pranzoLANGONE

Ha la parlantina svelta (in un Italiano ben scandito), i modi da giovane gentleman e un sorriso abbagliante. In paese, a Picerno (Pz) tutti lo conoscono e tutti lo chiamano “Abu”. Aboubacar Langone Soumahoro, “classe 2000” (per usare una terminologia calcistica), proveniente dalla Costa d’Avorio, in Basilicata ha trovato una nuova famiglia amorevole (che lo ha adottato) e una squadra di calcio (il Picerno, in serie D) della quale, come centrocampista, è diventato in breve tempo un astro nascente. Ma la strada fi n qui è stata tutt’altro che facile. La sua è una di quelle storie che andrebbero raccontate nelle scuole.

Come giustifica la sua esistenza?
Sin da piccolo giocavo in mezzo alla strada con gli amici, poi un giorno ho visto una partita del Barcellona e ho deciso che –potendo avrei fatto il calciatore. In Africa non ci sono grandi occasioni in tal senso.


Quanti eravate in famiglia?
Due maschi e due femmine, poi ho perso mia sorella per una malattia. Mio padre era un camionista, mia madre vendeva frutta e verdura. Nel 2010 ho perso mio padre, aveva una paralisi, dopo tanti anni di malattia non è riuscito a sopravvivere.


A un certo punto la guerra civile è divampata…
Ci eravamo trasferiti in un’altra città per lavoro, ma dopo la morte di mio padre, loro sono dovuti tornare a Daloa, mentre io, che dovevo finire la scuola, non potevo ancora tornare a casa. Con la guerra persi di vista mia mamma e i miei fratelli. Da sei anni non vedevo più la mia famiglia, poi quest’estate, grazie ai miei genitori adottivi di Picerno, sono andato in Costa d’Avorio e…


Li ha incontrati?
Si, mia mamma e i miei fratelli. È stata una cosa bellissima: a questo punto non me lo sarei mai aspettato. Io ero stato quatto anni in Mali senza avere notizie di mia mamma, non c’erano telefonini in giro.


Lei era un bambino. Come le “si presentò” la guerra?
Con i rumori degli spari dappertutto, si uccidevano anche gli animali. Ho visto tanti morti sulla strada, avevo 11-12 anni. Come dicevo, poi sono andato in Mali e -grazie a Dio- lì ho incontrato un amico che mi ha aiutato veramente tanto. Era un ragazzino come me e lavorava in un negozio. Mi trattava come un fratello, mi dava da mangiare, vestiti, scarpe e poi mi fece andare a dormire a casa sua. Si chiama Ibrahim, e anche la mia mamma di Picerno oggi parla sempre con lui. Io gli stavo sempre attaccato: il mio timore era che qualcuno potesse pensare che rubavo qualcosa, visto che ero io l’unico straniero in casa sua.


Dopo il Mali cosa è successo?
Io volevo tornare a casa dalla mia famiglia, anche se lì ero stato benissimo. Io non avevo telefono, e a volte usavo il profilo Facebook di Ibrahim: mi misi a cercare i miei amici della scuola. Quando ne trovai uno, il mio primo pensiero fu per mia madre. Passarono mesi prima di avere notizie. Quando mi diedero il numero di mia mamma, la prima volta che chiamai non riuscii a dire niente, mi sembrava un film, non avevo la forza di parlare. Non pensavo che fosse ancora viva. Poi l’ho richiamata, e quando ho detto “Allò” in francese, lei subito ha risposto “Ibrahim!!!”. Ho pianto tanto e mi ha raccontato tante cose: anche mia sorella era morta. Le dissi che volevo tornare perché comunque mi sentivo uno straniero, ma mi spiegò che la situazione non era ancora stabile. Avevo uno zio in Libia, e mia madre provò a chiamarlo, almeno vicino a un parente mi sarei sentito più sicuro. Nel frattempo mi ero già messo in viaggio.


Come ha fatto questo viaggio?
Ho pagato una macchina con i soldi che avevo guadagnato lavorando con Ibrahim. Quando sono arrivato in Burkina Faso, ho cercato di guadagnare qualche altra cosa perché servivano tanti soldi per il viaggio. Eravamo diverse persone nella macchina, abbiamo fatto Mali, Burkina Faso, poi Niger, dove c’è il deserto. Lì è iniziata la strage, ho visto di tutto e di più. Per arrivare in Libia, camminavamo la notte perché era più fresco, oppure mediante “passaggi”, ma sempre pagando queste persone che lo facevano per lavoro. C’erano persone che sulla strada ci derubavano, altri compagni di viaggio sono stati picchiati a sangue.


Questi predoni erano sempre africani?
Si africani come noi. Eravamo in un due pickup, oltre 50 persone in ognuno: sull’altra macchina un tizio è morto perché non riusciva a respirare. Oltretutto, se cadevi dalla macchina rimanevi nel deserto.


Per mangiare come facevate?
Avevamo qualcosa nelle tasche, perlopiù biscotti … anche se, quando fai ‘ste cose, mangiare è l’ultimo dei pensieri: pensi a sopravvivere. Il viaggio è durato due settimane, è stato abbastanza veloce. Nel frattempo provavo a chiamare mio zio, ma non mi rispondeva. Ero terrorizzato. Grazie a Dio, però, in Libia incontrai un mio amico della Costa d’Avorio con cui avevo fatto un torneo di calcio da bambino. Incredibile. Lui era completamente cambiato, ma mi chiamò “Akash!”: era il mio soprannome, indica forza, perché ero sempre l’ultimo ad abbandonare il campo e se perdevo piangevo. Mi spiegò che quello era un luogo pericoloso, e mi portò con lui, anche se comunque avevo qualche timore.


Quanto tempo è stato in Libia?
Circa tre mesi. Pagavo sempre io da mangiare, dormivamo in una casa abbandonata e aiutavo a pulire le case. Lì capii che le persone abbandonavano il Paese con le barche per andare in Italia. Il mio amico mi disse che conosceva una persona, ma che ci volevano tanti soldi. Me la face conoscere, io però non avevo tutti quei soldi: più di 1500 euro. Alla fi ne Ibrahim dal Mali mandò metà dei soldi sul conto di quel tizio. Era libico e faceva questo di mestiere. Gli diedi il resto dei soldi solo quando fui a pochi centimetri dalla “barca”. Mi disse: «Sei uno furbo, bambino».


Com’era questa “barca”?
Era un gommone, con 130 persone a bordo. Ma sa una cosa? La mia forza era la mia mamma. Mi aveva detto: «Io ho sofferto per te, per darti la vita: vai, e non ti accadrà nulla, arriverai sano e salvo a destinazione ». Questa cosa mi ha dato la carica. Solo che, appena partiti, si è rotto il motore e ho pensato, «Mi sa che mamma questa volta si è sbagliata», ma quel tizio subito è arrivato con una motobarca, lo ha sostituito e siamo ripartiti. Dopo un giorno in mezzo al mare, l’acqua è cominciata a entrare nel gommone. Ero tra i più piccoli, ma sono stato l’unico a non piangere e ho detto a tutti di pregare ognuno per il proprio Dio. Io sono musulmano. Poi mi sono tolto la maglia e ho cominciato a strizzare l’acqua fuori dal gommone, e tutti mi hanno imitato. A un certo punto, però, anch’io ho avuto paura, perché la barca si è alzata tutta da un lato. Un ragazzo accanto a me mi ha detto «Ho perso mia mamma e mio padre, oggi morirò anche io», e io ho risposto «Mia mamma ha detto che io non posso morire». Come per miracolo la barca è tornata giù finché non ci ha raggiunto una nave di salvataggio che ci lanciava i giubbini, ma anche in quel caso si creò confusione.


Che nave era?
Non lo ricordo, forse la Croce Rossa. È stato quando sono salito su questa barca che mi sono messo a piangere anche io: le preghiere di mia mamma erano andate a buon fine e io ero salvo.

 

Quanti giorni è durato il viaggio sulla nave di salvataggio?
Due giorni, ma le condizioni erano migliori, perché non si può certo paragonarle a un gommone. In Italia siamo sbarcati a Pozzallo, in Sicilia, e poi mi hanno portato a Scicli. Dopo altri quattro mesi in un centro a Caserta, sono arrivato a Paterno, qui in Basilicata. Nei centri si possono fare tante cose, ma si è in tanti. Non c’erano vestiti per tutti, io sono arrivato in febbraio, morivo di freddo e stavo senza giubbino.


Non vi davano soldi?
Fino a Paterno no, lì prendevamo 75 euro al mese. Ho lasciato un buon ricordo ovunque, perché ho voluto imparare subito l’Italiano, facevo i servizi e pulivo, senza che nessuno me lo chiedesse. È per questo che spesso mi compravano le cose, anche se avevano poco, ti aiutavano. A Paterno ho conosciuto la mia futura sorella (quella italiana), che lavorava lì, le ho raccontato la mia storia e le ho detto che avrei voluto giocare a calcio, ma anche lavorare. Dopo qualche mese mi ha detto che una squadra voleva vedermi. Lei aveva già fatto tanto, toccava a me adesso.


Il Picerno?
Esatto. Una settimana prima del provino mi ero fatto male alla caviglia, ma ci andai lo stesso. C’erano mister Catalano (ora è scomparso) e mister Ottati di Tito: capirono che ero bravo, ma che quella volta non stavo bene. Tempo dopo, durante un amichevole con l’Avigliano, fui costretto a uscire per il dolore, e mi misi a piangere perché pensavo che non mi avrebbero preso più. Grazie a Dio, però, è andata bene, e il primo giorno di allenamento, la mia attuale mamma di Picerno mi portò cioccolate e vestiti, anche se ancora non mi conosceva. È veramente una donna straordinaria. Viaggiavo da Paterno a Picerno per allenarmi, un giorno la famiglia mi invitò a casa e lì nacque il nostro amore: hanno chiesto subito il mio affido, in modo che potessi andare a scuola, allenarmi e non stancarmi dei viaggi. Mi fecero mangiare la pizza per la prima volta! Poi è arrivato anche il tesseramento a Picerno, ma dopo un mese fu bloccato.


Perché?
Alcuni documenti non erano a posto, la mia famiglia biologica doveva firmare. Così ho capito che Picerno è un paese accogliente, tutti mi hanno voluto bene e sono stati solidali.


Poi è arrivata l’adozione…
Si, mia madre in Africa ha detto “si”, perché un figlio può avere una madre ovunque a prescindere dal colore. Mi spiego, in Africa, quando mio padre lavorava, venivano sempre i miei amici a casa. Mia madre non faceva distinzione, e poteva sfamarli, ma anche sgridarli come se fossero fi gli suoi. La procedura dell’adozione è stata abbastanza difficile, ma la famiglia ha fatto di tutto, anche la società mi è stata vicino. E adesso sono Italiano a tutti gli effetti. Ho iniziato anche a giocare regolarmente. Ho fatto tre gol e sta andando tutto bene.


Ha mai subito episodi di discriminazione?
A Picerno mai, ma so che se il tifoso avversario mi fischia è perché ha paura di me che sono più forte. Un avversario, nel corso di una partita, mi chiamò “scimmia”: io sorrisi e gli dissi che intanto gli avevo fatto un mazzo così. Più tardi mi ha chiesto scusa.


L’Italia sta attraversando un momento politico in cui purtroppo c’è un’ondata forte di razzismo.
Si lo vedo, ogni sera papà accende la tv e ne discutiamo. Io credo che anche l’Europa debba aiutare l’Italia, che accoglie sempre migliaia di persone. Ma occorre riflettere: chi vorrebbe lasciare i suoi affetti, i suoi colori, la sua infanzia? Qui sicuramente tutto è più bello, tante le possibilità, ma se io potessi, tornerei in Africa, perché è lì che sono cresciuto, lì ero felice. In Africa le cose sono diverse, con il poco che hai accontenti tante persone, il problema è che siamo stati colonizzati, e ci sfruttano invece di aiutarci.


Quale differenza vede nel modo di affrontare la vita, fra lei e i suoi coetanei di qui?
La mia esperienza mi ha fatto maturare molto prima rispetto all’età che avevo. In Africa a volte non si mangia per giorni, mentre qui a volte si litiga per le sciocchezze. Spesso sorrido. I genitori italiani sono davvero straordinari, non fanno mancare niente ai figli, ma bisognerebbe assaggiare almeno un po’ di sofferenza per capire davvero che cosa è la vita. Un ragazzo oggi chiede un telefono e subito glielo comprano, io neanche sapevo cosa fosse il telefono. Occorrerebbe riconoscere le fortune che si hanno. Io non ho scelto di nascere povero, è il destino, poteva capitare a chiunque. Quindi, se puoi aiutare qualcuno, fallo. In Costa d’Avorio, con UN euro dai cibo a CINQUE bambini, qui magari un bambino un euro lo getta in faccia ai genitori. Ringrazierò sempre la Basilicata, ma soprattutto Picerno, un paese davvero accogliente.


La canzone che la rappresenta?
Ascolto molto le canzoni del mio Paese, come quelle di Alpha Blondy o di Tiken Jah Fakoly. Ma a volte mi fanno piangere. Le ascoltavo nei viaggi in camion con mio padre.


Il film?
In tv principalmente guardo le partite.


Il libro?
Ho letto un libro di Nelson Mandela che mi ha dato la mia professoressa di Picerno. Non smetterò mai di ringraziarli perché mai mi sono sentito diverso per il colore della pelle.


Cosa vorrebbe fosse scritto un giorno su una targa nello stadio di Picerno?
«Ogni mondo è paese». Basta che ti adatti e ti comporti bene, puoi essere cittadino di ogni nazione.