lazic_e_de_stradis.jpg

 

 CLIKKA SULLA FOTO PER GUARDARE IL VIDEO DELL'INTERVISTA

 

di Walter De Stradis

 

 

 

Una delle (non moltissime, in realtà) istituzioni del calcio lucano è sicuramente lui, un Serbo, ex Jugoslavo, naturalizzato Potentino (parole sue): un distinto e magrissimo signore che corrisponde al nome di Ranko Lazic.

Cinquantanove anni, ex giocatore del Potenza (ma prima ancora nel Partizan Belgrado), allenatore a Villa D’Agri, Savoia, Lavello e Melfi, dopo sedici anni (!) in panchina al Francavilla, è passato dietro la scrivania (direttore generale) per volere e necessità dei Cupparo.

Alcuni lo definiscono il Boskov (per la saggezza e l’uso frequente di motti e proverbi) lucano, altri il Ferguson (per la longeva fedeltà alla sua attuale società calcistica) di Francavilla, ma lui sembra definirsi semplicemente uno con “la testa nel pallone”.

d: Come giustifica la sua esistenza?

r: Fa delle domande troppo difficili! Sono in ferie e mi volevo rilassare! (risate) Sono figlio di grandi lavoratori, di gente che ha fatto dei sacrifici e pertanto cerco di trasmettere questi valori nella mia famiglia (vivo per loro), rispettando e dando il massimo sul posto di lavoro.

d: Parlava di “grandi sacrifici”, infatti lei è Serbo, ma nato in Kosovo, in un momento particolarmente difficile (che continua ancora oggi).

r: Sono stato lì fino a sette anni, e poi -fino ai quattordici- ci tornavo l’estate per dare una mano a mio zio nell’agricoltura. Ho avuto un’infanzia bellissima, ma tornandovi via via notavo che le cose cambiavano: l’atteggiamento degli Albanesi-Kosovari si faceva sempre più duro nei nostri confronti, fino a quando siamo diventati minoranza etnica e siamo andati quasi tutti in Serbia.

d: Successivamente ha vissuto nella Jugoslavia del maresciallo Tito. A microfoni spenti mi diceva però che non sempre il diavolo è brutto come lo si dipinge.

r: Che dire. Io e la mia famiglia siamo cresciuti sotto il regime di Tito, ma non posso certo affermare che si stava male, no. Si stava anzi molto bene, con regole ben precise. Magari voi eravate informati diversamente: per proteggere il vostro modello di vita eravate indotti a pensare che Tito fosse un dittatore. Forse lo era anche, ma ripeto, noi vivevamo bene, e molti oggi lo rimpiangono. Ad esempio, Tito regalò alla mia famiglia un appartamento...

d: Suo padre era del partito?

r: Sì, ma nel partito non ci entrava chiunque, solo i migliori, quelli che si distinguevano nel lavoro, nello sport o nell’esercito. Ma in ogni caso non era una cosa opprimente, bensì -nei fatti, al di là dei divieti ufficiali- piuttosto tollerante. Ripeto, magari fuori dal Paese si diceva che in Jugoslavia si mangiavano i bambini, ma io non ho visto questo.

d: Oggi si definirebbe un comunista?

r: Venendo in Italia, questa cosa di essere democratico o comunista si è persa, perché ognuno fa e dice come gli pare. Ma neanche quando ero lì ero comunista, non mi interessava; mi chiesero di diventarlo perché ero un buon soldato, e mi diedero tre libri da leggere, ma la politica non mi interessava. Ero uno sportivo.

d: Immagino però che lei o la sua famiglia abbiate vissuto -direttamente o indirettamente- la guerra nei Balcani; oggi siamo alle prese col conflitto russo-ucraino... e prima diceva che in Italia arrivano solo un certo tipo di notizie.

r: All’epoca della guerra nei Balcani uscivano notizie che difendevano solo il vostro operato, ma parlando al telefono con chi era lì (io ero già andato via), beh, la musica era diversa. E’ chiaro, la guerra fa schifo, è sempre sbagliata e in guerra sbagliano tutti, però non me la sento di dare ragione a questa o a quella parte. La verità è che la responsabilità è dei leader, che decidono di portare in guerra la povera gente, per coltivare interessi politici particolari. E la povera gente muore. Odio la guerra: all’epoca della guerra nei Balcani io mi trovavo già qui e a causa dell’embargo non potevo nemmeno andare a trovare i miei genitori e i miei fratelli! Chi ha ragione oggi? Nè Putin né Zelesky ce l’hanno. A morire sono donne e bambini. Un domani se ne riparlerà, com’è successo con la Serbia e col Kosovo. Questa cosa non doveva proprio iniziare, e adesso è dura davvero. Speriamo finisca presto.

d: Cambiamo argomento e passiamo allo sport. Quando ha capito che il calcio sarebbe stato la sua vita?

r: Da sempre, già a otto anni. Ho giocato in squadre importanti, Ofik, Partizan... ma non ho avuto una grossa carriera come calciatore, anche se la sognavo. Non riuscii a sfondare (forse anche per colpa mia, scelsi l’Italia invece dell’America, ove invece si sono “sistemati” molti miei amici e hanno giocato pure nella nazionale Usa), e un giorno -per caso- mi proposero di fare l’allenatore a Villa D’Agri, e da quel momento in poi è iniziata questa mia attività.

d: E della sua carriera come allenatore si sente soddisfatto?

r: Non ho mai pensato a fare “carriera” (anche se ho pure il patentino da serie A), ma mi sono sempre legato molto alle persone e alle realtà che trovavo: sei anni a Villa D’Agri, quattro a Melfi e diciassette con la famiglia Cupparo a Francavilla. Se qualcuno rispetta Lazic, Lazic rispetta lui e non lo abbandona mai.

d: Anche il Potenza l’ha cercata. Sono stati approcci seri? E perché non sono mai andati in porto?

r: Sì, ci sono stati approcci seri, ma anche col Matera. Ripeto: Maglione a Melfi mi trattò benissimo, e pertanto rimasi lì, nonostante le offerte. Non so, magari è un mio difetto, ma sono fatto così: mi lego alle persone.

d: E perché oggi a Francavilla ha smesso di sedere in panchina e si è messo dietro una scrivania?

r: Guardi, anche quando ero l’allenatore del Francavilla, facevo già pure questo, in realtà facevo tutto (allenavo persino i bambini), ma sempre col massimo rispetto per chi mi era a fianco. I Cupparo negli ultimi anni hanno dovuto concentrarsi molto sulla loro azienda, e quindi oggi hanno delegato a me (essendo il loro uomo di fiducia) gli aspetti calcistici.

d: Lazic-allenatore è un capitolo definitivamente chiuso?

r: Finché resto a Francavilla sì. Poi non si sa mai, se costretto (dalle circostanze o dagli eventi: nel calcio può accadere di tutto) potrei tornare anche a fare il mister, che è la cosa che mi piace di più.

d: L’ultima stagione però è stata entusiasmante.

r: Siamo più completi, e io cerco di dare all’allenatore ciò che gli serve, lo proteggo. Ed è un aspetto sul quale io, da mister, non potevo contare.

d: Lei si divide fra Francavilla e Potenza, dove vive la sua famiglia. Lei dove si trova meglio?

r: Diciamo che sto più spesso a Francavilla, ove mi conoscono tutti, e viceversa, dai bambini di cinque anni agli anziani di cento! A Potenza ci vivo più che altro d’estate, ma anche qui ho molti amici, coi quali gioco a calcetto.

d: Sua moglie e i suoi figli sono Lucani, e ormai lo è anche lei: se potesse prendere Bardi sottobraccio, cosa gli direbbe?

r: Gli direi che io sono Serbo, ex Jugoslavo, naturalizzato Lucano e Potentino, e che quindi conosco tutti i problemi della regione, specie dei giovani. Gli direi che la Basilicata è bellissima, ma va sfruttata meglio. Non bisogna pensare solo alla Fiat o al petrolio, ma anche al turismo, alle infrastrutture. Pertanto direi a Bardi: lo so che è difficile -anche per lui- fare in cinque anni tutto ciò che non si è fatto in quaranta, ma i paesi sono rimasti vuoti e i giovani sono tutti fuori. Io ho due figli senza lavoro: non ci fate emigrare di nuovo in Lombardia! Fateci rimanere qui! Ecco, questo direi a Bardi, che stimo e rispetto, e lui sa cosa deve fare, ma gli chiederei di far rimanere qui i nostri figli e nipoti.

d: E a Macchia, neo presidente del Potenza, cosa si sente di dire? Che impressione si è fatto?

r: Caiata ha fatto cose incredibili col Potenza e bisogna fargli i complimenti. A Macchia va detto innanzitutto un “bravo” per il coraggio (fare calcio a Potenza non è facile), confidando che punti molto anche sui settori giovanili. Gli auguro un gran bene, sperando che non si limiti a fare calcio per due-tre anni, come spesso accade, bensì in un’ottica più duratura. A Francavilla c’è un progetto che va avanti da 25 anni, e se non fosse stato per i limiti invalicabili delle strutture (che non abbiamo), con questa società alle spalle avremmo potuto tranquillamente fare la Lega Pro! Potenza queste possibilità ce le ha, e auguro ai potentini che vengano sfruttate al massimo. Sono malati di calcio, quando mi è capitato di batterli, li ho visti piangere. Meritano molto: non deludeteli.

d: Mi dice il libro, il film e la canzone che la rappresentano?

r: Libri ne ho letti tanti, ricordo un direttore che mi costringeva e leggere “Guerra e pace”, che è di mille pagine, e io ci passavo i pomeriggi, mentre i miei amici dabbasso mi chiamavano per giocare a basket (da buoni Serbi)! Diciamo quindi che preferisco i libri sportivi, credo di averli letti tutti! (ride). Su film e canzoni non ho gusti particolari, la mia testa è troppo spesso “nel pallone” (risate).

d: Mettiamo che al campo di Francavilla, fra cent’anni, scoprano una targa a suo nome: cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

r: Lei mi tocca a livello emotivo, e lì non mi deve toccare (sorride). Come dicevo, sono consapevole che non possiamo andare oltre la serie D, anche se avessimo vinto il campionato non ci saremmo iscritti, perché fare lo stadio con le regole imposte dalla Figc ci è impossibile. Uno stadio da cinquemila posti, per un paese di quattromila abitanti non mi sembra realizzabile, insomma. Come vorrei essere ricordato? Io cerco di dare tutto me stesso… a scrivere qualcosa magari ci penserà chi verrà dopo.