -Se pensiamo agli incidenti stradali, agli incendi boschivi etc. direi che un 50% è dovuto a un errore umano, a una negligenza, a un atto, anche non doloso. Ma noi ci siamo anche per questo.
d - Che impressione le ha fatto la città di Potenza?
r -Bellissima.
d - Addirittura.
r -Non è per piaggeria. Potenza non la conoscevo, né il suo territorio. Sono arrivato non sapendo cosa mi aspettasse, sia dal punto di vista del Comando sia dal punto di vista del territorio. Son quindi “salito” -dico bene?- un paio di volte in città...
d - Sì, da noi si dice proprio “salire”, perché il Centro è in alto.
r -Invece Foggia, da dove provengo, è completamente piatta, e io a volte mi muovevo addirittura in bicicletta. Qui ho verificato che forse l’unica difficoltà è “salire” e trovare parcheggio. Però il centro storico...c’è una bella piazza, ci ho passeggiato, c’è bella gente, ci siamo fermati a prendere un bel caffè in un bel bar...
d - Si è sentito a suo agio.
r -Mi ha tolto le parole di bocca, ma mi sono sentito subito a mio agio anche qui al Comando.
d - Ecco, che tipo di situazione ha trovato? E’ soddisfatto del numero di mezzi e di personale?
r -Ho avuto già una prima impressione quando, saputa la mia destinazione, sono venuto a trovare il direttore Ciani (che è stato il mio comandante a Foggia e col quale c’è un grande rapporto di intesa); ho attraversato il piazzale, e ho sgranato gli occhi. Ho visto dei mezzi, nuovi, tenuti in efficienza, puliti, pieni di attrezzature. E li guardavo con un po’ di invidia, perché in quel momento ero ancora in servizio a Foggia. (sorride)
d - Beh, allora, qui a Potenza, una volta tanto, possiamo dare i punti agli altri.
r -Assolutamente sì. E considerate che io ho fatto anche il reggente vicario del Comando di Bari per sei mesi: ovviamente quella struttura ha un’altra grandezza, ma Potenza, in quanto a mezzi, non ha nulla da inviare a nessuno.
d - Vorrei chiudere con una riflessione. A microfoni spenti abbiamo fatto cenno ai due vigili del fuoco di Matera morti questa estate nell’adempimento del loro dovere, e lei mi ha detto che, poco prima di trasferirsi qui, un suo capo-reparto di Foggia aveva perso la vita. Che tipo di riflessioni nascono in un vigile del fuoco quando succedono queste cose?
r - (Silenzio) Guardi, avevo i brividi mentre mi faceva questa domanda. Non è una frase fatta: i vigili del fuoco sono una famiglia. Noi abbiamo una famiglia di sangue (genitori, figli, nipoti) e poi quella dei Vigili del Fuoco. Lavoriamo in turni da 12 ore, siamo sempre insieme, lavoriamo in squadra, perché da soli non siamo nessuno. Si forma quindi un legame affettivo, magari si litiga anche, ma poi si torna come prima: si mangia insieme, si riposa insieme, si festeggia insieme e soprattutto si lavora insieme. E in team lavoriamo guardandoci negli occhi. Quando si perde un collega, si perde un familiare. Nel mio caso, quel collega lo conoscevo praticamente da vent’anni. E l’avevo incontrato due giorni prima dell’evento: c’era stata una bomba d’acqua, lui tornava da un intervento di soccorso ed è stato sommerso dalla piena di un canalone. La sua famiglia adesso è diventata anche la mia.
d - Oltre al dolore personale, in questi quasi c’è magari anche, non so, un rammarico?...Vi sentite tutelati sul lavoro?
r -Noi siamo SEMPRE tutelati sul lavoro. Per salvare gli altri, per tutti gli interventi di soccorso, noi operiamo sempre con tutti gli accorgimenti. Se il soccorritore non opera in sicurezza, mette a rischio se stesso e gli altri. Ci sentiamo assolutamente tutelati, abbiamo mezzi e procedure all’avanguardia. Ovviamente, ci sono degli eventi imprevedibili: un’onda di piena non te l’aspetti, il vento che cambia direzione mentre sei nel fuoco e ti intrappola, non lo puoi prevedere. Ma c’è sempre un lavoro di squadra e un’attenzione altissima, che garantiamo sempre.
- Scritto da Redazione
- Sabato, 14 Settembre 2024 07:09
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di Walter De Stradis
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onostante avesse 102 anni di età, la notizia della scomparsa di Padre Vitale Dartizio ha colpito la città Capoluogo come il proverbiale fulmine a ciel sereno. Quando lo intervistammo “a pranzo” (solo simbolico, a causa della pandemia), nell’aprile del 2020 (in occasione del suo 98esimo compleanno), su queste pagine lo definimmo un “Inno alla Gioia che cammina su due gambe”. Oggi, nel refettorio di quello stesso convento dei frati minori sito nel rione Santa Maria a Potenza (ove il francescano era stato parroco, per poi tornarci a vivere negli ultimi dieci anni), abbiamo voluto incontrare un suo confratello, il vicario parrocchiale Frate Antonio Monaco -un “giovane” barbuto di cinquant’anni- che si è particolarmente distinto nel cercare di portare avanti quella “fiaccola”, anche attraverso un mezzo di comunicazione che Padre Vitale prediligeva: la radio.
d - Frà Antonio, proprio nello spirito di Padre Vitale, che per tanti anni è stato anche speaker radiofonico coi suoi programmi religiosi, lei conduce dagli studi di “Radio Cantiere”, che si trovano qui in parrocchia, un programma con ospiti, assieme al cantante e poeta Vito Viglioglia.
r - Si tratta di una radio che vuole innanzitutto propugnare i valori cristiani; poi, dal canto mio, seguendo i dettami di San Francesco, cerco di seguire la “via della Bellezza”, tragitto sul quale si incontra Dio. E lo facciamo senza parlare di Fede in modo diretto, ma attraverso gli incontri, soprattutto, con personaggi del mondo musicale e artistico. Abbiamo infatti ospitato musicisti come Graziano Accinni, Danilo Vignola, Antonio Nicola Bruno e il poeta Domenico Brancucci.
d - Lei è infatti appassionato di musica.
r - Sì, mi sono anche cimentato nel songwriting, con alcuni cantautori del napoletano, e ho avuto modo di seguire per due anni un laboratorio di scrittura con Gnut. Il mio genere d’elezione è il country, ma nell’esperienza diretta mi rifaccio al cantautorato italiano, seppur con quel tipo di venature.
d - Dunque non c’è il rischio che i confratelli qui in convento le chiedano di abbassare il volume dello stereo!
r - (Sorride) No, no, io ascolto di tutto. E poi nella buona tradizione conventuale usiamo le cuffie! (risate)
d - Quella di Radio Cantiere è la sua prima esperienza?
r - No, ne ho fatta un’altra, quando vivevo in Campania, nell’ambito della “Gioventù Francescana”. Il programma, assai legato al mondo giovanile, si chiamava “Parlami d’amore”, e io curavo una rubrica musicale. In ogni puntata commentavo un brano di un cantautore. Si trattava anche in questo caso di una web radio.
d - Torniamo a Padre Vitale, col quale lei ha convissuto fianco a fianco qui in convento negli ultimi due anni, e che lascia un grande vuoto in questa città. Aveva 102 anni: è stato lucido fino all’ultimo?
r - Certamente. Poche ore prima di avere il malore, era come sempre lì al telefono, a chiamare gente. Pensi che solo qualche settimana prima aveva portato un gruppetto di persone in pellegrinaggio a Monte Carmine; a maggio, quasi senza dirci nulla, aveva organizzato praticamente da solo un altro pellegrinaggio, a Pompei. Era una figura davvero energica.
d - Celebrava ancora la messa?
r - Certo. Qui a Santa Maria, per via della struttura, concelebrava, ma a contrada Dragonara, nella rettoria del Divino Amore, celebrava ogni domenica, fino all’ultima, prima di avere il malore.
d - Si sentiva tranquillo negli ultimi tempi?
r - Sì, l’unica cosa che diceva -e noi un po’ sorridevamo- era che iniziava a sentire “il peso degli anni” (sorriso generale). Tuttavia continuava a progettare nuovi pellegrinaggi...
d - Ma secondo lei qual era “il segreto” di Padre Vitale? Non so, mangiava poco...
r - No, mangiava come tutti e non aveva nessun segreto particolare. Per come l’ho vissuto io, se dovessi definirlo con alcune parole, direi “Tra tenacia e testardaggine”. Era molto ostinato nelle sue cose e forse era questo il suo segreto. In aggiunta, era un grande ottimista. Una delle sue parole ricorrenti era “futuro”. Aveva sempre questa proiezione. E in una persona di 102 anni, certo faceva riflettere. Era molto attento alle notizie di cronaca e seguiva con molta passionalità tutte le situazioni di conflitto nel mondo; e quando leggeva di un qualche spiraglio di pace, lui subito esultava, come se la guerra fosse già finita. Le cose andavano poi diversamente, come sappiamo, ma lui non smetteva mai di sperare.
d - Lei ha praticamente già anticipato la mia prossima domanda: qual è il più grande insegnamento che le ha lasciato e in che modo lei cercherà di darvi seguito?
r - Portando avanti proprio questo senso di speranza, molto forte. Quando Padre Vitale incontrava qualche giovane gli diceva sempre di andare avanti, di guardare verso il futuro. E poi, nel mio piccolo, come mi ha fatto notare lei (io non ci avevo mai fatto caso!), continuare in questo discorso della radio, raccogliere questa fiaccola e portarla...
d -...nel futuro.
r - Esatto!
d - Tantissimi sono stati i messaggi di cordoglio, sia da parte dei cittadini sia da parte delle istituzioni. Ce n’è stato uno che lei ritiene particolarmente significativo?
r - Più che una frase (in un momento del genere, come sa, le parole sono tante), mi è rimasto impresso un episodio, che più che altro mi ha fatto sorridere. L’altra sera una signora è venuta a pregare davanti al feretro e a un certo punto ha esclamato: «Ah, non ha neanche una ruga!». Questa cosa mi ha divertito, perché è sintomatica dell’impressione di “eternità” che Padre Vitale trasmetteva: molte persone non avevano cognizione di avere di fronte un uomo di 102 anni. Se proprio devo citare una frase, durante le esequie, il Generale dell’Ordine dei frati minori, nel suo messaggio ha ricordato con parole anche divertenti la tenacia di Padre Vitale. Il nostro Provinciale, infatti, a un certo punto -vista l’età- gli aveva chiesto di riconsegnare la patente di guida, e lui a sua volta aveva scritto al Generale, per poter continuare! Ma poi, piano piano, Padre Vitale ha compreso che la guida gli costava fatica e ha accettato serenamente. Mi colpiva davvero, questa sua tenacia.
d - Tornando alla musica, qui in parrocchia, questa estate avete ospitato un evento, “Note di Pace”, che ha visto protagonisti molti importanti artisti lucani e che ha avuto anche un piccolo “riconoscimento”.
r - Lo scopo dell’evento era una raccolta fondi da donare alla popolazione di Gaza, in cui è presente una piccola comunità cristiana. All’inizio, in realtà, dovevamo devolvere soltanto a questi ultimi, ma poi abbiamo deciso di allargare. Abbiamo raccolto una somma non grandissima, ma quei 600 euro ho avuto la possibilità di consegnarli direttamente nelle mani del Patriarca di Gerusalemme, Sua Beatitudine Pizzaballa (che era venuto nella nostra provincia religiosa, a Cava De’ Tirreni, per ordinare quattro frati che sono diventati sacerdoti). In risposta, lui ci ha inviato un ringraziamento formale. “Note di Pace” l’ho organizzata insieme a Vito Viglioglia dei Meteopanik e al presidente dell’associazione “Il Cantiere”, Franco Mastrangelo (che gestisce anche la radio) e stiamo riflettendo sul ripetere questa esperienza, perché è stato anche un momento di riflessione sulla musica lucana, che è così poco conosciuta. In ogni caso, le attività del “Cantiere” continueranno, e ci sono dei progetti che vorremmo inserire nell’ambito di “Potenza Città dei Giovani”...
d - Ma Potenza, secondo lei, è davvero “a misura di giovani”?
r - (Sorride) Secondo me “potrebbe”. Ci sono molti spazi vuoti che potrebbero essere utilizzati per i giovani (in ambito artistico o sportivo), tipo lo slargo a via Mazzini, sovrastante le scale mobili.
d - Un messaggio, un consiglio al sindaco Telesca?
r - Gli chiederei, da vero potentino (fino ai 24 anni ho vissuto sempre qui), di valorizzare una città che ha tante potenzialità, e che deve riscoprire. Gli direi di guardare lontano, non soltanto alle urgenze, ma sopratutto alle possibilità.
- Scritto da Redazione
- Sabato, 29 Giugno 2024 07:56
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di Walter De Stradis
E’ curioso che proprio il nome legato al re dei vampiri possa presto trasformarsi in un portatore di linfa vitale (leggi economia e turismo) per Acerenza e il resto della Basilicata. Perlomeno, è ciò che si augura la famiglia Glinni, originaria del comune lucano, che da una quindicina di giorni ospita nel proprio palazzo un museo dedicato al Dracula storico, ovvero Vlad Tepes, “L’Impalatore”.
La vicenda in cui si snoda il legame tra il voivoda della Valacchia e la città acheruntina, così come ricostruita dai Glinni (e da altri studiosi), è sicuramente accattivante e dall’indubbio potenziale. Noi ce la siamo fatta spiegare da Carlo Francesco Glinni, noto legale lucano, che ha presieduto all’inaugurazione del museo, svoltasi il 15 giugno scorso con tanto di autorità rumene. L’occasione si è rivelata ghiotta per disquisire, tra il serio e il faceto, anche di "nobiltà" e potere in Basilicata.
d - Avvocato non tutti hanno un palazzo nobiliare, nel proprio paese di origine, in questo caso Acerenza. Il palazzo Glinni, alcuni giorni fa, è stato riaperto al pubblico dopo molto tempo, con una novità al suo interno: il museo di Dracula. Potrebbe trattarsi di una nuova risorsa per il turismo lucano, ma partiamo dal suo, di lignaggio.
r - La mia famiglia ha origini irlandesi, e infatti “Glinni” non è il vero cognome, Quello originario sarebbe “O’ Connor”. La mia famiglia è arrivata qui nel 1640, a seguito della guerra che gli Irlandesi persero contro gli Inglesi, Fu fatta salva la vita ai nobili e questi ultimi furono smistati, in Italia e altrove, dal Papa. Ai “Glinni” fu dunque deciso di dare questi territori, che si estendevano da Acerenza fino a Gioia del Colle (non è un caso che in entrambi i paesi ci siano piazza e via che portano il nostro nome). Una volta in paese, ai miei avi -che parlavano gaelico, irlandese- la gente locale chiese il nome, non la provenienza, ma avendo capito il contrario, loro risposero “From the Glynn” (ovvero “proveniamo dalla Contea di Glynn”). Da lì, rimase il cognome “Glinni”. Tutto ciò accadde circa 150 anni dopo le vicende di Vlad Tepes “Dracula” e di Maria Balsa.
d - Su Dracula torniamo tra un attimo. Cosa significa, in Basilicata, avere alle spalle un cognome e un casato così importante? Si è avvantaggiati nella vita?
r - No, nella maniera più assoluta. Io sono un avvocato, che circa venticinque anni fa ha creato uno studio associato, e non ho mai ricevuto alcunché. Ma questo accade anche per il mio carattere. Tutto ciò che io e i miei fratelli abbiamo realizzato, o meno, dipende esclusivamente da noi stessi. Ovvio è che c’è un riconoscimento nelle nostre terre, specie ad Acerenza, ove ricordano ancora la figura di mio padre, che negli anni 60/70 -epoca Colombo- contribuì alla realizzazione delle grandi opere in Basilicata; così come magari ricordano ancora mio nonno Domenico.
d - Però queste sono anche responsabilità.
r - Sì, lo sono, anzi, per me è quasi un pegno rimanere una persona leale e onesta al pari dei miei avi. E nella società di oggi, essere una persona perbene, è un compito gravoso.
d - Veniamo al museo di Dracula, da poco allestito nel suo palazzo. Era pure lui una persona perbene?
r - Bisogna distinguere la figura storica di Vlad Tepes, dal personaggio fittizio creato da Bram Stoker. Quest’ultimo scrisse un romanzo, raccontando di questo succhia-sangue...
d - A cui “appioppò”, sostanzialmente, il nome con cui era conosciuto Vlad Tepes.
r - Esatto, ma Vlad Tepes era in realtà tutt’altro, un difensore della Cristianità, un Cavaliere del Drago (da cui, per tutta una serie di passaggi, deriva il nome “Dracula” - ndr), né più, né meno che un prosecutore dei Cavalieri Templari. Difendeva il mondo cristiano dagli Ottomani, dai Turchi, dagli Arabi...un po’ come avviene oggi: il mondo arabo preme sempre per “invadere”, in qualche modo, l’Occidente. Oggi ci sono i migranti, una volta c’erano veri e propri eserciti che sfondavano le frontiere.
d - Però Vlad li impalava, eh, non a caso lo chiamavano “Vlad l’Impalatore”.
r - Guardi, io -che ho studio a Bucarest- ho assistito a un convegno che verteva proprio su questo tema, e dal quale è emerso, è stato accertato, che è impossibile che Vlad Tepes abbia impalato quel numero di Turchi che gli hanno attribuito.
d - Si parla di migliaia e migliaia.
r - Centinaia, di migliaia. In realtà, potrebbe essere che ne abbia impalato soltanto qualcuno, onde spaventare tutti gli altri e farli desistere dal proseguire la guerra. E probabilmente si trattava di Ottomani già morti in battaglia. Cinquecentomila Turchi impalati? Non è neanche tecnicamente possibile, considerato che per impalare un uomo occorrono chissà quante ore.
d - In Romania “Dracula” è un eroe nazionale, anzi, so che il romanzo, invece, viene visto con molta antipatia.
r - Si, pensi che quando è stata deposta la lapide di Vlad Tepes di fronte la cattedrale di Acerenza, un prete ortodosso recitò delle preghiere in cui c’era il suo nome. Non solo un eroe, quindi, ma un vero e proprio santo.
d - Benissimo, arriviamo, finalmente, alla domanda da un milione di dollari: cosa c’entra “Dracula” con Acerenza? Perché un museo proprio lì?
r - Perché ad Acerenza è seppellita la figlia di Vlad Tepes, Maria Balsa...Proprio perché era la figlia di Vlad Tepes (morto in battaglia), fu adottata da Ferdinando II di Napoli, e portata lì nientemeno che da Skanderberg. Se fosse stata una semplice orfana rumena, non avrebbe avuto tutti quegli onori. Successivamente, lei venne data in sposa a una delle persone più ricche di Napoli, il conte Ferrillo, duca di Muro Lucano e signore di Acerenza. Ne consegue che era sicuramente la figlia di Tepes. A riprova di questo, ci sono alcune circostanze singolari. Maria Balsa chiese al marito di ricostruire la cattedrale di Acerenza (distrutta da un terremoto), e in quell’occasione venne realizzata quella cripta particolare con gli affreschi del Todisco; questi ultimi, interpretati in maniera del tutto differente fino a poco tempo fa, sono stati completamente “riletti” da studiosi rumeni, secondo i quali invece narrano di questa principessa, figlia di Vlad Tepes etc. Successivamente, la figlia riscattò il corpo del padre, poi seppellito a Santa Maria La Nova a Napoli, ove ci sono simboli inequivocabili, legati alla famiglia di Vlad Tepes, ovvero il drago e la cometa di Halley. Ma le vicende sono tantissime, addirittura pare che lo stesso Gesualdo da Venosa -un tizio curioso, che si portava nei cimiteri- discendesse da Vlad Tepes, essendo il nipote di Maria Balsa. Mistero si aggiunge a mistero.
d - Ora che avete fatto questo primo allestimento...
r -...un primo allestimento, grazie alle donazioni arrivate dalla Romania, con un busto identico a quello di Santa Maria La Nova (una sorta di riconoscimento formale). E poi c’è un quadro di un artista rumeno molto importante, nonché tutta una serie di immagini che ripercorrono il percorso europeo di Vlad Tepes. Abbiamo intenzione di ampliarlo, nelle prossime settimane, con proiezioni multimediali e attività per famiglie, insomma, un vero e proprio attrattore.
d - Che sarà propriamente storico, o magari si richiamerà anche alla figura del Conte Dracula, il vampiro letterario e cinematografico?
r - Pensiamo di fare entrambe le cose: raccontare la vera storia di Vlad Tepes da un lato, e dall’altro l’aspetto più ludico dedicato al personaggio di Dracula. La Basilicata ha necessità di attrattori turistici: Acerenza è un paesino stupendo, ma a parte la Cattedrale...beh, anzi, c’è chi ha trovato “blasfemo” che il nostro museo fosse proprio lì di fronte, non conoscendo la storia che abbiamo raccontata finora.
d - E la politica, dal canto suo, l’ha capita questa iniziativa? Io ero presente all’inaugurazione, ma non mi pare di aver visto il sindaco.
r - In realtà abbiamo avuto il patrocinio della Regione e dell’Apt. La comunità di Acerenza, questa vicenda di Dracula, probabilmente non riesce a interpretarla nella giusta direzione. Eppure Acerenza è un paese che perde un abitante ogni tre giorni.
d - E’ questa la vera “emorragia”?
r - (ride). Esatto! Fra qualche anno non avremo più abitanti. Questo dunque è un vero investimento, da parte di un imprenditore (Palazzo Italia, nostro partner in questa operazione), ma che serve a creare un attrattore che dovrebbe ampliare il circuito turistico nella zona, aggiungendosi agli alpaca, alla cattedrale di Acerenza, alla diga, alle grotte di Pietragalla. Se in questi casi non si crea un “pacchetto”, diventa difficile. Tuttavia in Basilicata abbiamo visto decine di comunità risorte grazie al turismo (Castelmezzano, il ponte tibetano,, Sant’Angelo Le Fratte etc.).
d - Quindi Dracula dovrebbe essere portatore di linfa e non il contrario.
r - E’ il personaggio più cliccato del web. E sta per uscire una nuova, grande serie (incentrata su Vlad Tepes) -prodotta in Romania, ma in cui è presente anche Acerenza- che sarà presto su tutte le piattaforme.
d - Avvocato, esistono i vampiri in Basilicata?
r - Esistono, ma non sono quelli di Stoker. Diciamo che sono dei personaggi che vivono in alcuni palazzi. Si sono spostati, insomma, dai castelli ai palazzi del potere.