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Cari Contro-Lettori,

 

scriviamo all’indomani della scomparsa di Pelè, quando è ancora grande la commozione per la dipartita di un personaggio “larger than life”, come dicono gli Americani. Campione sportivo, politico, cantante: per chi scrive (all’epoca troppo giovane per ricordarne i fasti calcistici), O Rey era soprattutto una figura cinematografica, l’autore dell’indimenticabile goal in rovesciata nel finale di “Fuga per la Vittoria”, film del 1980 di John Houston. Ispirato a un fatto reale, era la storia di una squadra internazionale di calciatori/militari prigionieri dei nazisti che affrontava proprio la nazionale tedesca. La partita era truccatissima, ovviamente, ma i nostri eroi, pochi, male in arnese e inadeguati, capitanati dal grande attore inglese (anche se leggermente panciuto) Michael Caine, comunque giocavano meglio e pareggiavano i conti in extremis, proprio grazie al capolavoro del personaggio interpretato da Pelè, e a un rigore parato dal portiere Sylvester Stallone (che, da divo a stelle e strisce qual era, si racconta avesse addirittura preteso di segnare alla fine del film un goal su calcio d’angolo, ma qualcuno della produzione lo mandò giustamente a quel paese).

“Campione nello sport e nella vita”, si dice dunque in questi casi, viepiù che la scomparsa di gente famosa sovente contribuisce, motu proprio, al loro processo di beatificazione: molti di quelli che sui social oggi raffigurano il calciatore brasiliano in Paradiso, a braccetto con Santo Maradona, dimenticano che spesso, quando i due erano in vita, venivano anche contrapposti: il campione “pulito”, contro il campione “maledetto”.

Va da sé che l’esempio dei grandi sportivi va principalmente colto e coltivato, come un fiore raro, quando costoro sono in vita, e possono ancora camminare fra i giovani, insegnando loro il valore dei risultati ottenuti col sudore della fronte, e di tutte le altre parti del corpo, a dispetto dei facili e ingannevoli miraggi –per dirne una- di Tik Tok, Instagram e compagnia bella, o dei Grandi Fratelli e Sorelle ove al contrario prosperano l’imbecillità e gli astuti imbecilli milionari.

Ed è ancora più importante dare il giusto tributo, vale a dire strumenti, strutture, occasioni e possibilità di vita più agevoli, a quegli sportivi (e a tutte le persone che rappresentano) –come il campione internazionale di lancio del peso, l’atleta paralimpico rionerese Nicky Russo- che per dare esempio camminano anch’essi tra i giovani, ma con molte difficoltà in più, e sovente –nei casi più gravi- mediante bastoni e sedie a rotelle. Non si tratta di suscitare facili commozioni in chi legge: gente come Nicky (proprio come i prigionieri del film con Pelè e Stallone) combatte dalla mattina alla sera un partita truccata contro un avversario, la malattia, malvagio e pronto a tutto pur di vincere; ma non di rado anche contro l’aridità e l’ignoranza di chi li circonda, nel bel mezzo delle ben note difficoltà insite nel vivere in Lucania, e il palleggio spesso svogliato (per usare un termine sportivo) di chi amministra la vita pubblica. Nicky ha vinto campionati nazionali, il bronzo agli Europei ed ha ben figurato alle Olimpiadi (sia chiaro, senza guadagni) lanciando un peso proprio con la mano che gli funziona di meno, e facendo perno sulla gamba con la quale zoppica: le sue parole –che leggerete nell’intervista concessaci- sono la prova tangibile che coloro che danno lustro alla sport, alla propria terra e –più in generale- alle risorse insite in ogni uomo, vanno premiati quando sono in vita, per il bene di tutti, normodotati compresi. E il “premio” è la vita stessa, ovvero una vita il più possibile dignitosa, come dicono le leggi e i manuali. Sul serio.

Buon Anno.

Walter De Stradis