- Scritto da Redazione
- Sabato, 07 Settembre 2024 09:25
di Walter De Stradis
Quando, ogni
notte, negli
studi romani
di Via Teulada,
un ospite di
“Sottovoce” sceglie il “suo”
brano, è Dina Lopez ad
eseguirlo al piano e a cantarlo.
Ebolitana di nascita,
«orgogliosamente venosina»
d’adozione, residente a
Potenza da sempre, la cantante
e maestra di canto, da un paio
d’anni, nel celeberrimo salotto
televisivo di Gigi Marzullo su
Rai Uno, sta probabilmente
vivendo il momento più felice
della sua già lunga carriera,
ma senza perdere mai di
vista i “valori” che la musica
può infondere alla vita. E
viceversa.
d- Come giustifica la sua
esistenza?
r- Lo scopo della mia vita è
fare del bene e credere in
Dio. Tutto ciò che faccio è in
funzione di Gesù.
d- E si può far del bene
cantando?
r- Assolutamente sì.
d- Sant’Agostino diceva “chi
canta prega due volte”. Più
in generale, invece?
r- Più in generale, la musica è
aggregazione, un momento
sicuro per voler del bene a
qualcuno. Pertanto credo che
essa stessa sia un dono di Dio.
d- Tuttavia, di recente, al
Premio “Brassens” di
Marsico Nuovo (lei era in
giuria), dal palco è stato più
volte detto che la musica pop
italiana di oggi ha preso una
deriva preoccupante, per
quanto attiene al contenuto
dei testi. Esiste dunque
anche la musica negativa?
r- Assolutamente sì.
d- E qual è?
r- La musica che non viene
guidata, curata, quella che
cresce magari in contesti...
in una società diversa da
quella in cui, fortunatamente,
abbiamo vissuto noi. I
contenuti pertanto spesso
sono sterili, e penso sia una
situazione irrimediabile.
d- Indietro non si torna?
r- Io credo di no. E ci ho
provato, anche, con i ragazzi
della nostra scuola di canto.
Molti non sono assolutamente
disposti a tornare indietro. Ho
trovato, con alcuni di loro,
una vera barriera; con molti
altri, per fortuna, si riesce a
trasmettere il concetto che la
musica è un’altra.
d- Certi ragazzi, insomma,
sembrano attratti da quella
“Trap” (chiamiamola così)
con contenuti a volte anche
sessisti.
r- ...sessisti e pieni di parole
sconce. Non mi ci rivedo
affatto. La musica è anche
comunicazione, e comunicare
certi concetti sterili, e a volte
anche aberranti, per me non è
certo una cosa positiva.
d- Magari certi giovani
pensano che quello sia un
modo per avere successo
subito.
r- Purtroppo sì, e a volte
utilizzano persino un
linguaggio che io non capisco.
Ma noi siamo lì apposta, per
poterli ridimensionare, anche
e soprattutto dal punto di vista
tecnico.
d- Una volta perlomeno si
cantava.
r- (sorride) Infatti. La musica
di una volta prevedeva
le cosiddette “fioriture”:
“melismi”, “acciaccature”,
“mordenti”. Oggi sembra
quasi il contrario: se lei ci fa
caso, in un “Talent show”,
se un concorrente fa cose
del genere, viene subito fatto
fuori. Whitney Houston?
“Sorpassata”. Christina
Aguilera? “Troppo blues”. E
così si privilegiano melodie
più “lineari”, con dei testi
a volte privi di significato,
con arrangiamenti sempre
uguali. Sono queste le cose
che piacciono nei “Talent”.
Ma anche le voci stanno
diventando tutte uguali, e
a volte è davvero difficile
distinguere un brano da un
altro.
d- Facciamo un passo indietro:
lei quando ha capito che
nella sua vita avrebbe fatto
la musicista di professione?
r- Devo tutto a mio padre,
il primo ad accorgersi di
questo mio, chiamiamolo
così, talento. A due anni e
mezzo già cantavo bene e a
tre anni e mezzo mi ritrovai
allo “Zecchino D’Oro” col
Mago Zurlì. Vinsi due volte
le selezioni regionali e poi fu
chiamata a far parte del Coro
dell’Antoniano di Bologna.
Ero già stata presa, mancava
solo la firma, ma purtroppo
questa cosa avrebbe stravolto
la vita della mia
famiglia e per
i miei genitori
non fu possibile
acconsentire.
d- La mette nel
c u r r i c u l u m
questa cosa
dello Zecchino
d’Oro?
r- Sa che spesso
mi dimentico
di farlo? Però
di recente
credo di averlo
scritto. Poi sa,
in verità, è mio
marito Stefano
che si occupa
di tutte queste
cose, perché io
spesso faccio
c o n f u s i o n e !
(ride)
d- Molti anni
dopo quella
d e l u s i o n e ,
però, si è presa una
“rivincita”, approdando alla
trasmissione “Sottovoce” di
e con Gigi Marzullo.
r- Sì. E’ successo che ho mandato
un provino, ma devo dire
che nel corso degli anni ho
conosciuto diverse persone che
si sono rivelate fondamentali
per il mio percorso musicale.
Ringrazierò per sempre
Enzo Campagnoli (maestro
d’eccezione a Sanremo, dal
curriculum impressionante);
e poi ho avuto contatti con
Mario Rosini, con gente di
grande valore, insomma.
Tutto ciò mi ha convinto che
potevo andare avanti, e quindi
ho fatto il provino, e sono
piaciuta. Marzullo ha deciso
di farmi lavorare con lui.
d- Marzullo le ha detto
qualcosa in particolare?
r- Assolutamente no. E’ successo
che sono andata a fare questo
provino, e c’era il presentatore
di “Agorà”, Roberto Inciocchi
-che io stimo moltissimo- e
ho eseguito un brano di Pino
Daniele (“Vivo come te”). In
realtà quello doveva essere
solo un provino, appunto,
una “puntata zero”, e invece
è andato in onda! Per me
è stata una vera e propria
apoteosi, mi sono commossa,
sulle prime non capivo
cosa stesse succedendo. Poi
finalmente ho realizzato... e
grazie a Dio sono ancora lì.
d- Fa la pendolare Potenza-
Roma?
r- Sì, e non so se mi trasferirò
mai. Vivere Roma è molto
difficile, ho notato. E poi
non vorrei lasciare la nostra
scuola di canto (“Pianeta
Voce”), che esiste da dieci
anni. Se me ne andassi,
lascerei i miei ragazzi in balia
delle onde.
d- In balia della Trap.
r- Eh sì! (risate). Ma non
generalizziamo, perché ci
sono artisti che comunque
valgono.
d- Lavorare in Rai con
Marzullo l’ha in qualche
modo cambiata?
r- Direi di no, perché io
vivo e continuo a vivere
nell’umiltà. Certo, è un lavoro
impegnativo, che non tutti
possono fare, in cui non ci si
può permettere di sbagliare.
d- A chi le piacerebbe
rivolgere una domanda
“marzulliana”?
r- Non ci ho mai pensato.
Marzullo è introspettivo, e le
sue domande non sono mai un
caso. L’ho notato nel corso
delle puntate, quando gli
ospiti si fermano a riflettere,
perché vogliono rispondere
bene.
d- Le suggerisco allora la
domanda che sottopongo a
tutti: “Se potesse prendere
il presidente della Regione
sottobraccio, cosa gli
direbbe?”.
r- Eh. Purtroppo, credo che
qui da noi la musica debba
ancora crescere. Spesso
abbiamo umilmente chiesto
degli interventi, degli aiuti,
ma è difficile essere ascoltati.
Credo che ci voglia un po’ di
varietà nello scegliere anche
gli aspetti musicali e artistici.
Pertanto direi al Presidente:
“Per piacere, ci vuole aiutare
a crescere? E magari aiutare
anche persone che non
possono permettersi di pagare
un corso di canto?”.
d- Lei ha fatto anche studi
di etnomusicologia. Se
non ricordo male, una sua
registrazione effettuata “sul
campo” ha portato anche a
una piccola scoperta.
r- Già. Francesco Foschino,
della redazione del giornale
“MATHERA”, mi contattò
perché voleva delucidazioni
sul ritrovamento di un canto di
tradizione orale, che si diceva
fosse pugliese. Invece, grazie
ai miei studi -del 2000- sulla
tradizione orale acheruntina,
si è scoperto che quel canto,
presente nella mia raccolta,
potrebbe essere anche lucano.
Il condizionale in questi casi
è d’obbligo, ma l’articolo che
poi pubblicò“MATHERA”
aveva per titolo: «Un caso
risolto».
d- La mia domanda
tormentone: sarà mai
possibile creare qui in
Basilicata, così ricca di
tradizioni musicali, un
evento della portata de “La
Notte della Taranta”?
r- Penso di sì, ma, come dicevo
prima, ci dev’essere la
collaborazione della Regione
e dei comuni. Penso che il
problema sia quello: di natura
economica.
- Scritto da Redazione
- Venerdì, 06 Settembre 2024 10:30
Nuovi chiarimenti dal ministero del Lavoro per la compilazione del rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile. Il documento, ricorda la Consigliera di parità della Regione Basilicata, Ivana Pipponzi, è un obbligo per le aziende pubbliche e private con più di 50 dipendenti, che quest’anno hanno tempo fino 20 settembre per presentarlo.
Alle aziende è chiesto di riportare informazioni dettagliate sulle assunzioni, sulla formazione, sulle progressioni di carriera e le qualifiche, sull’intervento degli ammortizzatori sociali, sui licenziamenti, i pensionamenti e i trattamenti retributivi del personale. Tutti i dati devono essere suddivisi per genere.
Il ministero, evidenzia la Consigliera Pipponzi, ha chiarito i criteri per il computo della forza aziendale minima di 50 lavoratori al 31 dicembre 2023, specificando nella nota esplicativa che “i lavoratori intermittenti devono essere considerati indipendentemente dall’orario di lavoro svolto; i dipendenti trasferiti nel 2023 in caso di operazioni societarie, devono essere considerati come nuovi assunti dalla società incorporante, la quale deve indicare nelle note del prospetto la ragione sociale e il codice fiscale dell’incorporata estinta; i tirocinanti e lavoratori in somministrazione sono esclusi dal computo”.
Per quanto riguarda, invece, i dipendenti in Cassa Integrazione, per garantire un quadro completo della situazione aziendale sulla mobilità e sul trattamento retributivo “devono essere inclusi nel rapporto tutti coloro che nel corso del 2023 hanno fruito di almeno un giorno di cassa integrazione”.
In riferimento ai dati retributivi, inoltre, “le somme da indicare nel rapporto, comprese le competenze accessorie, devono essere quelle imponibili a livello fiscale e previdenziale”.
Per le aziende con meno di 50 dipendenti la redazione del rapporto è su base volontaria. “L’invito rivolto al mondo imprenditoriale – conclude Ivana Pipponzi – è quello di non sottrarsi all’adempimento ma di compilare in ogni caso il rapporto che, fotografando le varie realtà, ci offre un quadro chiaro del lavoro in Basilicata fornendo un contributo importante per la parità di genere”.
- Scritto da Redazione
- Sabato, 20 Luglio 2024 09:33
Mentre parliamo, non posso
fare a meno di notare alcuni
dei suoi (molti) tatuaggi.
Due sono dedicati ai
fi gli, un altro, sul braccio
sinistro, raffi gura un leone, probabilmente
il suo lato “animale”. Ma ce n’è ancora di
spazio, su due metri e tre di altezza, per
futuri ornamenti.
Aristide Landi, trentenne campione di
basket potentino (ha vinto gli europei
con la nazionale under 20 nel 2013 ed
è attualmente in forza al Torino, in A2),
fi glio d’arte (il padre Edmondo è stato
una leggenda locale), da quindici anni gira
per l’Italia con successo (Bologna, Roma,
Trieste, Milano), ma ogni volta che torna
nella sua Potenza, man mano gli si delinea
in testa con più chiarezza un “disegno” che
riguarda la sua città.
D - Come giustifica la sua esistenza?
R - La ricollego certamente all’ambito sportivo.
Devo tutto a mio padre, poiché è lui che
mi ha trasmesso questa grande passione,
andavo a vedere le sue partite quando
ancora ero nella pancia di mia madre.
Quest’ultima, invece, giocava a pallavolo;
insomma ho avuto due genitori sportivi
che da sempre mi hanno accompagnato e
assecondato questa mia voglia di emergere.
D - Le sarà mai capitato di sentirsi dire nella
sua carriera: “Ah, sei di Potenza? Ma
Potenza dove si trova? “
R - Sempre. Tutti i giorni. Ma lo vivo come un
punto a favore, è un orgoglio. Anche se torno
a casa una volta l’anno per me rimane una
gioia immensa. Per me questa è casa e guai
a chi me la tocca.
D - In realtà mi ha fornito uno spunto. Suo
padre è stato un grande personaggio del
Basket potentino, mi pare di aver letto a
tal proposito su Facebook un post di un
personaggio politico locale nel quale si
sottolineava che proprio suo padre qui
non è mai stato celebrato come merita.
Lei è d’accordo?
R - In realtà con quel politico, Smaldone, ho
avuto modo di incontrarmi di persona e di
intrattenere una piacevole chiacchierata.
Sono rimasto particolarmente legato
nel tempo alle parole dell’ex assessore
Ginefra il quale aveva dimostrato la
volontà di intitolare il Coni in memoria
di mio padre. Sono a Potenza da qualche
giorno e, insieme alla mia compagna, mi
è capitato di apprendere che ci sarebbe
la volontà, sempre in merito alle sorti del
Coni, di destinarlo ad un progetto differente
e ai cosiddetti “sport minori” come le arti
marziali. Le dico la verità, ne ho sofferto
molto. Mi sarebbe piaciuto che proprio lì,
nella sede del Coni, ci fosse stato un campo
da Basket, magari dedicato a mio padre.
Quando ho saputo che sarebbero stati
privilegiati altri sport un po’ ne ho sofferto.
Io sono nato in quella palestra, andavo a
vedere mio padre giocare anzi, dico di più,
avrei voluto dare una mano durante le fasi
della ristrutturazione, sarebbe stato anche
un modo per fare emergere qualche nuovo
talento locale nella pallacanestro. Con
Pierluigi Smaldone, come dicevo poc’anzi,
c’è stata una piacevole e produttiva
chiacchierata, speriamo che qualcosa si
muova. Vedere il Coni in quelle condizioni
fa male al cuore. Quando si parla del Coni a
Potenza l’associazione con la Pallacanestro
è immediata.
D - Lei è uno dei pochi sportivi di successo
che ho sentito, che parla di fare qualcosa
per la città. Magari al termine della sua
carriera da giocatore ha intenzione di
ritornarci e riversare qui le competenze
e le abilità acquisite?
R - Io ho ancora molti amici che sono rimasti
qui e che sono degli sportivi. Quello che
non riesco a comprendere è come sia
possibile che oltre a me non ci sia stato più
nessun giovane ad emergere nel basket.
Qui ci sono tante società, ma ognuna
lavora per conto suo. Quando stavo a
Bologna, ad esempio, c’erano la Virtus
e la Fortitudo, il top a livello italiano nel
settore giovanile. Ebbene anche tutte le
altre società collaboravano tra di loro. Tutti
facevano squadra per provare a fare un
settore giovanile di qualità. Semplicemente
ci si metteva tutti insieme, mentre qui
questa cosa non accade, ognuno coltiva il
suo orticello. È visibile a un occhio esperto
come il mio che tra le società locali non ci
sia armonia. E questo purtroppo è il nostro
limite.
D - È per questo, secondo lei, che rimane
l’unico a essere emerso?
R - Magari ho avuto la fortuna di nascere con
un talento, ma dietro ci sono tanti sacrifici e
un duro lavoro. Io devo ringraziare Gaetano
Larocca che mi consentiva di tirare al
campetto nei giorni di libertà. Ci rimanevo,
a volte, anche fi no alle due di notte. Vorrei
tanto provare e fare qualcosa di bello per
la mia città, anzi, dopo la chiacchierata
con Smaldone ho buttato giù qualche idea,
magari per la prossima estate.
Non voglio costringerla ad anticipare
qualcosa, ma secondo lei cosa si potrebbe
fare?
Un camp professionale per i giovani. Voglio
metterci la faccia e perché no, sponsorizzare
una società, ma coinvolgendo tutti.
Vedremo.
E secondo lei a strutture sportive come
siamo messi? Potenza è stata anche Città
europea dello sport, ma non se n’è accorto
nessuno.
Di certo c’è molto da lavorare. Io ho
trascorso buona parte della carriera nelle
città top italiane ove non mi sono mai potuto
lamentare delle strutture. Qui ce ne sono
tante, forse pure troppe per le dimensioni
della città stessa, quindi è normale che non
si riesca ad averle tutte perfette, poiché i
costi sono elevati. Le strutture principali
come il Pala Rossellino o la Palestra Vito
Lepore -grazie anche al supporto delle
società che se ne servono- devono però
essere riqualifi cate, specialmente per ciò
che concerne il parquet, i canestri o le
dimensioni del campo. È ovvio che le società
da sole non ce la possono fare, pertanto si
rende necessario anche il supporto delle
istituzioni competenti.
Quando le capita di tornare, come “vede”
la sua città?
Ho trovato tanti locali nuovi e un bel
fermento, specialmente durante il weekend.
Si mangia bene e si beve altrettanto bene.
In merito ai collegamenti direi qualcuno
buono, altri peggiori, ma le buche purtroppo
non mancano mai. Ma qui sto bene e non mi
lamento.
D - Come immagina il suo futuro postbasket?
R - Per ora non ci voglio pensare. Mi piacerebbe
però molto allenare o, chissà, mi dedicherò
agli investimenti che ho fatto.
D - Qual è il suo più bel ricordo in ambito
sportivo?
R - Quando ho vinto l’Europeo Under 20
o la promozione con la Virtus Roma. O
forse anche il mio rientro a seguito di un
bruttissimo infortunio durato otto mesi. Mi
ero fatto male durante una semifi nale per
lo scudetto con l’Under 17, se non sbaglio.
Mi sono rotto il crociato e ricordo che
nonostante tutto mi allenavo otto ore al
giorno solo per fare terapia. Quando sono
rientrato in campo è stata una bellissima
soddisfazione.
D - Viviamo in un Paese di calciatori e
allenatori. Nel caso specifico del Basket,
vi sentite un po’ trascurati dai media?
R - È normale rispondere sì. In Italia gira tutto
intorno al calcio. Qui c’è poca spinta sulla
pallacanestro.
D - Però forse la pallacanestro è anche più
salutare?
R - Tutti dicono che lo sport fa bene, ma non
hanno visto le Tac e le Risonanze (risate
generali, ndr). Insomma lo sport fa bene, ma
puoi avere in futuro qualche problemino.
D - La canzone che la rappresenta?
R - “The show must go on”, anche perché mi
ricorda un periodo duro della mia vita. Ma
ascolto un po’ di tutto.
D - Il libro?
R - Le dico la verità: non sono un lettore.
D - In cosa spera che la Basilicata vada a
“canestro”?
R - Bella domanda! Spero che riparta dai
giovani e dallo sport, che penso sia un
elemento che possa in qualche modo
salvare, nel caso specifico, Potenza. Ho
seguito un po’ il Potenza Calcio e ho visto
che c’è un presidente che ha investito
molto. Spesso qui nel Basket non accade,
perché ognuno vuole comandare ed essere
al centro. Basterebbe investire in una sola
società e mirare a giocare in B.
- Scritto da Redazione
- Sabato, 13 Luglio 2024 09:48
“Guardalinee: il signor
Votta da Moliterno”.
Un tempo Ameri, o magari Pizzul,
avrebbe sicuramente annunciato così l’esordio
in serie A (avvenuto
a maggio scorso), del trentaduenne Federico
Votta, giovane dall’aplomb inglese che “nella
vita” segue il commerciale in una ditta di
trasporti e logistica. Linguaggio d’altri tempi
a parte (ma è doveroso segnalare il mancato
aggiornamento in materia dello scrivente), è
opportuno precisare (e anche l’interessato pare
tenerci) che gli “assistenti arbitrali” (termine
più moderno) con la bandierina, al pari degli
arbitri, nel gergo sportivo vengono abbinati al
comune della sezione arbitrale (in questo caso
Moliterno) e non a quello di nascita (sempre in
questo caso, Marsico Nuovo).
D - Da bambini un po’ tutti sognavamo di
diventare calciatori...lei invece sognava di
diventare arbitro?
R - (Sorride) No, a dire il vero, sognavo anch’io
di fare il calciatore, ma poi una serie di
vicissitudini mi ha portato a intraprendere il
percorso arbitrale, di cui mi sono innamorato.
Quel che è certo, è che di base ci vuole
comunque una grande passione per il calcio.
D - Lei ha iniziato come arbitro in mezzo al
campo, facendo molta esperienza in serie
D, e successivamente è diventato assistente
arbitrale, quello che una volta si chiamava
“guardalinee”. In questa veste, il 13 maggio
scorso, ha esordito in serie A, nella partita
Fiorentina-Monza.
R - Sì, in serie D ero arbitro, ma non sono
riuscito a passare in C; ho quindi fatto un
corso di qualificazione (messo a disposizione
dall’Associazione Italiana Arbitri); l’ho
superato e ho iniziato dalla serie superiore,
ovvero la C, il percorso di assistente arbitrale.
Dopo cinque anni, ho ricevuto la promozione
alla CAN( Comitato Nazionale Arbitri serie A
e B).
D - Rispetto all’arbitro un assistente arbitrale
ha maggiori o minori pressioni?
R - E’ una cosa molto soggettiva, che in realtà
dipende molto dal nostro approccio. Se guardo
indietro alla mia carriera, mi accorgo che
provavo più tensione in una partita di Prima
Categoria di un certo tipo, rispetto, magari, a
quella di serie A che ho fatto.
D - I calciatori sono molto scaramantici. Gli
arbitri pure? Anche lei fai gli scongiuri
prima di una partita?
R - (sorride). L’arbitro è molto scaramantico, e lo
sono anch’io. E anch’io, come tutti, ho i miei
riti, prima della gara, dopo la gara, o durante
gli allenamenti.
D - E’ difficile ammettere un errore? Cosa si
prova, in quel caso, rivedendosi in tv?
R - I primi ad addolorarsi per un eventuale errore
siamo proprio noi. Ma fa parte del gioco. Così
come un giocatore può sbagliare un calcio di
rigore, un arbitro o un assistere arbitrale può
sbagliare su un fuorigioco o su un fallo. La
chiave di volta risiede in come reagiamo.
D - Lei in serie D ha arbitrato in tutta Italia. Ha
notato differenze tra Nord e Sud?
R - Sicuramente al Sud mi è capitato di arbitrare
gare con un clima ben diverso, magari, rispetto
a gare del Nord, ove c’è un clima più sereno.
Questo dal punto di vista ambientale. Dal
punto di vista tecnico, invece, non ho notato
grandi differenze.
D - Sono sicuro che di aneddoti, anche coloriti,
da raccontare ce ne sono. Le è mai capitato
di dover essere scortato dai Carabinieri? Ha
mai ricevuto minacce?
R - Di aneddoti in effetti ce ne sarebbero. Ricordo
in particolare una gara di Interregionale,
a Palmi, in Calabria. La gara andò bene,
ma c’era comunque molta animosità e i
Carabinieri preferirono scortarci all’uscita
dalla stadio. Ma niente di particolare, in realtà.
Episodi molto eclatanti non ce ne sono stati.
D - Una cosa che in campo la fa particolarmente
arrabbiare?
R - Non me ne viene in mente nessuna, anche
perché sul campo bisogna essere pacati,
evitando di “arrabbiarsi”.
D - C’è una figura alla quale si inspira, in
particolare?
R - Di sicuro, ma preferisco tenerla per me.
(sorride)
D - Ci può dire almeno chi è stato, a suo avviso,
il miglior arbitro italiano?
R - Anche questo lo tengo per me (sorride).
D - Dopo l’esordio in serie A, ci saranno altre
partite?
R - Dipenderà tutto da me. Ogni anno si riparte da
zero. Sicuramente la designazione di serie A è
stata qualcosa di emozionante, un sogno che si
è avverato.
D - Come avviene materialmente?
R - E’ l’arbitro che chiama il team arbitrale. E
quindi, molto semplicemente, mi ha telefonato.
Di lì è scoppiata la gioia.
D - Facile immaginare che finora, sia il ricordo
più bello.
R - Beh, ce ne sono tanti altri. Sa, ciò che ci lascia
questa carriera è anche tutto ciò che c’è
intorno: l’Associazione, la conoscenza di tante
persone in giro per l’Italia, le amicizie che
nascono e che ti porti dietro per anni, anche
fuori dal contesto sportivo.
D - Quanto dura la carriera di un arbitro? E’
più lunga di quella di un calciatore o magari
oggi corre in parallelo?
R - Dai quattordici anni ai quaranta è possibile
frequentare il corso. Poi, tutto dipende dalla
capacità e dalla bravura del singolo nel
superare le varie categorie. Una cosa è certa:
tutti partono dallo stesso punto, ovvero il
settore giovanile, per poi approcciarsi alle
categorie maggiori. In generale, però, la
tempistica è comunque soggettiva.
D - Lasciando lo sport vero e proprio per un
attimo e concentrandoci sulla nostra regione
in generale, la domanda viene facile: per
quali aspetti, la Basilicata, è ancora in
“fuorigioco”?
R - Va spesso in fuorigioco perché ancora non ha
una mentalità del tutto aperta su certi temi.
Tende a chiudersi, piuttosto che ad aprirsi,
piena com’è di opportunità e potenzialità.
D - Su cosa siamo ancora... “chiusi”?
R - Direi istruzione, trasporti, logistica. E poi i
collegamenti. Siamo ancora indietro rispetto
ad altre regioni, in termini di treni e aerei, e
questo certo non ci apre alle opportunità che si
potrebbero cogliere.
D - Lei lavora proprio nei trasporti: anche le
nostre strade non sono messe benissimo.
R - Beh, quello dipende un po’ anche dalla
morfologia del territorio, ma è il mio personale
pensiero.
D - A chi dare il cartellino giallo, o addirittura
rosso? Alla politica? Ai lucani stessi?
R - (Sorride). Non mi permetto di dare cartellini
rossi...
D - Almeno un giallo, su.
R - No, no, io faccio l’assistente. Sicuramente,
posso dire che abbiamo margini di
miglioramento, sotto tutti i punti di vista,
dal lato associativo- senz’altro- dal lato
politico e anche imprenditoriale. Qualcosa sta
sicuramente cambiando e stiamo progredendo,
ma si può fare meglio. Dal momento in cui
vedremo il successo di un’altra persona come
un’opportunità per tutta la collettività, e non
come un ostacolo, potremmo sicuramente
giovarne tutti.
D - Ecco, dopo il suo esordio in serie A, la
politica l’ha chiamata per complimentarsi?
Non so, ha ricevuto una targa...
R - Sì, assolutamente. Devo infatti ringraziare
sia il sindaco di Marsico Nuovo, Massimo
Macchia (che mi ha trasmesso la gioia di
tutta la comunità), sia il sindaco di Moliterno,
Antonio Rubino, che tra l’altro è un collega,
nominato da poco presidente degli arbitri
regionali. Mi sono stati vicino entrambi. Hanno
sentito come loro, anche, il raggiungimento del
mio traguardo. Ma anche la classe calcistica
lucana ha gioito di questo risultato.
D - Come presidente dell’Aia di Moliterno, cosa
possiamo dire del rapporto dell’Associazione
con le istituzioni e col territorio? Tutto bene
o qualcosa potrebbe andare meglio?
R - In questi tre anni di presidenza ho sempre
avuto il supporto delle istituzioni per le nostre
iniziative. Va detto, infatti, che noi ricopriamo
anche un ruolo sociale importante: i ragazzi
hanno realmente e concretamente la possibilità
di crescere come persone, di portarsi
l’esperienza arbitrale nella vita.
D - Se dovesse fare uno “spot”, rivolto a un
bambino o a un giovane, cosa direbbe a
proposito della carriera arbitrale?
R - Che ti fa crescere come persona, migliorando
le cosiddette “soft skills” da utilizzare anche
nella vita e nel lavoro.
D - E a lei, nella vita e nel lavoro, cos’ha dato
l’essere arbitro e assistente arbitrale?
R - Mi ha fatto maturare come persona, come
genitore e come sportivo a tutto tondo.
D - Le ha dato più autocontrollo?
R - Mi ha permesso di trovare la versione migliore
di me, anche se è un percorso in continua
evoluzione.
D - Il film, il libro e la canzone che la
rappresentano?
R - Il film “Inside Out”; la canzone “Vado al
massimo” di Vasco; il libro “Semplici strategie
per grandi miglioramenti”, della
bravissima
- Scritto da Redazione
- Sabato, 06 Luglio 2024 07:07
di Walter De Stradis
Una volta la curva del Viviani gli dedicò uno striscione in cui si invocavano -anziché i soliti “11 Leoni”- “11 Nolè”. Oggi, a 40 anni, dopo una carriera notevole, arrivando a militare in serie B con Messina e Ternana (e, come ci racconterà, sfiorando anche la A), la seconda punta potentina, Angelo Raffaele Nolè, non sa ancora se continuerà a giocare nel suo Francavilla (serie D, in cui milita dal 2019), o se magari farà “il grande salto”.
d - Raffaele, noi la stiamo intervistando in un momento “di attesa” della sua carriera sportiva.
r - Sì, c’è questo bivio. Stiamo valutando con la società del Francavilla...c’è anche la possibilità di diventare allenatore della prima squadra.
d - Dunque lei ha già il patentino.
r - Sì, l’ho preso a Coverciano quattro anni fa.
d - Quindi, in ogni caso, non sarà un “ex” del calcio.
r - Sicuramente no.
d - Le faccio solo adesso la domanda iniziale: come giustifica la sua esistenza?
r - Col sacrificio. E col non accontentarsi mai. E’ stata questa la mia forza, che mi porto dietro sin da bambino. Ho iniziato a giocare, da solo con i grandi, a sedici anni, in Eccellenza con l’Asc Potenza (dopo il percorso nell’Asso Potenza e prima ancora nella vecchia “Paolo Ferri”).
d - Qual è stato il momento della sua vita in cui ha capito che avrebbe giocato a calcio per professione?
r - Non saprei, è stato un percorso naturale. Già a cinque/sei anni andavo alla scuola calcio, sicuramente ero già proiettato verso questo sport.
d - Tra l’altro lo sport è di casa: sua sorella Francesca è una nota pallavolista. Desumo che i vostri genitori vi abbiano sempre supportati, piuttosto che pretendere -che so- lauree in medicina a tutti i costi.
r - Non si sono mai intromessi, spingendoci casomai a fare con serenità ciò che ci piaceva e ci rendeva felici. Anzi, direi che il problema di oggi è la troppa ambizione e le troppe pressioni che alcuni genitori infondono nei loro figli, aspettandosi che diventino subito come Cristiano Ronaldo.
d - Immagino parli con cognizione di causa.
r - A Coverciano qualcuno ci disse: “Se aprite una scuola calcio, appendente subito uno striscione con la scritta: NON VOGLIAMO I GENITORI”.
d - Addirittura.
r - Eh, sì, se il bambino vede i genitori sugli spalti che lo incitano o lo rimproverano, beh, gli viene l’ansia. E tutto ciò crea difficoltà anche al mister.
d - Vanno a rompere le scatole pure a lui.
r - Ripeto, è un problema che sta avendo questa generazione.
d - Immagino che a Coverciano abbia conosciuto ex calciatori molto famosi.
r - Mi sono ritrovato, da tifoso juventino, con uno dei miei giocatori preferiti, Barzagli, un vero combattente. Ma c’era anche Sorrentino...eravamo un gruppo di sessanta, tutti provenienti da serie B e serie A.
d - Da questi grossi personaggi c’è sempre e comunque da imparare, o magari a volte si riamane delusi?
r - Un po’ e un po’. Di alcuni di loro ti accorgi subito che sono portati per la carriera di allenatore o di dirigente; di alcuni altri ti rendi conto che sono arrivati lì... con un pizzico di fortuna.
d - Il famoso fattore “C”. Lei è soddisfatto della sua carriera?
r - Molto. Perché sono partito dalle “parti basse”, dall’Eccellenza, e sono salito di categoria, ma non grazie al supporto di qualche procuratore, bensì vincendo i campionati: prima l’Eccellenza, poi la D, poi la C2 (la famosa partita col Benevento) e poi ancora la C1 (con la Ternana). Sono infine arrivato in serie B, ma mi è mancato quel piccolo “gradino” finale per salire ancora. E qui c’è un po’ di rammarico, perché mi sono infortunato nel mio momento più bello: avevo ventisette anni, l’età della maturità, e avevo già quasi firmato il contratto col Parma, in serie A. E invece il 26 dicembre mi ruppi il crociato a Padova, in serie B. Tutto sfumato.
d - Come si fa a risalire dopo una grande delusione del genere?
r - E’ stato un momento difficile, perché calcisticamente ero al mio apice (da poco il mister mi aveva dato anche la fascia di capitano). Però, come dicevo, sono uno nato “dal basso”, mi sono fatto da solo, e ho continuato a crederci, col sacrificio.
d - Lei ha sottinteso che i procuratori possono favorire anche le carriere di giocatori mediocri.
r - Beh, sa, un procuratore importante ha un gruppo di giocatori, in cui ci sono di solito alcuni calciatori di fama. E quindi conosce direttori importanti, coi quali a loro volta si consigliano i dirigenti delle squadre minori. Accade quindi che un procuratore del genere “piazzi” un giocatore importate in una squadra, “abbinandogli” anche qualcheduno meno bravo, suggerito sempre da lui. Quel pizzico di fortuna, poi, come dicevo, fa il resto.
d - E qui, nella sua città, ritiene di aver dato tutto quello che poteva o si aspettava di dare?
r - Io iniziai con l’Asc Potenza, che poi si fuse con l’Fc Potenza. Facemmo tre anni in serie C2, vincendo infine il campionato (poi fui acquistato dal Rimini). Direi che il mio sogno si è realizzato, dal momento che ogni bambino sogna di giocare nel Potenza e di vincerci qualcosa. E mi porterò sempre dietro una cosa: la curva rossoblu, che per sua scelta non ha mai tifato il singolo, quanto l’intera squadra, mi dedicò uno striscione gigantesco, con la scritta: VOGLIAMO 11 NOLE’.
d - Tra l’altro “Nolè” è quasi l’anagramma di “Leone”.
r - (ride) E’ vero!
d - Qualcuno di quella curva è diventato anche sindaco, assessore. E’ contento di questo?
r - (sorride) Certo, mi ha fatto piacere.
d - Lo ha anche votato?
r - (ride). In quel periodo ero fuori, non avevo modo.
d - Negli ultimi tempi è approdato a Francavilla. Abita anche lì?
r - Sì, mi portai la famiglia durante il Covid. Poi mia figlia ha iniziato la scuola, e quindi, anche per fare contenta lei che si è fatta gli amici, sono rimasto lì.
d - Lei è tornato nella sua regione solo da qualche anno, dopo essere stato fuori per molto tempo: come ha trovato Potenza?
r - Dispiace vedere tanti giovani che vanno via. Così si perde un po’ di “anima”. Tuttavia rimango fiducioso e confido che si punti su di loro.
d - Potenza è stata Città Europea dello Sport, ma non se n’è accorto nessuno, anche a causa della pandemia. Come siamo messi a strutture sportive?
r - Ho avuto la fortuna di giare un po’, e devo dirlo: siamo abbastanza indietro rispetto ad altre città. Se non escono fuori tanti atleti di talento è anche per quello: non sono messi in condizione di migliorare. E qui da noi è difficile: una volta c’è l’infiltrazione nel palazzetto, una volta manca l’acqua da un’altra parte, una volta è la mancanza di campi di calcio...In altre città non succede: si trova subito l’alternativa o la soluzione. Sono molto più avanti rispetto a noi.
d - Spostiamoci sulla Nazionale, che ha fatto una figura tremenda agli Europei di calcio. Cos’è successo?
r - Mi ha colpito la totale assenza di cattiveria agonistica, da parte di giocatori giovani che stavano vivendo un’occasione più unica che rara. Mi è molto dispiaciuto. Non penso si sia trattato di paura (dopotutto giocavamo con la Svizzera, con tutto il rispetto). Forse il problema è generazionale: coi giovani di oggi sembra che tutto sia loro dovuto, non hanno quella voglia di conquistarsi qualcosa.
d - Da cosa bisogna ripartire per salvare il calcio italiano?
r - Cercando di eliminare l’obbligo dei giovani in campo. Prima il posto bisognava conquistarselo, mentre adesso -grazie a questa norma- si sentono già appagati, col posto assicurato e meno disposti a migliorare in allenamento. E anche il loro comportamento negli spogliatoi ne risente, in quanto si sentono protetti dalle società.
d - Non c’è anche un problema di troppi giocatori stranieri nei campionati?
r - Guardi, purtroppo devo riconoscere che hanno più “fame” di noi. Andando in giro, non vedo più i ragazzini giocare nei parchi; si accontentano di quell’oretta di scuola calcio. Una volta, invece, si migliorava tantissimo, proprio perché, giocando anche in mezzo alla strada, toccavi il pallone cinque/seimila volte in più, e miglioravi in ogni aspetto. Persino la prospettiva di vincere un gelato ti faceva migliorare nella “cattiveria”. Tutto ciò è sfumato, ecco perché non escono più talenti. Altrove, invece, è diverso.
d - Il film che la rappresenta?
r - “Quasi amici”, perché mi reputo un buono e cerco di aiutare sempre il prossimo, senza aspettarmi niente.
d - La canzone?
r - Vasco Rossi, ma non saprei sceglierne una in particolare.
d - Il Libro?
r - Confesso che non leggo tanto. Mi coglie spiazzato (ride).
d - Spesso i suoi colleghi si salvano in calcio d’angolo, citandomi la biografia di un calciatore.
r - (Risate). Beh, sì, non volevo dirlo.
d - La vita di un calciatore che l’ha colpita?
r - Quella di Cristiano Ronaldo, perchè si è costruito ed è stato costante.
- Scritto da Redazione
- Venerdì, 05 Luglio 2024 12:36
La Consigliera regionale di parità, Ivana Pipponzi, informa che il ministero degli Interni ha prorogato dal 15 luglio al 20 settembre il termine concesso alle aziende per presentare il rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile. Il rapporto rappresenta un obbligo per le aziende pubbliche e private che occupano più di 50 dipendenti mentre per le imprese con un numero inferiore di personale l’adempimento è su base volontaria. Per redigere il rapporto, occorre compilare il modello telematico che, a partire dal 3 giugno, è disponibile sul portale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali al link https://servizi.lavoro.gov.it.
La proroga, spiega la Consigliera, permette alle aziende di adeguarsi alle modifiche introdotte dal ministero del Lavoro e adottate di concerto con il ministro per le Pari opportunità e la famiglia con Decreto Interministeriale del 2 luglio 2024.
- Scritto da Redazione
- Sabato, 29 Giugno 2024 07:56
di Walter De Stradis
E’ curioso che proprio il nome legato al re dei vampiri possa presto trasformarsi in un portatore di linfa vitale (leggi economia e turismo) per Acerenza e il resto della Basilicata. Perlomeno, è ciò che si augura la famiglia Glinni, originaria del comune lucano, che da una quindicina di giorni ospita nel proprio palazzo un museo dedicato al Dracula storico, ovvero Vlad Tepes, “L’Impalatore”.
La vicenda in cui si snoda il legame tra il voivoda della Valacchia e la città acheruntina, così come ricostruita dai Glinni (e da altri studiosi), è sicuramente accattivante e dall’indubbio potenziale. Noi ce la siamo fatta spiegare da Carlo Francesco Glinni, noto legale lucano, che ha presieduto all’inaugurazione del museo, svoltasi il 15 giugno scorso con tanto di autorità rumene. L’occasione si è rivelata ghiotta per disquisire, tra il serio e il faceto, anche di "nobiltà" e potere in Basilicata.
d - Avvocato non tutti hanno un palazzo nobiliare, nel proprio paese di origine, in questo caso Acerenza. Il palazzo Glinni, alcuni giorni fa, è stato riaperto al pubblico dopo molto tempo, con una novità al suo interno: il museo di Dracula. Potrebbe trattarsi di una nuova risorsa per il turismo lucano, ma partiamo dal suo, di lignaggio.
r - La mia famiglia ha origini irlandesi, e infatti “Glinni” non è il vero cognome, Quello originario sarebbe “O’ Connor”. La mia famiglia è arrivata qui nel 1640, a seguito della guerra che gli Irlandesi persero contro gli Inglesi, Fu fatta salva la vita ai nobili e questi ultimi furono smistati, in Italia e altrove, dal Papa. Ai “Glinni” fu dunque deciso di dare questi territori, che si estendevano da Acerenza fino a Gioia del Colle (non è un caso che in entrambi i paesi ci siano piazza e via che portano il nostro nome). Una volta in paese, ai miei avi -che parlavano gaelico, irlandese- la gente locale chiese il nome, non la provenienza, ma avendo capito il contrario, loro risposero “From the Glynn” (ovvero “proveniamo dalla Contea di Glynn”). Da lì, rimase il cognome “Glinni”. Tutto ciò accadde circa 150 anni dopo le vicende di Vlad Tepes “Dracula” e di Maria Balsa.
d - Su Dracula torniamo tra un attimo. Cosa significa, in Basilicata, avere alle spalle un cognome e un casato così importante? Si è avvantaggiati nella vita?
r - No, nella maniera più assoluta. Io sono un avvocato, che circa venticinque anni fa ha creato uno studio associato, e non ho mai ricevuto alcunché. Ma questo accade anche per il mio carattere. Tutto ciò che io e i miei fratelli abbiamo realizzato, o meno, dipende esclusivamente da noi stessi. Ovvio è che c’è un riconoscimento nelle nostre terre, specie ad Acerenza, ove ricordano ancora la figura di mio padre, che negli anni 60/70 -epoca Colombo- contribuì alla realizzazione delle grandi opere in Basilicata; così come magari ricordano ancora mio nonno Domenico.
d - Però queste sono anche responsabilità.
r - Sì, lo sono, anzi, per me è quasi un pegno rimanere una persona leale e onesta al pari dei miei avi. E nella società di oggi, essere una persona perbene, è un compito gravoso.
d - Veniamo al museo di Dracula, da poco allestito nel suo palazzo. Era pure lui una persona perbene?
r - Bisogna distinguere la figura storica di Vlad Tepes, dal personaggio fittizio creato da Bram Stoker. Quest’ultimo scrisse un romanzo, raccontando di questo succhia-sangue...
d - A cui “appioppò”, sostanzialmente, il nome con cui era conosciuto Vlad Tepes.
r - Esatto, ma Vlad Tepes era in realtà tutt’altro, un difensore della Cristianità, un Cavaliere del Drago (da cui, per tutta una serie di passaggi, deriva il nome “Dracula” - ndr), né più, né meno che un prosecutore dei Cavalieri Templari. Difendeva il mondo cristiano dagli Ottomani, dai Turchi, dagli Arabi...un po’ come avviene oggi: il mondo arabo preme sempre per “invadere”, in qualche modo, l’Occidente. Oggi ci sono i migranti, una volta c’erano veri e propri eserciti che sfondavano le frontiere.
d - Però Vlad li impalava, eh, non a caso lo chiamavano “Vlad l’Impalatore”.
r - Guardi, io -che ho studio a Bucarest- ho assistito a un convegno che verteva proprio su questo tema, e dal quale è emerso, è stato accertato, che è impossibile che Vlad Tepes abbia impalato quel numero di Turchi che gli hanno attribuito.
d - Si parla di migliaia e migliaia.
r - Centinaia, di migliaia. In realtà, potrebbe essere che ne abbia impalato soltanto qualcuno, onde spaventare tutti gli altri e farli desistere dal proseguire la guerra. E probabilmente si trattava di Ottomani già morti in battaglia. Cinquecentomila Turchi impalati? Non è neanche tecnicamente possibile, considerato che per impalare un uomo occorrono chissà quante ore.
d - In Romania “Dracula” è un eroe nazionale, anzi, so che il romanzo, invece, viene visto con molta antipatia.
r - Si, pensi che quando è stata deposta la lapide di Vlad Tepes di fronte la cattedrale di Acerenza, un prete ortodosso recitò delle preghiere in cui c’era il suo nome. Non solo un eroe, quindi, ma un vero e proprio santo.
d - Benissimo, arriviamo, finalmente, alla domanda da un milione di dollari: cosa c’entra “Dracula” con Acerenza? Perché un museo proprio lì?
r - Perché ad Acerenza è seppellita la figlia di Vlad Tepes, Maria Balsa...Proprio perché era la figlia di Vlad Tepes (morto in battaglia), fu adottata da Ferdinando II di Napoli, e portata lì nientemeno che da Skanderberg. Se fosse stata una semplice orfana rumena, non avrebbe avuto tutti quegli onori. Successivamente, lei venne data in sposa a una delle persone più ricche di Napoli, il conte Ferrillo, duca di Muro Lucano e signore di Acerenza. Ne consegue che era sicuramente la figlia di Tepes. A riprova di questo, ci sono alcune circostanze singolari. Maria Balsa chiese al marito di ricostruire la cattedrale di Acerenza (distrutta da un terremoto), e in quell’occasione venne realizzata quella cripta particolare con gli affreschi del Todisco; questi ultimi, interpretati in maniera del tutto differente fino a poco tempo fa, sono stati completamente “riletti” da studiosi rumeni, secondo i quali invece narrano di questa principessa, figlia di Vlad Tepes etc. Successivamente, la figlia riscattò il corpo del padre, poi seppellito a Santa Maria La Nova a Napoli, ove ci sono simboli inequivocabili, legati alla famiglia di Vlad Tepes, ovvero il drago e la cometa di Halley. Ma le vicende sono tantissime, addirittura pare che lo stesso Gesualdo da Venosa -un tizio curioso, che si portava nei cimiteri- discendesse da Vlad Tepes, essendo il nipote di Maria Balsa. Mistero si aggiunge a mistero.
d - Ora che avete fatto questo primo allestimento...
r -...un primo allestimento, grazie alle donazioni arrivate dalla Romania, con un busto identico a quello di Santa Maria La Nova (una sorta di riconoscimento formale). E poi c’è un quadro di un artista rumeno molto importante, nonché tutta una serie di immagini che ripercorrono il percorso europeo di Vlad Tepes. Abbiamo intenzione di ampliarlo, nelle prossime settimane, con proiezioni multimediali e attività per famiglie, insomma, un vero e proprio attrattore.
d - Che sarà propriamente storico, o magari si richiamerà anche alla figura del Conte Dracula, il vampiro letterario e cinematografico?
r - Pensiamo di fare entrambe le cose: raccontare la vera storia di Vlad Tepes da un lato, e dall’altro l’aspetto più ludico dedicato al personaggio di Dracula. La Basilicata ha necessità di attrattori turistici: Acerenza è un paesino stupendo, ma a parte la Cattedrale...beh, anzi, c’è chi ha trovato “blasfemo” che il nostro museo fosse proprio lì di fronte, non conoscendo la storia che abbiamo raccontata finora.
d - E la politica, dal canto suo, l’ha capita questa iniziativa? Io ero presente all’inaugurazione, ma non mi pare di aver visto il sindaco.
r - In realtà abbiamo avuto il patrocinio della Regione e dell’Apt. La comunità di Acerenza, questa vicenda di Dracula, probabilmente non riesce a interpretarla nella giusta direzione. Eppure Acerenza è un paese che perde un abitante ogni tre giorni.
d - E’ questa la vera “emorragia”?
r - (ride). Esatto! Fra qualche anno non avremo più abitanti. Questo dunque è un vero investimento, da parte di un imprenditore (Palazzo Italia, nostro partner in questa operazione), ma che serve a creare un attrattore che dovrebbe ampliare il circuito turistico nella zona, aggiungendosi agli alpaca, alla cattedrale di Acerenza, alla diga, alle grotte di Pietragalla. Se in questi casi non si crea un “pacchetto”, diventa difficile. Tuttavia in Basilicata abbiamo visto decine di comunità risorte grazie al turismo (Castelmezzano, il ponte tibetano,, Sant’Angelo Le Fratte etc.).
d - Quindi Dracula dovrebbe essere portatore di linfa e non il contrario.
r - E’ il personaggio più cliccato del web. E sta per uscire una nuova, grande serie (incentrata su Vlad Tepes) -prodotta in Romania, ma in cui è presente anche Acerenza- che sarà presto su tutte le piattaforme.
d - Avvocato, esistono i vampiri in Basilicata?
r - Esistono, ma non sono quelli di Stoker. Diciamo che sono dei personaggi che vivono in alcuni palazzi. Si sono spostati, insomma, dai castelli ai palazzi del potere.
- Scritto da Redazione
- Venerdì, 21 Giugno 2024 07:39
di Walter De Stradis
N |
ovemila “fascicoli” aziendali e quasi quindicimila soci, che vogliono «più realtà e incidenza» soprattutto rispetto alla burocrazia. Secondo il presidente di Coldiretti Basilicata, Antonio Pessolani (al suo secondo mandato), il contadino e l’imprenditore non capiscono il motivo per cui, per alcune cose -anche semplici- passano mesi e mesi, mentre le loro pratiche attraversano diverse “trafile”, non di rado giungendo a compimento «quando l’agricoltore ormai non ne ha più bisogno». A questi, insomma, interessa che aprendo il rubinetto fuoriesca acqua: «come e perché questo avvenga poco gli interessa, perché lui è resiliente e vuole produrre, a favore della comunità. E questo è un atto di generosità in sè».
d - Presidente, come giustifica la sua esistenza? Facciamo un piccolo “riassunto delle puntate precedenti”.
r - In realtà sono prestato all’agricoltura. Nasco come ingegnere, e per quindici anni ho svolto l’attività professionale. Tuttavia ho sentito “il richiamo della foresta”, essendoci in famiglia aziende agricole (formaggio podolico) che ho seguito e fatto crescere insieme ai miei genitori e fratelli. A un certo punto, mi ci sono dedicato in maniera esclusiva, e una volta aperta la partita Iva, per me è stato facile scegliere il sindacato, la Coldiretti è stata sempre nel mio cuore. In meno di un mese sono stato selezionato tra i possibili dirigenti, e -fedele al motto “se non ti rappresenti tu, lo farà qualcun altro”- mi ci sono buttato anima e corpo, con spirito di sacrificio.
d - Lei però ha operato anche in politica, è stato sindaco di Abriola...
r - Si, ho fatto politica locale per venticinque anni. Dal 2007 al 2012 sono stato sindaco del mio paese, ma sono stato anche vice presidente della comunità montana, senza contare la mia esperienza alla guida del Gal Basento Camastra (oggi “PerCorsi”), fra i cui progetti c’è stato anche il film “Basilicata Coast to Coast” con Rocco Papaleo...
d -...oggetto anche di tante polemiche...
r -...sì, le polemiche ci saranno sempre, ma da quel progetto, sono forse nate anche la Lucana Film Commission, nonché Matera Capitale della Cultura.
d - Sì, ma viste le polemiche sui “luoghi comuni” presenti nel film, se fosse stato lei il regista, cosa avrebbe cambiato?
r - Avrei esaltato maggiormente le capacità della Basilicata, anche dal punto di vista imprenditoriale, perché ci sono grandissime aziende, in tutti i settori: nel Metapontino abbiamo un’ortofrutta che fa spavento a livello internazionale (fragole, agrumi); nel cerealicolo abbiamo imprese e pastifici importanti. Insomma, tante cose che danno lustro e vanno ben oltre l’aspetto bucolico rappresentato in quel film.
d - Sul tavolo ci sono vari problemi. Cominciamo da quello più “caldo”, la siccità.
r - E’ un allarme, quello dei cambiamenti climatici, che noi lanciamo da diversi anni ormai. Lo avevamo previsto, pertanto abbiamo dettato -a livello nazionale- un’agenda che si prefigge di ricostruire tanti laghi, che consentirebbero di invasare ben oltre il 10% attuale di acqua, per tenerla come scorta per le grosse aziende agricole in stato di bisogno. Per fortuna, in Basilicata la situazione non è drammatica, perché qualcuno prima di noi aveva pensato a un piano degli invasi con tante dighe, come quella di Monte Cotugno, Senise, che ci consente ancora di respirare. Tuttavia, questi invasi vanno messi a regime, vanno evitati gli sprechi e soprattutto vanno resi ancora più capienti. Vanno fatti dei lavori, e ci sono le risorse (regionali e nazionali), ma gli enti preposti (Autorità di Bacino, Acque del Sud) devono attivarsi..
d - Una delle prime conseguenze del caldo, è che la produzione nostrana di miele sarà pari a zero.
r - Eh sì. Con i grandi calori, i fiori ci sono, ma la pianta va in auto-difesa, per cui produce solo il minimo indispensabile per auto-prodursi (e le api ne soffrono). L’anno scorso c’era un problema inverso a causa delle troppe piogge. La natura, insomma, si auto-regola, e noi dobbiamo stare attenti a non creare danni, e a favorire un giusto riequilibrio.
d - Siamo in attesa della nuova giunta regionale: quale dovrà essere la prima pratica sulla scrivania del nuovo assessore all’agricoltura?
r - Da quindici anni, come Coldiretti, dalla politica manteniamo un’autonomia tale, che ci consente di aprire bocca su tutti i settori. Avendo fatto tante assemblee territoriali, il primo problema che viene alla luce, oltre a quello della siccità, è la lotta alla fauna selvatica, ovvero i cinghiali. E guardi che non è più soltanto un problema dell’agricoltura...
d - Ormai vanno a spasso anche nella città.
r - Sotto casa, negli orti privati! C’è un tema che riguarda la sicurezza, anche per gli automobilisti sulle strade (registriamo un aumento esponenziale degli incidenti). Pertanto chiediamo alla Regione di approntare un piano di abbattimento selettivo, verificata la legge nazionale che consente anche nei parchi di fare un intervento straordinario, finanche con l’esercito, visto che le forze numeriche dei cinghiali sono in aumento.
d - E tutta questa carne che fine deve fare?
r - Beh, noi stiamo costruendo anche delle filiere, in cui so che la Regione ha messo delle risorse (tre milioni di euro). Anche qui, però, ci vuole un’accelerata: ridurre drasticamente i numeri dei cinghiali, perché l’agricoltura non riesce più a produrre.
d - Tra l’altro credo ci sia anche un problema di percezione delle responsabilità, in tema sicurezza, Il presidente di un’associazione, che gestisce un'area verde a Potenza, ci raccontava di uno scarica-barile verificatosi in concomitanza dell’arrivo degli ungulati. Insomma, chiamato a intervenire, ciascun ente diceva fosse competenza di un altro.
r - Eh sì. Ci sono periodi diversi che determinano competenze diverse. A volte le determina l’ATC insieme alla Regione, in periodo di caccia, il che consente ai cacciatori di intervenire; in alcuni altri casi è la Provincia, in altri casi ancora la competenza è di un determinato Parco. Insomma, come lei ha ben individuato, c’è sempre un ginepraio di burocrazia. Come accade per l’acqua e per gli invasi, d’altronde: spesso si ha difficoltà ad aprire il rubinetto, perché ci sono diverse autorità che devono dare il beneplacito. Ecco perché occorre una legge regionale per armonizzare le competenze, anche in ambito abbattimento: sicuramente i Comuni queste competenze non le hanno, per cui in molti casi non possono agire, anche in presenza di un problema di sicurezza cittadina. Il 9 e il 10 di Luglio noi saremo alla Regione, a protestare, in mobilitazione permanente, per fare proposte sul tema fauna selvatica. Abbiamo individuato anche una soluzione: istituire, da parte di Coldiretti, un gruppo di guardie volontarie ambientali, per poter contrastare (nel caso abbiano il porto d’armi) questa invasione di cinghiali, insieme ai cacciatori. Daremo questi strumenti, affinché la Regione dichiari lo stato di calamità -perchè di ciò si tratta- onde dar vita a un piano straordinario di emergenza di abbattimento dei cinghiali. E’ un’arma importante, insieme alle catture e ad altri strumenti (a proposito dei quali la Regione ci ha seguito e li sta mettendo in atto).
d - Facciamo un passo indietro: lei ha detto che in Basilicata ci sono tante realtà imprenditoriali, belle e floride, ma il quadro generale non mi risulta sia tutto rose e fiori.
r - No, però la nostra regione è una piccola nicchia che in qualche modo è stata preservata, e ci si è attrezzati in merito. I mille ettari di fragola Candonga nel Metapontino...beh, oggi parliamo del primo produttore in Europa! Oggi c’è anche l’avvio del procedimento di IGP a livello ministeriale, quindi parliamo di un settore che è in crescita e che fa occupati. Poi, certo, c’è uno sbilanciamento nelle cosiddette aree interne, in cui troviamo tanti prodotti di nicchia, che non riescono a fare massa critica e a sfondare sui mercati. C’è un fattore determinante: il non giusto riconoscimento del prezzo ai produttori. Dare oggi cinquanta centesimi per un litro di latte (che sullo scaffale si vende a circa due euro) è un dramma impensabile. La lancetta è troppo spinta sulla speculazione. Tuttavia, col decreto “pratiche sleali” che abbiamo fatto approvare, abbiamo messo dei paletti, cercando di fare arrivare il prezzo del latte a settanta centesimi.
d - Siamo in estate, periodo di sagre, di finanziamenti pubblici, e di polemiche in merito...visto che non manca chi s’inventa delle cose “estemporanee”.
r - Certo. Ho fatto il sindaco e conosco le realtà locali. Se una sagra è legata a una tradizione (pecorino di Filiano, canestrato di Moliterno, fagiolo di Sarconi), va benissimo. Quello che manca, è una regia a livello di Regione (Dipartimento Agricoltura e Dipartimento Ambiente), Apt e Gal, per fare sistema, con tanto di calendario e itinerario per trattenere il turista più giorni. Gli “spot” a sé stanti, campanilistici, non servono a nulla.
d - Se potesse prendere Bardi sottobraccio, cosa gli direbbe.
r - Gli sottolineerei l’importanza del senso di appartenenza al popolo lucano, ma penso che anche lui coltivi questo valore. Come presidente di Coldiretti, quando mi trovo a ragionare con un socio, ragiono per prima cosa come imprenditore. Quindi direi al presidente Bardi di ragionare prima da cittadini. Capisco che ci sia tutto un “folclore” istituzionale, un’agenda, da seguire, ma lo inviterei a visitare di più, insieme a noi, le aziende, onde comprendere “l’anima” dell’imprenditoria locale.
d - L’agricoltura lucana può essere una forma di richiamo contro lo spopolamento?
r - Assolutamente sì. Se ripartiamo dai temi trattati in questa intervista, e rimettiamo ordine, oggi l’agricoltura è l’unico settore in crescita, insieme al turismo. Facendo questo connubio, si apre un’opportunità grandissima. Io sono ottimista.
- Scritto da Redazione
- Sabato, 15 Giugno 2024 07:57
di Walter De Stradis
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ominato arcivescovo di Potenza-Muro Lucano-Marisco Nuovo il 2 febbraio scorso, monsignor Davide Carbonaro, cinquantasette anni, ha fatto il suo ingresso nel Capoluogo, da capo della chiesa locale, il 18 maggio scorso. Si è ritrovato a Potenza, praticamente, nel bel mezzo dei festeggiamenti del Santo Patrono e dell’accesa campagna elettorale per le comunali.
Quel che si dice, un battesimo del fuoco.
d- Come giustifica la sua esistenza?
r - In modo semplicissimo, ma profondissimo: mi sento amato. Lo sono stato e lo sono ancora. Sono stato molto amato dai miei genitori -nel contesto di una famiglia meridionale, molto semplice, proveniente dalla Sicilia- e ho capito, crescendo, che quello era il riflesso di un amore molto più grande. Quello di Dio.
d- Di cosa si occupava la sua famiglia?
r - Siamo della Val di Noto, mamma originaria di Rosolini, papà di Ispica. Mamma faceva la casalinga e papà l’artigiano, il falegname. Ho vissuto in Sicilia fino a 11 anni, ma poi c’è stato il “richiamo” da parte dei fratelli di papà, che si erano già trasferiti a Roma negli anni Cinquanta. E così, ho vissuto, nel 1978, l’esperienza dello “sradicamento”, il passaggio da una piccola realtà, alla periferia di una città grandissima come Roma. Tuttavia, mi venne in aiuto la chiesa, perché subito i compagni di classe mi portarono in oratorio e vissi un’esperienza molto bella. Tenga conto che la periferia di Roma, in quegli anni lì, implicava tutto un mondo.
d- Nel senso che l’amore e la fede l’hanno “salvata”.
r - Mi potevo perdere come qualsiasi altro ragazzo, come purtroppo è accaduto ad alcuni miei amici. Mi preme dire che diversi miei amici, sia d’infanzia sia della periferia di Roma (Torre Maura, sul Casilino), sono stati presenti alla mia ordinazione episcopale, rimettendo insieme i pezzi di una storia straordinaria.
d- Quando ha capito che nella sua vita sarebbe stato un sacerdote?
r - Beh, già da piccolissimo: da persona del Sud, vivevo nel cuore della devozione popolare. Sa, mia nonna, con cui vivevo, mi portava a messa, e già desideravo entrare in seminario. Poi a Roma, dopo l’iniziale disorientamento, la frequentazione della parrocchia di San Giovanni Leonardo a Torre Maura, il catechismo, la cresima, riaccesero nel mio cuore il desiderio di diventare sacerdote. Anche se mio padre, per la verità, non era molto d’accordo.
d- Era comunista, papà?
r - No, non era comunista, ma era un gran mangiapreti e gli è capitata ‘sta disgrazia, nella sua vita (risate). Papà era il classico siciliano degli anni Quaranta, cresciuto in un ambiente un po’ anticlericale. Amava l’arte e i libri antichi. Ma io stesso, l’apertura della conoscenza, la ricchezza dalla cultura (anche quella spirituale) l’ho appresa sulle ginocchia di mio padre. Ricordo le grandi discussioni; io studiavo alla Gregoriana e lui, autodidatta degli studi sacri, mi diceva: “Portami qui un gesuita, gli spiego io la vera teologia!” (sorride).
d- Lei ci ha narrato di un ambiente tipico delle parrocchie di quartiere di alcuni decenni fa, che l’ha formata; di recente ho intervistato il parroco storico di Tito (Pz), il neo centenario don Nicola, che ha espresso alcune riserve sulla chiesa “moderna”, così come l’ha vista cambiare in ottant’anni di sacerdozio.
r - Dal mio punto di vista, la chiesa è cambiata in meglio, dialogando con la Modernità; io, così come i mie confratelli, sono il frutto di quegli anni Ottanta che hanno visto i cambiamenti del Concilio Vaticano Secondo, i grandi cambiamenti della Chiesa. Si è trattato di mettere al passo la parola del Vangelo col nostro tempo. Ho avuto, in questo senso, grandi insegnanti, che oggi sono grandi figure: Cardinal Ladaria, Monsignor Fisichella...
d- Come interpretare, allora, l’emorragia di fedeli che c’è stata negli ultimi decenni?
r - Dipende. E’ un effetto della secolarizzazione. Questa emorragia è soprattutto visibile nel Nord Italia. Nel Nord Europa c’è stato un distacco tra la fede e la vita. La modernità e la post-modernità hanno portato a questa sorta di “autonomia”, che mette la fede da parte. Nel Sud Italia, invece, ritroviamo ancora un forte senso religioso, legato alla fede popolare. Voi Lucani lo sapete bene: di fronte alla Madonna di Viggiano...beh, non ci sono argomentazioni che tengano! (sorride). La secolarizzazione c’è anche da noi, ma c’è ancora una parte buona, che può essere coltivata.
d- Lei è arrivato in città nel bel mazzo dei festeggiamenti del Santo Patrono, ricevendo un abbraccio particolarmente caloroso. Tuttavia, quando le hanno detto che doveva andare a Potenza, cos’ha pensato?
r - Quando me l’hanno detto, geograficamente non sapevo neanche dove fosse! (ride)
d- Un classico.
r - Infatti, penso che l’abbiate già sentito. Comunque, già dopo i primi approcci, ho compreso che è un luogo che ha una sua bellezza, anche naturale. Poi mi ha colpito la semplicità delle persone. Una delle prime volte che sono venuto qui, ho fatto una passeggiata, e la gente mi ha subito fermato, riconoscendomi, chiedendomi di fare dei selfie e così via. E poi, in occasione della mia ordinazione episcopale a Roma, sono venuti molti fedeli della diocesi, è questa è stata una cosa bellissima. E poi, ancora, c’è stato il grande abbraccio, al mio ingresso in città, e la Festa di San Gerardo è stata la conferma.
d- Al di là del “protocollo ufficiale”, cosa le ha detto il suo predecessore, Ligorio?
r - Lui e gli altri vescovi mi hanno consegnato una narrazione, come avviene in ogni altra realtà, delle ricchezze e delle povertà di questa chiesa. Con loro, qualche settimana prima della mia ordinazione episcopale, ho potuto fare la cosiddetta visita “ad limina” (la visita al Santo Padre e agli uffici di curia); per cui, il racconto di Ligorio e degli altri vescovi, presente nelle loro relazioni al Santo Padre e ai Dicasteri, mi ha consentito di ascoltare la ricchezza di una chiesa che è viva, ma che ha anche le sue ferite e le sue povertà.
d- Potenza è il capoluogo di regione in una terra in cui la povertà sembra crescere: in che modo la povertà può influire sul percorso pastorale di un Arcivescovo?
r - Mmm, io parlerei di povertà e di ricchezza insieme. La Basilicata ha davvero molto, sia dal punto di vista territoriale sia da quello artistico, si tratta di mettere insieme l’intelligenza, le prospettive, la lungimiranza, lo sguardo sulle proprie realtà, e mettersi a lavorare insieme. Un arcivescovo viene in un territorio, si guarda intorno, e inizia a dialogare, anche con gli uomini politici, e dovrà dire una parola su questa ricchezza e su questa povertà presenti sul territorio.
d- I suoi predecessori, a dire il vero, non hanno mai lesinato critiche a quella politica incapace di trasformare le ricchezze territoriali in sviluppo reale. Che tipo di rapporto intende instaurare con la politica locale?
r - Innanzitutto di dialogo, parola che preferisco a “critica”. E poi, il pastore è sempre un padre di tutti, e un padre, ogni tanto, va dai propri figli a chiedere conto dello stato delle cose. E io penso di pormi anche da questo punto di vista.
d- Lei ha citato la Madonna di Viggiano, sa bene che i politici, ogni volta, sono sempre tutti lì, in passerella, seduti in prima fila. Una tiratina d’orecchi, magari ogni tanto...
r - (Sorride). Se sarà necessario, anche questo, ma sempre nel dialogo fraterno, e sempre nella dimensione adulta, di persone al servizio della gente. Lo spirito illumina la carne e la carne dà valore e forza allo spirito.
d- Fra una quindicina di giorni Potenza sceglierà il suo prossimo sindaco. Cosa gli dirà?
r - “Coraggio, andiamo avanti!”. Dobbiamo voler bene a questa nostra città e alle persone che la abitano.
d- C’è qualcosa che la spaventa, in questo inizio di percorso pastorale in una città come Potenza?
r - Sì, mi spaventa il non conoscere molte realtà.
d- Girerà molto?
r - Già lo sto facendo, sia all’interno della città, sie nell’hinterland. Sto girando, in occasione delle cresime, per diverse cittadine, e sto già sperimentando le differenze tra il centro e la periferia. Il mio compito sarà quello di far dialogare queste realtà.
d- Ho avuto modo di assistere a una sua celebrazione di cresima, sabato scorso a Potenza, e lei a un certo punto ha parlato del diavolo. Esiste davvero o è solo un concetto “filosofico”?
r - Sì, sì. San Paolo VI parlava di “dimensione personale” del diavolo, e il male ha una sua influenza. Ne sentiamo ancora le conseguenze, ma c’è una vittoria definitiva attraverso la Pasqua di Cristo Signore. Le conseguenze più gravi del male sull’uomo sono la morte, ma questa a sua volta è superata con la Resurrezione di Cristo e noi siamo risorti insieme a lui.
d- Il libro che la rappresenta?
r - Mamma mia! (ride). “Il Nome della Rosa”, di Umberto Eco. Adoro il mondo medievale e qui ci sono luoghi assolutamente straordinari, come la cattedrale di Acerenza.
d- La canzone?
r - I Pooh, quella che fa “Ci sono uomini soli...per la sete di avventura”, e forse è un’avventura quella che il Signore mi sta chiedendo di vivere. Una cosa straordinaria.
d- Il film?
r - Bah, potrei dire... “Top Gun”.
d- Lei è uno degli Anni Ottanta, l’ha detto prima.
r - Giustamente.
d- Tra cent’anni scoprono una targa a suo nome qui in Arcidiocesi: cosa le piacerebbe ci fosse scritto?
Non saprei...”Qui giace quel vescovo che mai tace” (sorride). Che non tace soprattutto per la Verità e per il Vangelo.
- Scritto da Redazione
- Giovedì, 13 Giugno 2024 12:17
La consigliera regionale di Parità Pipponzi ha invitato i sindaci eletti nella tornata elettorale dell’8 e 9 giugno a rispettare le quote di genere per una corretta composizione delle giunte.
“La mancata rappresentanza di genere – ha affermato la Consigliera di parità – lede il principio della democrazia paritaria, privando l’attività amministrativa di una diversa prospettiva e di una visione che solo l’armonica compresenza di uomini e donne può conferire per costruire una società più giusta ed equalitaria”.
Entrando nel dettaglio, le norme stabiliscono che i sindaci dei Comuni con popolazione inferiore a 3.000 abitanti devono garantire la rappresentanza di genere nelle giunte, obbligo che vale, chiarisce la Consigliera, anche per gli organi collegiali del Comune e per gli Enti e organismi da esso dipendente.
“Poiché non è specificata la quota di genere che deve essere assicurata, ne consegue – ha aggiunto Pipponzi - che in queste amministrazioni le regole che prevedono la presenza del sesso meno rappresentato in misura non inferiore al 40 per cento dei componenti dell’organo collegiali non sono vincolanti. Se il sindaco ritiene di derogare al principio della pari rappresentatività è tenuto però a motivare congruamente la sua scelta. E se lo Statuto comunale lo prevede è possibile attingere a un assessore esterno a seguito di un interpello rivolto al genere meno rappresentato, come stabilito dalla sentenza n. 237/2018 del Tar Basilicata che ha annullato la delibera sindacale di un Comune lucano con meno di 3.000 abitanti”.
Nei Comuni con oltre 3.000 abitanti, invece, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40 per cento con arrotondamento aritmetico. “Ovviamente anche per queste amministrazioni comunali – ha concluso la Consigliera di parità - vale la regola della necessità di documentare l’istruttoria messa in campo per garantire la rappresentanza di genere. Rivolgo, infine, gli auguri di buon lavoro ai sindaci, ai consiglieri e soprattutto alle consigliere comunali elette, auspicando che tutti e tutte mettano in atto, prima di tutto, la necessaria sensibilità paritaria, fondamentale per garantire ai cittadini la piena partecipazione alla vita pubblica”.