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 DI WALTER DE STRADIS

 

Fra le diverse cose, il noto architetto potentino Gianluigi Barbato Padovani ha anche progettato gli interni del ristorante in cui di solito si consumano, oltre ai pasti, anche le nostre interviste “a pranzo” («con Domenico e Francesco, nel lontano 2005, pensammo subito a un locale contemporaneo, che potesse durare nel tempo»).

Dotato di aplomb all’inglese e di piacevole erre “arrotondata”, Barbato Padovani è quel che si dice una “mente”, da cui sono scaturite (e come si leggerà, scaturiscono tuttora) diverse idee e proposte di progettualità interessanti per la città capoluogo di regione...per salvarlo dalla linea “piatta” a cui sembrerebbe man mano abbandonarsi.

d - Al di là di ciò che è scritto nelle carte della professione, cos’è per lei un architetto? Esiste una “mission”?

r - All’inizio pensavo che l’architettura fosse legata solo alla realizzazione degli spazi. Nel tempo, con l’esperienza, ho capito che prima di tutto, forse, è la progettazione dei comportamenti.

d - Degli spazi con dei “contenuti”, quindi.

r - Sì, perché noi progettiamo per l’Uomo; di conseguenza, in qualche modo, è lo Spazio che deve relazionarsi con l’Individuo. E poiché questi si muove liberamente in quello Spazio, noi architetti a quel Movimento dobbiamo dare un significato, ovvero delle opportunità.

d - Proprio l’altro giorno leggevo di un vecchio studio americano, dal quale si evinceva che nei quartieri meno degradati esteticamente, e cioè più “belli”, si registra minore delinquenza.

r - E’ assolutamente vero. La funzione del Bello, dell’Architettura, fa sì che gli spazi, con la loro qualità estetica, inducano al rispetto di quei luoghi stessi.

d - E veniamo alle dolenti, o magari piacenti, note della città Capoluogo (ci dirà lei). Spesso si leggono scritti, se non addirittura classifiche, sulla “bruttezza”, vera o presunta, della nostra Città. Ma poi viene un regista, Simone Aleandri, a girarci un film con Ambra Angiolini, e a noi di Controsenso dice che Potenza lo affascina perchè, con i suoi palazzoni, sembra una città “noir”.

r - Potenza è una città che ha un suo “nucleo”, molto importante e direi anche molto apprezzato. Quando invito gente da fuori, questi ospiti guardano al centro storico come a un elemento di grande gratificazione. E’ vero, forse nel tempo la periferia è stata costruita con caratteristiche che non hanno rafforzato il centro storico, creando una dicotomia tra le due aree della città; insomma, non c’è stato un “continuum”, ma quasi una rivalità. Tant’è vero che, negli ultimi decenni, abbiamo notato che il centro storico è stato abbandonato. E quindi, ciò che normalmente accade in tante altre città, anche italiane, e cioè un nucleo forte che traina la crescita di un’intera città, non si è verificato. Attenzione, ciò non significa che la periferia sia per forza dequalificante (abbiamo infatti la fortuna di essere una città abbastanza tranquilla, che gratifica i suoi abitanti, tendenzialmente qualificativi), ma ugualmente ritengo che qualche sforzo in più si sarebbe dovuto fare, nella costruzione dei cosiddetti nuovi quartieri.

d - Si è badato solo a riempire degli spazi e non alla progettazione dei comportamenti, come dicevamo prima?

r - Parliamo di un maggiore senso sociale: bisogna guardare a chi abita la città, ma anche creare delle opportunità. Il centro storico, in qualche modo, è stato depauperato del suo ruolo come punto di aggregazione. Quando sono in Centro, io stesso non ritrovo quella frequentazione che ricordavo da bambino.

d - Ci ritrova, però, i “pali” dell'archistar Gae Aulenti in piazza Prefettura, che hanno suscitato tante polemiche.

r - Beh...

d -...però, anche in questo caso, viene a Potenza una scrittrice di fuori, autrice di una biografia sulla Aulenti (Annarita Briganti – ndr), e dice che quei pali sono una ricchezza, per la città.

r - C’è però sempre un problema, legato ai progetti che vengono calati dall’alto. Un progetto, di per sé, può anche essere interessante e valido, ma quando non è “digerito”, condiviso, con la popolazione, può creare questo tipo di controversie. E forse proprio questo è mancato al progetto di Piazza Prefettura. Oltretutto si è trattato di un “restyling”, non di un intervento sostanziale, utile a far sì che quel luogo diventasse anche funzionale al ritorno della gente in via Pretoria. E’ stata fatta una pavimentazione, messa una nuova illuminazione, ma probabilmente non si sono fatti degli interventi come quello proposto, anni addietro, di creare un parcheggio multi-piano, con accesso da XVIII Agosto. Avrebbe portato, nel cuore di Potenza, i potentini (e non solo, probabilmente).

d - Dunque, le occasioni CI SONO state.

r - Io penso proprio di sì. Credo anche che alcuni interventi fatti non siano stati gestiti in maniera adeguata.

d - Eppure si sono succedute varie amministrazioni, e di diverso colore, anche. Ma il “problema Centro” è sempre lì.

r - E’ visibile a tutti: oggi il centro storico arranca. Non è solamente un problema di architettura, ma di utilizzo degli spazi, di natura commerciale; insomma, un problema che deve guardare agli spazi anche in chiave merceologica. Probabilmente va fatto un progetto più ampio. Io stesso ho fatto degli studi sulla problematica del centro storico; è stata anche presentata, a un’amministrazione, una relazione che guardava a un particolare utilizzo della parte vecchia della città. Mi spiego: guardando al mercato dei matrimoni, scopriamo che muove risorse enormi. E nel Meridione non esiste un centro storico, caratterizzato, votato a questo. Eppure parliamo di un mondo fatto di cibo, di viaggi, di artisti, di fotografi, di finanza...

d - Un vero e proprio indotto.

r - Con centinaia di milioni che vengono spesi soltanto nell’ambito di tre regioni: Campania, Basilicata e Puglia.

d - Quindi lei dice che il nostro centro storico si prestava particolarmente a questa vocazione?

r - Assolutamente sì. Sia perché è uno spazio pedonale, sia perché ha tutta una serie di contenitori che potevano essere utilizzati.  

d - Alcuni dei suoi vicoli sono in effetti romantici.

r - Certo. L’idea è quella di un luogo attrattivo, ove le persone interessate trovano lo stilista, il sarto, l’artigiano delle scarpe, quello delle borse, il “food” ove scegliere, gli spazi per le manifestazioni legate ai matrimoni.

d - Senta, immaginiamo che un domani a Potenza venga istituito un Assessorato al “Bello”...e che venga dato a lei l’incarico.

r - …la prima pratica sarebbe sempre legata al centro storico. I luoghi, poiché vivono sulla storia delle persone, necessitano di partire dalla loro storia, E il Centro è la storia di una città. Partirei quindi da una riqualificazione a 360 gradi di quell’area, per poi allargarmi a tutta la città. Guardi, anche ciò che è accaduto col “110”, è stata un’opportunità mancata, che permetteva di ridisegnare gli edifici, con fondi dello Stato. Ciò poteva significare rendere i nostri edifici, perlomeno quelli che di bello hanno poco, molto più interessanti.

d - A proposito di film “possibili” da girare a Potenza, lei che genere di lungometraggio farebbe e dove?

r - Potenza ha una serie di prospettive interessanti. Come dicevo prima, l’importante è osare. Io guarderei, pertanto, alla città nella sua interezza; anche alcune aree che noi magari riteniamo più deteriorate, possono in qualche modo partecipare a questa possibilità. Mi sovviene il “Trattato sul Funambolismo”, di Philippe Petit, in cui si spiega che l’essenza del funambolo, che può muoversi tra due guglie, due spazi dimenticati, è quella della città, dell’Uomo. Ripeto, partendo dall’Uomo, puntando tutto sull’Uomo, le città possono vivere ed essere riqualificate.

d - Potenza deve essere più funambolica.

Bisogna osare di più.  

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A maggio saranno 25 anni a servizio della Chiesa. Questa settimana è Don Donato Lauriaa parlare, presentandoci laParrocchia "Maria SS. Immacolata" di Rione Cocuzzo, più comunemente conosciuto come Serpentone.

d - È un rione molto popoloso. Come è composta la comunità?

r - La realtà di Rione Cocuzzo, meglio ancora del territorio della Parrocchia Maria SS. Immacolata è costituita da una popolazione di oltre diecimila anime.Complessa e variegata è la composizione degli abitanti provenienti da varierealtà socioculturali, con annesso un territorio rurale che comprende attualmente lecontrade Gallitelloe Valle Paradiso.La gran parte degli abitanti risiede in quello che è comunemente definito “il Serpentone”, in massima parte famiglie monoreddito, altre vicinissime alla soglia di povertà, altre ancora con un alto indice di povertà, moltissime sono attualmente le famiglie formate essenzialmente da pensionati soli o con figli a carico senza lavoro o con lavori a tempo determinato, saltuari o addirittura ”a nero”.A fare da contrasto a questa realtà sono le cooperative che invece sono abitate da nuclei familiari più benestanti, ma nessuna, ma mio avviso, può definirsi “borghese” o “nobile” redditualmente.Il resto del quartiere è formato da famiglie anche giovani, la maggior parte di esse, però, con a carico figli unici.

d - Si è detto più volte in passato essere un rione “difficile”, è vero? Lo è stato/lo è ancora oggi?

r - Il Quartiere, fin dalla sua nascita, e ancora negli anni 80 e 90, per le sue grandi dimensioni e per le difficili condizioni di vita dei suoi abitanti, era definito il Bronx, un “quartieresimbolo” del degrado delle periferie della città.Le prime famigliearrivate nel rione ricordano di essersi trasferiti dal centro storico e dalla parte alta di Potenza, o dai paesini montuosi limitrofi in un quartiere ancora in via di costruzione,con un sistema fognario assente e una parziale e inadeguata illuminazione pubblica e dei bus e di altri servizi pubblici neanche l’ombra. Questo popolo di Rione Cocuzzo ha sempre lottato per migliorare le condizioni di vita del quartiere e uscire dall’isolamento e ha fatto sentire la sua voce verso le autorità amministrative e politiche dalle quali il più delle volte si è sentito abbandonato.Oggi tante cose sono notevolmente cambiate, i suoi abitanti, che hanno sviluppato un certo senso di orgogliosa appartenenza, sono attori fondamentali di un processo di rinnovamento e riqualificazione: hanno imparato a volergli bene e a prendersene cura, anche perché, per molto tempo, non c’è stato nessuno che lo facesse al posto loro.Sono presenti sul territorio le più importanti agenzie di servizi come la scuola, l’ufficio postale, la farmacia, il supermercato, molte attività commerciali e professionali e, ovviamente la Parrocchia, che in questi ultimi vent’anni ha avuto un ruolo dominante per il cambiamento culturale e sociale del Quartiere, compiendo un grande lavoro di aggregazione, soprattutto tra i giovani e diventando un punto di riferimento per tutte le famiglie del rione e per la città.L’attività parrocchiale al di là del suo specifico servizio ecclesiale e sacramentale, si concentra sulla cura del rione e sull’organizzazione di eventi culturali e religiosi aggregativi.Vorrei sottolineare che Parrocchia è innanzitutto chiamata ad educare, ma la grande tentazione di chi educa è l’ideale di perfezione che troppo spesso abbiamo in testa. Vorremmo studenti impegnati e diligenti, classi silenziose e partecipi, scuole pulite e ordinate, adulti dialoganti e disponibili. Ma le cose non vanno mai così, e allora ci lamentiamo.Noi pensiamo che la comunità è quel luogo dove tutto deve essere bello, dove tutto deve essere perfetto, senza macchia, che deve rispondere a tutti i nostri perché, ai nostri dubbi, dove niente e nessuno può sbagliare.La comunità è fragile, perché formata da uomini fragili.

d - La parrocchia che attività propone oltre a quelle strettamente legate alla religione? I cittadini partecipano alle attività?

r - Le attività sono molteplici e variegate e la gestione delle stesse è affidata agli animatori dell’Oratorio e a collaboratori adulti opportunamente preparati e responsabili.Laboratorio di Teatro, Coro ragazzi e adulti, attività sportive, laboratori di cucina e pasticceria, laboratori di taglio e cucito, centro estivo, gite e pellegrinaggi, Incontri culturali, Doposcuola con merenda. Le attività sono sempre accolte con grande favore soprattutto dalle famiglie dei bambini e ragazzi poiché vedono in esse una opportunità di crescita umana per i loro figli e di relazione e incontro per loro adulti. Se però facciamo un confronto con il passato, dobbiamo constatare una minore partecipazione numerica dovuta alle molteplici altre proposte che la città offre in ambiti diversi e, che prima, erano in un certo senso offerte solo dalle parrocchie.

d - Ci sono associazioni che gravitano intorno alla Parrocchia?

r - Stiamo cercando di progettare, di lavorare insieme alle altre associazioni del Quartiere come Auser, Gommalacca, Associazione Cocuzzo…anche perché solo dalla reciproca conoscenza e dalla stima gli uni per gli altri possono nascere collaborazione e sintonia.

vSi parla spesso di giovani che non frequentano le celebrazioni e le attività della chiesa, come è la situazione?

r - Come Parrocchia abbiamo concluso a gennaio una indagine sui “GIOVANI e la FEDE in UNA SOCIETÀ PLURICULTURALE E MULTIRELIGIOSA” su un campione di più di 1000 giovani dai 14 ai 28 anni.Avremo modo nei prossimi mesi di fare una più attenta riflessione su questa indagine. Per il momento posso dire che i giovani non si pongono “contro”, ma stanno imparando a vivere “senza” il Dio presentato dal Vangelo e “senza” la Chiesa.Stiamo vivendo un cambiamento d’epoca in cui la fede è ormai marginale e i cristiani sono una minoranza.

d - Caritas parrocchiale - Quante e che tipologia di famiglieassistete?

r - La povertà continua a mordere, come confermano i recenti dati Istat secondo i quali "la povertà conferma sostanzialmente i massimi storici toccati nel 2020, anno d'inizio della pandemia". Una condizione difficile, che incide sulla vita dicentinaia di famiglie del quartiere e della città sempre più in affanno nell’arrivare a fine del mese e a provvedere, in maniera autosufficiente, alle cosiddette spese fissequelle che in famiglia non mancano proprio mai. Ed è su questo fronte che l’azione della Caritas parrocchiale e si è fatta da qualche anno più intesa e concreta. Da una parte con la distribuzione di pacchi alimentari, dall’altra sostenendo in maniera totale o parziale il pagamento diretto di bollette, affitti e, a volte, rate di mutuo.Nel nostro territorio parrocchiale non ci sono i poveri di strada, quelli cioè che siamo abituati a incontrare davanti alle chiese, nelle zone centrali delle grandi città o in quelle ad alta frequentazione turistica. Qui i poveri si mimetizzano nel tessuto sociale, gente apparentemente normale ma tutti con un equilibrio economico molto fragile e in molti casi con entrate legate alla giornata.

d - Intervenite anche in qualche altro modo?

r - Certo, non c’è solo l’aiuto materiale, è indispensabile puntare anche sull’aspetto educativo. Spesso ho a che fare con persone che, come diciamo da queste parti “ci provano”! Gente cioè che bussa alle porte della chiesa con un approccio da bancomat provando a mettere in piedi l’ennesimo tentativo di ottenere qualcosa. Persone che in realtà non vivono un bisogno impellente, cui è giunta voce che “la parrocchia aiuta” e che quindi provano a vedere se è possibile rimediare qualcosa. Ma la cosa che più mi colpisce è che alcuni di quelli che aiutiamo, potrebbero tranquillamente farcela da soli e non lo fanno, o perché non hanno voglia oppure perché spendono il denaro per futili motivi.Altra povertà è quella della solitudine degli anziani, molti dei quali vivono lontano dai propri figli, emigrati per necessità in altre città del nord o, addirittura, in altre nazioni. Il nostro intento è quello di creare quei legami che in qualche misura in un grande quartiere come questo vengono meno. Su diecimila abitanti, numerosi sono gli ultraottantenni. Per questa fascia d’età dovremmo impegnarci molto di più a fare rete con altre associazioni presenti sul territorio e che da anni offrono loro sostegno e iniziative formative, culturali e ricreative.

d - Vita nel quartiere - Quali sono i principali problemi che icittadini lamentano?

Adesso passano tantissime macchine e, in alcune ore della giornata, sembra un circuito di corsa per le auto. Corrono vicino alle palazzine, rischiando di investire qualcuno. In realtà̀ è già̀ successo più volte. Sarebbero auspicabili dei rallentatori e una maggiore presenza delle forze di polizia nelle ore di punta. Occorrerebbe illuminare maggiormente alcune zone del quartiere, così da renderle più vivibili e sicure, riparare le strade periferiche del quartiere e avere più cura del verde pubblico.

Ovviamente in ogni cosa ci si aspetta dalla popolazione un maggior senso civico.

d - Nei prossimi mesi i potentini saranno chiamati a scegliere il loro primo cittadino.Se lei fosse sindaco…

r - Nella nostra città ci sarebbero davvero tantissime cose da fare e francamente io non riesco ad individuarne la priorità, né a riassumere in tre punti assegnando un ordine d’importanza. Sono forse le scuole meno prioritarie degli asili nido? Sono forse la viabilità o i trasporti d’importanza secondaria rispetto alla esigenza di una sanità che possa mettere i nostri eccellenti professionisti nelle condizioni di declinare le proprie capacità in una struttura che lo consenta? Non sarebbe forse prioritario lavorare a un progetto che possa guardare oltre il proprio naso, sulla gestione degli spazi pubblici della nostra città?Ho sempre creduto che la nostra città viva da decenni una crisi di sistema orizzontale e verticale. I cittadini si avviluppano sempre di più dentro una critica sterile ed improduttiva, volta al lamento incline al sentito dire e priva di quel senso civico, di quella passione che muove le comunità che hanno la consapevolezza di esserlo. L’uso che si fa dei social certo poi non aiuta.La cosiddetta “classe dirigente”, quando si muove, lo fa senza mai riuscire a mettere a segno ancheUN SOLOprogetto condividendone i contenuti e il fine, bravi come siamo a dare priorità alle nostre ambizioni personali e politiche ancorché all’interesse collettivo. Potrei solo dirvi che occorrerebbe ricominciare da zero: dall’imparare l’importanza fondamentale nelle nostre vite quotidiane del ruolo delle Istituzioni per saper discernere a chi farle incarnare. Almeno proviamo ad insegnarlo ai nostri figli!

 

 

 

 

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Tra gli Allievi Ufficiali appartenenti al 205° Corso "Fierezza", hanno giurato anche i materani Francesco Armento di Bernalda e Luigi Dimichino di Montescaglioso. Il corso è frequentato da 230 Allievi Ufficiali, dei quali 216 italiani e 14 stranieri, provenienti da undici paesi diversi.
Nel Cortile d'Onore del Palazzo Ducale di Modena, sede dell'Accademia Militare, gli Allievi Ufficiali hanno  giurato in forma solenne, alla presenza del Capo di Stato Maggiore della Difesa, Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, del Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, Generale di Corpo d'Armata Carmine Masiello, e del Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri, Generale di Corpo d'Armata Teo Luzi.
L'atto solenne, avvenuto al cospetto della Bandiera dell'Istituto e dinanzi al padrino del corso, Tenente Colonnello Gianfranco Paglia, Medaglia d'Oro al Valor Militare, ha suggellato l'ingresso degli Allievi Ufficiali nei ranghi dell'Esercito Italiano e dell'Arma dei Carabinieri e la loro adesione, intima e spirituale agli ideali, tradizioni e valori - cardini dell'etica militare - incastonati nella tradizionale formula del giuramento, pronunciata dal Comandante dell'Accademia Militare, Generale di Divisione Davide Scalabrin.
<<Ho deciso di entrare in Accademia per l’opportunità formativa offerta dall’Esercito dal punto di vista degli studi, dell’educazione fisica e della formazione tecnica militare. Inoltre, la possibilità di sviluppare la capacità di essere leader e imparare a ragionare anche in condizioni di stress>>, ha dichiarato l’allievo lucano Francesco Armento, di Bernalda; << Qui ho la possibilità di conciliare la vita universitaria, l'attività ginnico-sportiva e l'addestramento tecnico-tattico. La volontà di dare un contributo alla comunità del Paese che io amo tramite le competenze apprese e le conoscenze acquisite>>, ha invece affermato Luigi Dimichino di Montescaglioso.
Il Capo di Stato Maggiore della Difesa si è rivolto ai giovani Allievi Ufficiali evidenziando che “Il Capo dello Stato, il Ministro della Difesa, tutte le Istituzioni e tutti i cittadini guardano a noi, ma soprattutto a voi, che siete il futuro come presidio di democrazia, di libertà e quale sicuro punto di riferimento per la sicurezza e la stabilità..”.

Il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, rivolgendosi ai futuri Comandanti, ha sottolineato che "giurando fedeltà alla Repubblica Italiana, vi siete assunti la responsabilità di difenderla con la Costituzione e le libere Istituzioni che la incarnano. È un contratto che firmate davanti al Tricolore, è un patto d'onore che vi lega alla Patria”

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di Walter De Stradis

 

 

 

Pochi altri medici lucani possono vantare un “palmares” di incarichi e riconoscenze prestigiose come le sue. Il professor Michele De Bonis, spesso e volentieri titolato come “eccellenza”, nazionale e regionale, originario di Pietragalla (Pz), è primario dell’Unità di Cardiochirurgia delle Terapie Avanzate e di Ricerca presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, professore associato di Chirurgia Cardiaca e già Direttore della Scuola di Specializzazione in Cardiochirurgia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Ricopre ruoli di prestigio a livello europeo ed internazionale e presso l’Unità che dirige esegue oltre 5.500 interventi maggiori di cardiochirurgia, di cui circa 3000 in qualità di primo operatore.

Ciononostante, è in maniera manifesta un uomo di un’affabilità e un’umiltà addirittura spiazzanti, che ogni mese prende il treno per venire a visitare, qui a Potenza, i suoi corregionali bisognosi di cure.

Ah…e ha fatto parte dell’equipe che ha operato un certo Berlusconi.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r - Pariamo con una domanda che forse è la più importante, fra quelle che mi farà. La mia esistenza la giudico sulla base del dono più grande che ho: la mia Fede. Tutti noi siamo il risultato di UN progetto d’amore e siamo chiamati a corrispondervi. Per caso, l’altro giorno, rispondendo a un messaggio di mia moglie (anche lei cardiochirurgo), ho trovato ciò che aveva scritto sul suo profilo whatsapp, una frase di don Tonino Bello: “La vita ci è donata per conoscere Dio; la morte per incontrarlo e l’Eternità per possederlo”. Credo che possa riassumere una risposta alla sua domanda.

d - Lei è originario di Pietragalla, ma sin da giovanissimo ha lasciato la Basilicata. Si è mai sentito, in qualche modo, un’eccellenza sottratta alla sua regione?

r - Se avessi potuto (o potessi), contribuire di più al bene della mia regione, mi avrebbe riempito di gioia. Il motivo per cui sono andato via –quando avevo 18 anni- è per frequentare l’Università Cattolica del Sacro Cuore, in una facoltà a numero chiuso, in quel momento anche l’unica. Quella era la struttura che in quel momento, a mio giudizio, poteva offrirmi le migliori prospettive. Non credo di essere stato “sottratto”, avendo liberamente scelto di proseguire un percorso che era quello che mi interessava: avere la migliore preparazione possibile, e seguire la mia passione, ovvero la Medicina.

d - A microfoni spenti mi ha detto di essere stato un “biglietto giallo”.

r - Sì. Avendo la mia famiglia un reddito molto modesto, ero un “biglietto giallo”. Ma ricordo con piacere questo colore, perché sono molto riconoscente alla “Cattolica”. Ho potuto frequentare quella Università, a numero chiuso, sostanzialmente in modo gratuito, purché mantenessi un rendimento molto alto (bisognava avere la media, almeno, del 29,5). In virtù di ciò, avevo anche a disposizione un alloggio (in un collegio della “Cattolica”) e un contributo spese per i libri.

d - Lai ha grosse collaborazioni a livello europeo…

r - …ho iniziato abbastanza presto questo tipo di percorso, andando al St. George Hospital di Londra; prima ancora ero stato in Belgio, presso diverse istituzioni. Successivamente, pur avendo superato l’esame (di per sé abbastanza difficile) per esercitare negli Stati Uniti, sono rimasto in Europa, lavorando al San Raffaele. Nel frattempo sono arrivati alcuni altri incarichi, fra i quali, quello di presidente della Task Force sulla Chirurgia Mitralica e Tricuspidalica della European Association for Cardiothoracic Surgery; quello di presidente del Working Group for Cardiovascular Surgery della Società Europea di Cardiologia; di referente per l’Europa dell’American Heart Association (l’associazione americana più grande in ambito di cardiologia). Attualmente sono il Presidente della Mitral Research Network, un’organizzazione di ricerca della Heart Valve Society. Sono stato anche “visting professor”, sia in Inghilterra sia nel centro in cui il professor Barnard fece il primo trapianto di cuore in Sudafrica. Ho poi avuto un ruolo importante nelle liee guida (Società Europea di Cardiologia e Cardiochirurgia) sulle valvulopatie nelle ultime tre edizioni.

d - Lei è dunque un Lucano, un vero luminare, che si è affermato a livello nazionale e internazionale; eppure una volta al mese, o giù di lì, torna qui a Potenza per fare le visite al centro Kos. A occhio e croce, uno come lei non ne avrebbe bisogno.

r - Dipende dal modo col quale si intende questo lavoro. Ha ragione, se guardiamo all’aspetto economico, non ne ho bisogno. L’esigenza è nata però dal fatto che, ormai molti anni fa, ricevevo tantissime richieste di informazioni, contatti etc. Ma questi pazienti non potevo visitarli, e dunque o dovevo invitarli a Milano o dovevo limitarmi a consultare la loro documentazione a distanza. Tutto ciò non mi rendeva sereno, ovviamente, e pertanto questa scelta di venire a Potenza periodicamente, concentrando un certo numero di visite, mi consente di offrire un servizio che posso reputare davvero utile a chi lo desidera.

d - Fra i numerosi premi ricevuti, non manca quello di “Lucano Eccellente”. Qual è stato per lei, se c’è stato, il valore aggiunto nell’essere un Lucano?

r - (Sorride). C’è stato, eccome. La parte lucana che ritrovo dentro di me è soprattutto legata ai valori che ho ricevuto e che –perlomeno alcuni- si ricevono per “osmosi”. Mi riferisco al basso profilo, all’umiltà dei miei genitori e delle persone che mi hanno circondato; le amicizie che ho vissuto; la semplicità dei rapporti; il capire, fin da subito, che le cose bisogna conquistarsele, e che non si vive di rendita, bensì di sacrificio e lavoro. Voglio dire anche altro: la Lucania è Colore, la Lucania è Luce. E’ ciò che faccio notare ai miei figli (che amano tornare); qui il verde è più verde, il blu è più blu. Contavo con mia figlia, l’altro giorno, i paesi del mondo in cui sono stato per lavoro: ventidue. Nelle grandi città i colori sono sempre offuscati. E poi, vogliamo parlare dei sapori? Della genuinità? Della bassa densità della popolazione, anch’essa un valore? Della vita che ha un ritmo diverso? A tutto ciò bisognerebbe associare –e sta succedendo, succederà- tanta, tanta professionalità, servizi, risposte.

d - Ecco, cosa invece NON le piace della Basilicata, quando ci torna?

r - Le dico una cosa, con dispiacere, che qui mi capita da anni: se un paziente ha prenotato una visita, e poi non ci viene, non disdice. Non chiama per disdire. E se lo si chiama, perché non sta venendo, non risponde. E’ il segnale di un fatto: noi tutti dobbiamo fare anche un po’di autocritica, invece di esprimere solo lamentele. Dobbiamo riflettere di più sul nostro senso civico. Al San Raffaele, se un paziente non viene, sistematicamente chiama e disdice, e il suo posto viene preso da un altro.

d - Lei ha fatto parte dell’equipe chirurgica che nel 2016 ha operato Berlusconi, che immagino circondato da tutto un “entoruage”, invasivo o meno. Quando si ha “sotto i ferri” un personaggio del genere, si avverte una certa pressione, rispetto alle situazioni più ordinarie?

r - Se devo dare una risposta sincera, come fatto finora, dico “senz’altro”. La pressione –e anche un po’ di legittima ansia- si avverte, anche per la presenza di telecamere e giornalisti. In sala operatoria però bisogna concentrarsi su quello che si fa, “ricordando” la storia del paziente (che comunque si è incontrato prima). Portiamo in sala operatoria parte della sua famiglia, le preoccupazioni di coloro che stanno con lui, ma in quella sede c’è un “campo” in cui si è molto tecnici e persino “freddi”, per fare le cose per bene. Come per tutti i pazienti, si voleva andasse tutto bene. Ciò è avvenuto, e, sì, abbiamo tirato tutti un sospiro di sollievo.

d - Il libro che la rappresenta?

r - Non so se mi rappresenta, ma il testo che continua a essere sul mio comodino (e così sarà per sempre) è un’opera che in pochi conoscono. E’ un libricino piccolo così, apparteneva a un mio zio sacerdote che è stato missionario per diciotto anni sul Mato Grosso: “L’imitazione di Cristo”. E’ di un anonimo, probabilmente di ambiente monastico. Riempie il cuore di bene. Per lo stesso motivo, continuo a leggere e rileggere un’opera, in dieci volumi (cinquemila pagine), di Maria Valtorta, “L’Evangelo come mi è stato rivelato”.

d - Il film?

r - Ce ne sono tanti. Potrei dirle “La Leggenda del pianista sull’oceano” di Tornatore, “Il pianista” di Polanski, ma anche “Interstellar” di Nolan. Cerco quei film che mi lasciano dentro delle emozioni.

d - La canzone?

r - Direi “Making movies” dei Dire Straits, così come “Tunnel of Love”. Ricordo benissimo quando uscì il loro album “Love over Gold”: avevo vinto una borsa di studio per andare negli Usa, bandita dalla Regione Basilicata (“Intercultura”). Il disco fu la colonna sonora di quei sei mesi americani.

d - Mettiamo che fra cent’anni, qui in Basilicata, scoprono una targa a suo nome: cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

r - Credo sia una fase di San Paolo: “Ha concluso la sua battaglia, ha conservato la Fede”.

 

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di Walter De Stradis

 

 

A Potenza, lui, Michele “Lello” De Novellis, settantaduenne con voce pacata e leggera inflessione partenopea, e la sua famiglia, in quanto gestori dello storico bar, sono molto conosciuti. Tuttavia in pochi, ci dice, conoscono il loro cognome. Per tutti, e da ottant’anni, sono “quelli della Stazione”.

D - Come giustifica la sua esistenza?

R - Nel Dopoguerra mio padre si trovò a dover gestire brevemente il bar della Stazione (oggi Centrale). Doveva essere una cosa di una ventina di giorni, ma poi è durata ottant’anni.

D - Quali sono i suoi primi ricordi del bar della stazione di Potenza?

R - All’epoca la Stazione era un terminal di trasporto, con la funzione di accogliere -cinquanta chilometri a sud e cinquanta chilometri a nord- tutti i paesini limitrofi. E poi sul piazzale c’era lo stazionamento dei pullman, che raggiungevano quei comuni non provvisti di fermata ferroviaria. Questo trasbordo continuo rendeva la Stazione molto accorsata e popolata. L’unica cosa che oggi resiste, insieme a noi, è il barbiere: tutti gli altri sono andati via, perché economicamente non ce l’hanno fatta.

D - Gli altri sarebbero?

R - La storica edicola, una biglietteria a largo raggio...una rimessa di noleggio.

D - Perché non ce l’hanno fatta? Per la crisi economica o magari perché la zona è stata tagliata fuori?

R - E’ stata tagliata fuori da quel vecchio progetto di viadotto che doveva collegare la zona della Stazione con la superstrada. Un pezzetto ne è rimasto davanti all’Anas, ma tutta quell’operazione si è rivelata essere opportuna per la costruzione delle cosiddette “due torri”, abitazioni civili che sono di fronte. Ne consegue che però è stata del tutto “tagliata” la vecchia scorciatoia, che -asfaltata e rimessa posto- collegava la Stazione, viale Marconi con il Rione Francioso. E dava un “circuito” alla viabilità. “Tagliata” quella, la Stazione è rimasta strada...chiusa. Immagino che anche i vostri, di affari, siano calati. Siamo a un terzo di quello che era prima il movimento, perlomeno rispetto agli anni Novanta.

D - Non avete mai fatto presente questa situazione a chi di dovere?

R - (Scuote la testa) Mi ricordo una citazione, sentita in Stazione, anche se non so a chi attribuirla: “Gente di Basilicata avvezza, da sempre, a gratuite riverenze”. Questa cosa un po’ è rimasta a tutti: quando si tratta di rivendicare qualcosa, ci sembra sempre di essere, non so, presuntuosi.

D - Quindi per “pudore” lei non ha mai detto niente.

R - Sì, per “pudore”. Mi piace questa parola.

D - Oggi però ci sono più famiglie che dipendono dal vostro bar.

R - Senza esagerare, diciamo che sono tre.

D - E se dovesse provare a chiedere una cosa, attraverso questo giornale...?

R - Per parlare di una cosa possibile, partirei dalla scala mobile, o meglio, di una frazione della scala mobile. Quel piazzaletto pedonale costruitovi davanti è sicuramente, dal punto di vista architettonico, eccellente. Uno dei fautori, un architetto, è un mio amico. Impostato in spazi quattro volte più ampi, era assolutamente ben collocato, ma oggi, quello spazio che è stato preso dal giardinetto pedonale ha praticamente “annullato” il piazzale della Stazione (che è già chiuso verso il Francioso ed è privo di sbocchi). Una volta, nel piazzale, trovavano spazio vitale per il movimento anche i pullman, che potevano fare inversione, mentre adesso si è tramutato in una strada, il che rende tutto molto più complicato.

D - E quindi lei cosa chiederebbe?

R - Di ridurre quello spazio lì davanti.

D - Però presto dovrebbero partire i lavori di riqualificazione della Stazione, per gentile concessione dei fondi Pnrr.

R - Sì, per sentito dire, quest’opera di restyling atterrà più che altro all’interno della Stazione. In pratica, il camminamento per accedere ai servizi (bar, tabaccaio, biglietteria), comporterà una specie di riapertura di quell’arco che adesso, nel mio esercizio, è murato. Verrà aperto un tantino più a lato, con dimensioni più grandi, dando una visione più frontale, sino alla biglietteria. I lavori risolveranno anche quei piccoli problemi di barriere architettoniche, rappresentati ad esempio dai gradini (che sul lato binari sono molto evidenti). Lei è la memoria storica della Stazione: qualcuno vi ha chiesto dei consigli in merito? Beh, sì, i massimi esponenti del restyling si sono a lungo fermati a colloquiare con noi. Credo che il tutto dovrebbe partire a fine aprile, penso in coincidenza della chiusura per lavori della tratte per Foggia e Taranto-Napoli. Ma è sempre un sentito dire.

D - In ottant’anni di gestione familiare, ha un ricordo, di un fatto o di una persona, che l’ha segnata particolarmente?

R - Non si tratta di un solo fatto o di una sola persona. Prima esisteva un vero e proprio “Rione Stazione”, con le abitazioni di un gran numero di addetti (e famiglie) delle Ferrovie. C’era una gran bella vita sociale. Il passaggio continuo di gente che andava avanti e dietro dai paesi creava una rete di conoscenze e di “piccola solidarietà”.

D - La famosa “solidarietà di vicinato” che si racconta esistesse in Centro... ...c’era anche alla Stazione.

R - Quando ancora non erano ancora obbligatorie le cassette del pronto soccorso, nei cassetti del nostro banco c’erra sempre almeno un cerotto, dello iodio, del disinfettante, alcool denaturato, cachet per il mal di testa. C’erano, perché servivano spesso ai viaggiatori, dopo lunghi tragitti in treno. Tutto iniziò a finire quando mi fu intimato -dal medico del posto di infermeria appena istituito in Stazione- di non concedere nulla a nessuno, perché era reato. Quel posto di infermeria durò solo sei mesi, ma a noi rimase la paura di fornire quegli aiuti (di ordinaria amministrazione) e da quel momento venne un po’ meno quell’ “input emotivo”, su tutte le cose.

D - Lei è ancora oggi testimone delle differenti dinamiche del via-vai alla Stazione. Cosa ci racconta, tutto ciò, della Basilicata di oggi?

R - Di ragazzi che partono in realtà ne vedo pochi, poiché autobus e pullman privati, con orari e velocità più “spicci”, hanno praticamente assorbito il 90% dei movimenti. Senza tema di smentite, chi oggi usa il treno (o i sostitutivi) vi è costretto dagli orari di lavoro, che non gli consentono altro. E arrivano sempre un po’ scoraggiati, scoraggiati dalle lungaggini dei tempi di percorrenza. Si tratta più che altro di qualche professore del Conservatorio, di qualche impiegato di concetto che si intrattiene una decina di minuti e -senza voler apparire presuntuoso- magari ci ringrazia pure per l’esistenza di questa “isoletta”, di questa “oasi”, in questo squallore, in questo deserto.

D - Speriamo allora che campi a lungo il bar della Stazione.

R - Questa speranza ci ha sempre accompagnati. Vede, per noi quel posto è stato via via la culla, il parco giochi, la via Pal, il luogo ove si tornava al tramonto, dopo le escursioni in viale Trieste e in via Pretoria (che per noi della Stazione erano zone lontane e ambite). Noi qui ci abitavamo. Intorno c’era tutto verde, la collinetta. Qui ci ho trascorso la vita, dunque, e quindi oggi ti ritrovi a considerare il profitto in seconda posizione, rispetto ai ricordi.

D - La vostra, lo dico io, a conti fatti è anche una piccola “missione”, quella di mantenere vivo quel presidio di socialità.

R - Io non posso dirlo.

D - Cosa, di quel passato che ha descritto, si può realmente recuperare?

R - Torno a dire che ridurre l’ “anti-scala mobile” ridarebbe un pochino di agio alla “rotabilità” della piazza. Molti con le auto non ci vengono, perché è un imbuto. E poi, naturalmente, i treni regionali -oggi sacrificati sull’altare degli autobus, che sono dislocati dalla Stazione sono la vocazione della Stazione stessa, non certo le lunghe percorrenze, che ci sfiorano e vanno via.

 

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di Walter De Stradis

 

 

 

Il poeta, scrittore, cantautore e anche pittore rionerese Vito “Vitus” Viglioglia, è -a pelle- una persona spirituale, un individuo, cioè, connesso con le “antenne” sempre accese (per chi sa a ascoltare) dell’universo umano e non.

Libri, dischi (in solitaria o con la sua band attuale, i Meteopanik), “sono-poesie” e un’infinità di altre produzioni, lo rendono -e non è un mistero per nessuno- uno degli artisti più vividi e originali della nostra Terra... Con tanto di “beneplacito”, a suo tempo, di Antonio Infantino. E chi si intende di musica sa che non è certo cosa da poco.

d - Come giustifica la sua esistenza?

r- Io non giustifico la mia esistenza. E’ esattamente il contrario. E dubito anche dell’esistenza stessa. Nella vita ho provato delle emozioni e delle esperienze tali, che a volte mi fanno dubitare persino del fatto che possiamo esistere.

d - La vita è illusione?

r- Mi viene in mente una bella frase di Pessoa: “Lontano da me, in me esisto”.

d - In questa (non)esistenza, è l’arte ad aver scelto lei o viceversa?

r- Quando parliamo di esistenzialismo -no?- è come se mettessimo una prerogativa alla vita, alla libertà, all’amore, ai sentimenti. E’ un po’ come se la categorizzassimo. Prima, scherzando a microfoni spenti, lei mi ha detto: chi fa troppe cose, è capace che non ne faccia bene una. (Risate).

d - Scrittore, poeta, cantante, pittore...

r- Banalmente le rispondo che è un’esigenza, la mia, quella di suonare, di dovermi esprimere, perché credo che ogni essere umano, al di fuori della quotidianità, ha bisogno di elementi che gli consentano di esprimere completamente se stesso. Allora questo può avvenire attraverso una ricerca sperimentale della propria esistenza, e nella forma pratica dell’arte: pittura, musica, scrittura.

d - C’è forse un grido esistenziale che Vitus cerca di far arrivare al prossimo?

r- Può essere un grido, così come un canto, può essere un piano o un forte. La voglia è però quella di comunicare ciò che di vero e importante c’è nella mia vita: le relazioni, ciò che provo e che sento. E questo è abbastanza per farmi sentire vivo.

d - Non sarò così ingenuo da chiederle se è nato prima il cantante o il poeta.

r- Il primo brano che ho cantato in pubblico è stato “Starway to Heaven”, al centro sociale “Pasquale Sacco” di Rionero. C’era una manifestazione ed ero coi miei amici Antonio Sernia, Michele Consiglio, Pina Cammarota. Ero emozionatissimo.

d - C’è stato poi un fatto, o una persona, che l’ha convinta a continuare su questa strada?

r- E’ stato molto semplice, perché frequentavo tutte persone che suonavano e c’era un bel fermento. Maurizio Di Lucchio, per esempio, mi fece conoscere “Dylan Dog”, il fumetto: Antonio e altri amici mi fecero vedere la prima Fender Squier nera. Mi innamorai subito. Devo anche ringraziare molto Antonio Savella, un caro amico del mio babbo, che mi addentrò nel mondo del jazz e della musica classica. Nella mia infanzia, dunque, vedevo questi universi nuovi che si aprivano.

d - Lei infatti, oltre che tra varie forme artistiche, spazia anche fra vari generi musicali: rock, jazz, le “sono-poesie”...anche se c’è chi dice che le poesie non vanno musicate.

r- Anche, sì, beh, ognuno la pensa come vuole, non sono uno di quelli che emette veti su certe cose. Non mi piace nemmeno la competizione nell’arte. Mi piace vivere il mio mistero nella maniera più libera. “A ciascuno il suo” diceva Sciascia.

d - Per queste poesie in musica lei collabora, anche, con Graziano Accinni, storico chitarrista di Mango. Qual è il suo pensiero su Angelina, fresca vincitrice del Festival?

r- Credo sia una bellissima persona e una bravissima ragazza. Mi dà l’impressione di una persona limpida, che sa vivere i sentimenti. Al di là del talento, del successo e dell’essere figlia d’arte, il lo vedo nei suoi occhi. Quando ha cantato “La rondine” io mi sono emozionato tantissimo. E solo chi porta dentro di sé l’amore, la verità, la bellezza, può comunicare queste cose.

d - La domanda che rivolgo a tutti gli artisti lucani: quali sono le difficoltà nel proporre un proprio percorso qui in Basilicata?

r- Se penso alla carriera artistica come obiettivo per arrivare da qualche parte, dal punto di vista del marketing, ritengo che qui da noi ci siano dei limiti, perché l’industria discografica è completamente assente. Però, attenzione, l’arte, nelle sue fondamenta, si nutre anche di ciò che ci circonda, e la Basilicata, paesaggisticamente, umanamente, è bellissima. Quindi io mi nutro della mia terra, dono alla mia terra e questa a sua volta mi dà, perché parliamo di arte, che come tale, è pura. La mia terra è la MIA ispirazione.

d - Quindi tutto bene?

r- Per me ogni luogo che sa regalare ispirazione, anche con le sue contraddizioni -che ci sono- è bene.

d - Col gruppo di cui lei fa parte, i Meteopanik (in cui militano anche Vito Di Lorenzo, Peppe Di Tolla e Gianluigi Santoro e Antonio Verbicaro), è stato anche lei a Sanremo.

r- Sì a “Sanremo Rock” che appunto è la declinazione “rock” di Sanremo. E noi, con i riff di Vito Di Lorenzo, non possiamo non definirci una “rock band”. “Kinapoetem”, il contrario di “Meteopanik” è invece il nostro progetto acustico. Sì, siamo stati a Sanremo e -che glielo dico a fare- è un luogo magico.

d - Sì, ma so che vi siete dovuti confrontare con una realtà che ha le sue regole, diciamo così.

r- Sì, più che le sue regole, a volte sembra avere le sue ingiustizie. Tocca parlare dell’ovvio, in un Paese come questo. Noi vi partecipammo da indipendenti, ma vinse un artista, Nevruz, sostenuto da Elio e Le Storie Tese. Noi non eravamo sostenuti da nulla, se non da noi stessi...e dal Creatore. Per noi dunque è stato un po’ più difficile, però ci siamo tolti lo stesso delle grandi soddisfazioni: alla fine della nostra esibizione, Matt Backer, chitarrista di fama mondiale (Elton John), che era in giuria, mi disse questa cosa, col suo accento anglosassone: «Questo ragazzo è il figlio di Chris Cornell e Yoko Ono». In quel posto si era creata un’energia incredibile, un trasporto straordinario, quel Teatro ha una sua anima!

d - Come artista e uomo, cos’è che in Basilicata la fa indignare?

r- A volte la miseria umana è un’indignazione per me stesso e per gli altri. E’ un sentimento universale, è la radice del male che può nascondersi ovunque. Ma non è un problema della Basilicata, bensì dell’essere umano. A mio avviso, in questa vita, noi siamo tenuti a sperimentare continuamente i nostri limiti e a migliorarci continuamente in ogni momento. C’è sempre la possibilità di migliorarsi, di fare esperienza e di redimersi, dai peccati e dalle brutture che a volte circondano la nostra vita. Vorrei dunque una Basilicata, e un mondo intero, più solidale, più fraterno. Una Basilicata, più allegra, più positivamente orgogliosa di quello che ha.

d - I suoi progetti imminenti?

r- Con i Metepoanik siamo in fase di composizione del nuovo disco. Poi c’è un progetto con Graziano Accinni, col quale musicheremo delle preghiere. Inizialmente mi propose di cantare i testi che mi aveva mandato, in dialetto moliternese (“‘U Bambinieddu”), ma poiché ho avuto qualche difficoltà, ho scritto delle preghiere in Italiano e le sto musicando. E’ un percorso spirituale, oltre che artistico.

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di Walter De Stradis

 

«L

a sezione di Potenza dell’Associazione Italiana Donne Medico è nata sei anni fa (a Matera è attiva da undici, con una prima presidenza della dottoressa Titti Laurentaci). Il nostro è un gruppo di ventitré medici, tutte donne, con diverse specialità. Vorremmo inserire anche uomini, per la verità, come uditori e collaboratori per i vari congressi, incontri, webinar che ci apprestiamo a organizzare».

Elena Carovigno, ginecologa dalla voce gentile e i modi particolarmente garbati, è una donna assai appassionata, interprete di un lavoro nobile, che lei ha deciso di vivere in maniera il più possibile intensa, completa (anche dal punto di vista sociale)... e soprattutto libera, come vedremo.

d - Su cosa si concentra la sua attività e per quali necessità è nata l’associazione?

r - L’Associazione Italiana Donne Medico, che di per sé è una società scientifica, è nata più di cento anni fa. In tutta Italia le iscritte sono più di duemila e la nostra presidente nazionale è la dottoressa Vezzani. Ci occupiamo di prevenzione, pediatria, oncologia... ma la “mission” è principalmente quella di informare/formare il personale sanitario e i medici circa la “medicina di genere”. Direi che l’intento in realtà è rivolto a tutta la cittadinanza perché, purtroppo, si sente parlare di questo tema, ma non si sa bene cosa sia.

d - Ottima occasione per spiegarlo.

r - La medicina di genere è nata nel 1991, con la pubblicazione di un editoriale di Bernanrdine Healy, una famosa cardiologa americana, nel quale evidenziava il diverso trattamento medico riservato alle donne con patologie coronariche. In quella sede evidenziò che le donne arrivavano a una diagnosi di patologia coronarica con ritardo, perché non veniva prestata molta attenzione nei loro riguardi.

d - Perché, c’era forse la convinzione diffusa che l’infarto fosse un evento prettamente maschile? O di mezzo c’era una questione “di genere” più complessa?

r - Innanzitutto va detto che sia gli uomini sia le donne possono avere la stessa sintomatologia; ma le donne possono manifestare anche epigastralgia, dolore a livello dorsale, nausea. E così capita che queste vadano in pronto soccorso e vengano curate semplicemente per epigasltralgia, e mandate a casa. Ma poi, ovviamente, in preda a dolori sempre più gravi, quelle donne al pronto soccorso ci ritornano e quindi, finalmente, dal tracciato risultano le alterazioni tipiche dell’infarto. E’ una questione, dunque, di conoscenza. Però va anche detto anche che, fortunatamente, in questi ultimi anni i colleghi si sono dimostrati sempre più bravi nell’individuare le patologie cardiache nelle donne che si presentano in pronto soccorso con sintomi atipici dell’infarto.

d - Immagino che la medicina di genere vada anche oltre le patologie cardiache.

r - E’ associata a tutte le branche della medicina. Ed è importante che nei corsi di laurea e in quelli delle varie professioni sanitarie, i docenti parlino anche di medicina di genere. Personalmente lo faccio, nei corsi di laurea triennali che tengo alla Cattolica.

d - La vostra associazione collabora anche con le altre realtà locali riferibili al mondo femminile, rivestendosi anche di un ruolo sociale.

r - Ci occupiamo anche di violenza: le donne che l’hanno subita spesso manifestano patologie che non sono conosciute o che perdurano per lungo tempo, richiedendo un approccio multidisciplinare.

d - Parliamo di patologie principalmente a livello psicologico o...

r -...no, anche ginecologico: varie problematiche derivanti dalle violenze subite.

d - Si ritiene falsamente che la nostra città sia un’isola felice, e di conseguenza spesso si è portati a pensare che da noi certe cose non accadano, se non in maniera residuale rispetto ad altrove. Invece il problema c’è.

r - Sì. Di recente abbiamo collaborato con la dottoressa Perretti, con la dottoressa Bonito e abbiamo organizzato diversi webinar e congressi ai quali hanno preso parte e collaborato non solo le nostre socie, ma anche illustri personaggi, persino al di fuori della professione medica (come il professor Giovanni Gasparini al nostro convegno d’esordio o -al regionale del 2021- il nuotatore Domenico Acerenza, il cestista Aristide Landi o la schermitrice Francesca Palumbo). Stiamo lavorando insieme a tutte le altre associazioni per formare e informare cittadinanza e medici circa il problema.

d - A proposito di cittadinanza...avete una sede?

r - (Sorride) Al momento è nel mio studio, per questioni economiche, non avendo un gran numero di iscritti.

d - Ma al Comune l’avete chiesta?

r - No. L’associazione è nata anche per essere un’oasi felice, ove, tutte quante noi, possiamo decidere, scegliere, circa i convegni etc.

d - Insomma, non volete dover dire troppi “grazie” ed essere il più possibile libere.

r - Esatto (sorride).

d - Quindi al sindaco, per esempio, non si sente di chiedere alcunché?

r - No, nulla.

d - Quando ha iniziato lei, è stato difficile per una donna pensare di fare il medico in Basilicata? Qui da noi ci sono eguali opportunità per entrambi i sessi? Adesso abbiamo anche la Facoltà di Medicina...

r - Adesso infatti è un po’ più facile, non a caso il 70% degli studenti di Medicina è composto da donne. Ai miei tempi non era così. Le racconto un solo aneddoto: il mio professore alla scuola di specializzazione non amava molto le donne. E purtroppo, su dieci specializzandi, eravamo in sette. Ma lui, in sala operatoria preferiva lo stesso i colleghi di sesso maschile, per puro pregiudizio, e tenga conto che una delle mie colleghe era un chirurgo eccezionale.

d - Mi auguro che quella collega abbia ugualmente avuto una brillante carriera da chirurgo.

r - No. Purtroppo no.

d - Quindi il “danno” c’è stato.

r - Eh sì.

d - Oggi però -diceva- le cose vanno meglio.

r - Sì. Spero che altre colleghe decidano di iscriversi alla nostra associazione, perché possiamo fare tante cose. Il 29 novembre scorso, grazie all’aiuto di Inner Wheel, dell’Ande e soprattutto di Giovanna D’Amato, abbiamo organizzato un concerto di solidarietà per le ragazze uscite dalla tratta. E’ stato un grande successo, la chiesa di Sant’Anna era piena, davvero. Il tutto rientra in un progetto più ampio: ogni quindici giorni, teniamo un incontro formativo sulle patologie e sulle questioni che loro ritengono più importanti (gravidanza, fisiatria e pilates etc.).

d - Rimaniamo in ambito delle vittime di violenza e dei danni, fisici e psicologici che subiscono. Oggi, soprattutto tra i giovani, a volte si avverte una percezione alterata della sfera sessuale. Al telegiornale sei sente sempre più spesso parlare delle conseguenze di “rapporti malati”. Si sente, pertanto, di lanciare un messaggio anche agli uomini?

r - Secondo me, innanzitutto, è importante l’educazione in famiglia. Un primo passo in avanti, per fare un esempio banale, potrebbe essere un’equa distribuzione, fra maschietti e femminucce, dei “lavoretti” in casa. A scuola, invece, si potrebbero organizzare corsi di sessuologia. Dovremmo collaborare tutti insieme affinché questi giovani vengano educati onde porre fine a queste violenze.

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di Antonella Sabia

 

 

 

 

La Chiesa è di recente costruzione, inaugurata nel 2019, sin da subito è diventata luogo di grande accoglienza grazie “alla Provvidenza e alle donazioni che cittadini e artisti locali hanno fatto alla parrocchia”. A dircelo, mentre ci guida tra le stanze che compongono la Parrocchia di Santa Chiara a Macchia Giocoli, è il parroco Don Giuseppe Ferraiuolo.

d - La parrocchia ingloba altri rioni/contrade?

r - Il territorio parrocchiale di Santa Chiara comprende Macchia Giocoli, il suo nucleo originario e la sua successiva espansione, per intenderci cito piazza Albino Pierro, poi ancora parte di via dei Molinari, c.da Dragonara, c.da Giarrossa e altre piccole frazioni.

d - Quando i suoi primi passi nel mondo della Fede?

r - Sicuramente in famiglia e nel percorso dell’iniziazione cristiana ho mosso i miei primi passi nella fede, ma se volessi essere più preciso, richiamandomi alla sapienza della Chiesa orientale parlerei di tre nascite, ovvero la nascita naturale alla vita, quando, collaborando con Dio, i miei genitori mi hanno generato, la rinascita nel battesimo, che mi ha reso figlio di Dio per grazia e infine la terza rinascita nella conversione, quando dopo i 25 anni, arricchendo il modo di vita corporale e psichico con quello spirituale, ho cominciato ad aprirmi a un esercizio sempre più maturo della libertà, muovendo così i miei primi veri passi nella fede.

d - Cosa significa essere parroci e guidare una comunità? Nel caso specifico, Santa Chiara è una parrocchia “giovane”.

r - L’immagine biblica che credo dica meglio il ministero del Parroco è quella del buon pastore, ma se volessi tradurre questa immagine in una più prossima alla nostra cultura contemporanea utilizzerei la figura genitoriale del padre. Un padre dovrebbe avere un’umanità sempre più matura, pronta all’ascolto, che tanto dice della nostra capacità di accogliere, che sia capace di prossimità e di relazioni personali umane ed empatico-affettive, che sappia provare tenerezza e compassione per servire la comunità dei fratelli che gli è stata affidata. Un uomo che ha faticato e continua a faticare per conquistare una libertà sempre più vera, che gli permetta di accompagnare nella comunione, con un discernimento spirituale-ecclesiale, le persone che gli sono state affidate, riconoscendo, ordinando e valorizzando i loro doni carismatici, accogliendo con umiltà e amore la croce e accettando senza scoraggiamenti le sfide e le cadute, in un percorso che sappia e che abbia come traguardo sempre più perfettibile, l’adultità, intesa come dono maturo di sé.

d - Si parla spesso di giovani che non frequentano le celebrazioni e attività della chiesa, è riuscito a coinvolgerne alcuni? Quali sono le attività che svolgete?

r - La nostra comunità è rappresentata in modo particolare da giovani famiglie ed è anche frequentata da giovani. Sono molte le attività, di ascolto e accoglienza, di annuncio e catechesi, ancora attività liturgico-sacramentali, caritative, di promozione culturale, corsi per apprendere attività manuali, momenti ludici, di festa e convivialità. C’è una buona partecipazione alle attività.

d - Avete anche un sito web costantemente aggiornato, è un modo per attrarre questi ragazzi e renderli partecipi?

r - In un mondo che cambia non può non cambiare continuamente anche la comunicazione, il veicolo cioè attraverso cui i contenuti vengono diffusi adeguandosi alle nuove sensibilità dei tempi. Abbiamo un sito internet e diversi canali telematici di comunicazione come whatsapp e facebook. Se ne occupano gli operatori pastorali in un continuo confronto sinodale con il Parroco e gli Organismi di partecipazione parrocchiale.

d - C’è qualcosa che lamentano in particolare i cittadini?

r - Maggiore attenzione alle problematiche correlate ai bisogni e diritti delle persone, con particolare riferimento al diritto di libertà sostanziale, garantito dalla Costituzione e su cui non si farà mai abbastanza, non solo per negligenza, ma soprattutto per l’aumentare delle fragilità e le caratterizzazioni di emergenza e urgenza con cui si presentano, e a quelli della famiglia, del lavoro e della salute. Dispiace poi che i nostri giovani per cui tanto investiamo fuori della nostra regione per la formazione, non sentendosi attenzionati con politiche adeguate di promozione e occupazione, decidano poi di occuparsi e vivere altrove, con un duplice impoverimento per i nostri territori in termini umani e di risorse.

d - Esiste un comitato di quartiere?

r - Esiste un comitato di quartiere ed esistono associazioni nel quartiere che comprendono parti del territorio, come l’associazione Piazza Albino Pierro, Albero della vita Onlus, Cucciolo home e Associazione Free Smiling Angels con le quali siamo in dialogo con il desiderio di costruire un cammino sempre più sinodale.

d - Servizio CARITAS: funziona? Quante famiglie assistete? Locali o stranieri?

r - Abbiamo costituito in Parrocchia servizi di accoglienza, cura e accompagnamento delle fragilità. Accanto alla Caritas che accompagna 39 persone, c’è la Boutique solidale Santa Chiara che estende il suo servizio al territorio della Diocesi e che sta provando, con buoni risultati, a dare dignità alla povertà, offrendo ai fratelli bisognosi abiti nuovi e non usati, collocati in spazi adeguati forniti di spogliatoi, in cui i fratelli e le sorelle vengono accolti e accompagnati con umanità e tenerezza. Frequentano questi servizi anche famiglie straniere che provengono dalla Romania, dall’Ucraina e dal Marocco. Infine, abbiamo costituito un gruppo di giovani e adulti che prestano servizio agli anziani e agli ammalati presenti sul nostro territorio, anche in case di riposo, visitandoli, intrattenendosi con loro e rispondendo ad alcune loro esigenze.

d - Nei prossimi mesi i potentini saranno chiamati a scegliere il loro primo cittadino. Se lei fosse sindaco…?

r - Rispondo in modo diverso all’ultima domanda considerando che indirettamente abbiamo già risposto. Noi sacerdoti non possiamo candidarci come sindaci, né possiamo fare propaganda politica, però rispetto a ciò che mi è possibile dire e fare, mi piacerebbe, a prescindere dal colore politico dei prossimi candidati a questo ufficio, che il futuro sindaco avesse e facesse proprie, coltivandole, alcune caratterizzazioni: una persona umana accogliente, capace di ascoltare il grido della città in tutte le sue componenti ed espressioni, e questo sempre, sia quando è facile perché secondo il proprio personale gusto e interesse, sia quando è meno facile. Una persona che sappia anteporre il bene comune delle parti all’interesse soggettivo di parte. Un uomo appassionato di umanità e di servizio, capace di dare speranza e che sia lungimirante, ovvero che non sappia solo amministrare l’oggi, ma custodirlo e accrescerlo per consegnarlo alle generazioni future. Vi saluto augurandoci di continuare a camminare e sognare insieme. Tre parole queste, comunione, cammino e speranza, inscindibili, perché nessuno accetta la fatica di un cammino se non è mosso dal desiderio e dalla speranza, dal sogno, e nello stesso tempo perché nessun sogno potrà mai realizzarsi se non accettiamo l’impegno e la fatica di camminare e camminare insieme.

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di Walter De Stradis

 

 

 

Il loro simbolo è il “taste vin”, ovvero quello piccola ciotola, in argento o metallo argentato, che portano al collo. Serve ad assaggiare, ma i sommelier oggigiorno sono anche e soprattutto degli “story-teller”, a cui spetta il compito di raccontare un intero territorio, attraverso il suo vino.

Dal 2018, Presidente regionale dell’Associazione Italiana Sommelier (la cui prima incarnazione lucana risale agli anni Settanta del Ventesimo Secolo) è Eugenio Tropeano.

d - Presidente, chiariamo innanzitutto cos’è, più precisamente, un sommelier, che nell’immaginario comune è quel tizio elegante che assaggia e poi ti serve il vino a tavola.

r - Sì, è importante chiarire perché la figura del sommelier si è modificata negli anni. In effetti è comunemente vista come colui che, in un ristorante, assaggia e consiglia il vino, roteando il bicchiere etc.. Tuttavia, oggi il sommelier è più che altro un esperto di vino, dotato delle competenze per comunicare, per raccontare il territorio attraverso un bicchiere, ovvero le storie di vigne, di produttori, di tradizioni. Insomma, è un po’ un ambasciatore. Un comunicatore.

d - La vostra associazione di quanti sommelier consta in Italia? E in Basilicata?

r - Nata nel 1965, è la più antica del Paese. A livello nazionale abbiamo circa 50mila soci, in Basilicata oscillano tra i trecento e i quattrocento. La nostra è un’attività di formazione molto importante: negli ultimi dodici anni sono passati per i nostri corsi mille, millecinquecento persone.

d - Si tratta di corsi per ottenere il “patentino” di sommelier...che possono poi tradursi anche in sbocchi lavorativi?

r - Questo è un aspetto importante. Tanti si avvicinano ai corsi per pura curiosità o passione per il mondo del vino, ma moltissimi giovani la vedono come un’occasione lavorativa, perché il “food & beverage” come settore sta crescendo. Ma non stiamo parlando solo di personale di sala, bensì anche di influencer, di blogger: aver fatto un corso da sommelier ti dà le competenze per parlare e scrivere di vino in maniera più professionale. Alcuni la chiamano addirittura “liturgia”, ma un sommelier deve saper descrivere un vino anche con una certa eleganza, un certo savoir-faire. Occorre quindi conoscere perfettamente i territori, i vitigni, i vini. Sarebbe troppo facile dire soltanto: “Questo vino è buono”.

d - Mi tolga una curiosità da profano: cosa diavolo vuol dire “gusto fruttato”?

r - (sorride) E’ una delle sensazioni che il vino dà, dal punto di vista olfattivo/gustativo. C’è anche il “floreale”, l’ “erbaceo”, tutta una serie di profumi,

d - Ma come fa un vino a sapere di fragola?

r - Non c’è la fragola. Il punto è che, nel processo di fermentazione in cantina, si sviluppano una serie di profumi che possono ricordare la frutta rossa, i fiori, i vegetali etc.

d - A tavola lei ci ha portato la “Guida Vini 2024”, realizzata dall’Associazione, con un capitolo, ovviamente, dedicato alle DOC nella nostra regione.

r - Abbiamo recensito trentasei cantine lucane (che in totale sono molte di più, ma abbiamo valutato quelle che ci hanno inviato campioni o si sono prestate alla nostra analisi). Invece di attribuire “stellette”, ci sono le “viti”, in un massimo di quattro. I vini che ci arrivano vengono degustati, anonimamente, a scatola chiusa, da un panel di esperti che poi attribuiscono un punteggio attraverso una nostra scheda di valutazione. Se si ottengono più di 91 punti, viene attribuita l’eccellenza (le quattro viti). In questa edizione, su oltre centocinquanta vini assaggiati e su trentasei cantine, abbiamo a queste ultime assegnate in tutto tredici eccellenze.

d - Non c’è solo l’Aglianico...

r - No, non solo, anche se fa un po’ la parte del leone, avendo il maggior numero di cantine. Grandi passi in avanti li ha fatti la DOC di Matera, che vanta ben due eccellenze, col vitigno simbolo che è il Primitivo.

d - Nella mappa della Basilicata pubblicata sul vostro libro, vedo che c’è un’area viola, a Nord, riferita all’Aglianico del Vulture; una orientale, verde, che fa capo a tutta la provincia materana; più in basso e più al centro c’è quella azzurra del Grottino di Roccanova; e infine, più verso Ovest, c’è una piccola area verdina, che indica le Terre della Val D’Agri. Tutto il resto, la grossa parte occidentale, è tutta in grigio. Perché?

r - Quella è un’area dove il vino si fa, ma non è classificato DOC, bensì IGP, che è comunque una classificazione europea, più a maglie larghe, che identifica tutte le uve che seguono quel disciplinare

d - Ma che momento vive il vino lucano, anche e soprattutto dal punto di vista del mercato?

r - Se dobbiamo parlare di qualità, essendo giunti alla decima edizione di questa Guida e avendo assaggiato tanti vini, posso testimoniarne un costante innalzamento. Ormai i nostri produttori fanno vini di altissimo livello, che non hanno nulla da invidiare alle etichette più blasonate delle altre regioni. Il vero problema è la conoscenza, farli conoscere. D’altro canto, il periodo che sta vivendo la viticoltura, come l’agricoltura in generale, non è facilissimo. Usciamo da un’annata molto complicata, con gli attacchi della peronospera e della siccità, che certamente hanno avuto impatti anche economici sulle aziende; senza contare la difficoltà nel reperimento della manodopera, i costi legati a pandemia e guerra (il vetro). Tuttavia, il vino ha in sé un carattere di resilienza molto forte e nel panorama agroalimentare lucano è comunque un fattore trainante. Essendo un simbolo del territorio, si tira dietro anche altre produzioni, quelle olivicole, i salumi, i formaggi. E ha anche un valore molto attrattivo, anche più alto rispetto ad altre produzioni nostrane.

d - Può diventare quindi anche un attrattore turistico reale?

r - Certo, ed è un discorso che si innesta anche molto bene con la figura del sommelier, così come l’abbiamo descritta poc’anzi. In quanto comunicatore, infatti, si sta sempre più proponendo come figura intermedia tra le aziende e colui che può accompagnare i cosiddetti “eno-turisti”. E’ un settore del turismo, questo, che in Italia movimenta molti milioni di euro, che va alla ricerca di cantine, vine e cibi: per intenderci, in Francia, l’accoglienza dei turisti rappresenta circa la metà del fatturato delle aziende vitivinicole, più ancora della vendita del prodotto stesso. L’Italia si sta aprendo a questo, e la Basilicata, che già gode di un’immagine di regione dove si mangia bene, dove c’è poco inquinamento etc., ha grandi possibilità. Il sommelier è la figura ideale per raccontare e accompagnare queste cose.

d - Lei ha detto che il vino va raccontato, ma cosa ci racconta, il vino lucano, del nostro territorio e del suo popolo?

r - Si tratta di tradizioni antichissime, avendo il vino accompagnato l’uomo in tutta la sua civiltà, da duemila anni prima di Cristo: gli Enotri, la Magna Grecia, i Fenici, gli Etruschi. Se ci concentriamo sull’Aglianico, che è un po’ il nostro vino-simbolo, ci rendiamo conto che racconta anche un po’ la storia del Lucano, perché coltivare questo vino è molto, molto difficile. I produttori di Aglianico si possono definire eroici, perché quello è un vitigno molto tardivo, che matura molto tardi, a fine ottobre e novembre, tra l’altro in collina e in zone non meccanizzabili; il che comporta andare a vendemmiare con condizioni climatiche avverse, anche col rischio che non vada bene. Rispecchia quindi il carattere del lucano, tenace e con duro lavoro.

d - In conclusione, quale vino lucano consiglierebbe al nostro Presidente del Consiglio e perché?

r - Mi faccia fare una battuta. Si dice che i Presidenti del Consiglio, dal punto di vista della durata, abbiano vita politica breve. Quindi consiglierei l’Aglianico, la cui caratteristica è proprio la longevità, dura tantissimo. Lo consiglierei dunque per ragioni scaramantiche.

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di Walter De Stradis

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agazzini Sociali - Solidarietà Circolare” prende avvio ufficialmente il 20 Ottobre 2020 in seguito all’approvazione, da parte della Regione Basilicata, della progettualità omonima. Dal giorno di avvio ufficiale e sino al 31.07.2023, le attività progettuali hanno consentito il recupero e la successiva distribuzione di 68.338 kg di cibo in eccedenza, pari a 395.663 porzioni recuperate».

E’ quanto si legge nel report ufficiale, del 2023, di Magazzini Sociali, particolare progetto di contrasto alla povertà, nato e cresciuto (molto) all’interno di “Io Potentino”, Onlus il cui presidente è Francesco Romagnano.

d - Presidente, “Io Potentino”, mi pare di capire, è nata prima come associazione dedita alla preservazione delle tradizioni, culturali e religiose, del Capoluogo, e in un secondo momento si è evoluta in una Onlus che si occupa principalmente di povertà.

r - Sì, l’associazione nacque ufficialmente nel 2010 (dopo alcuni anni come realtà interna a un organismo di carattere parrocchiale), come associazione culturale che si occupava (e in minima parte lo fa ancora oggi) di fare aggregazione nel corso dei festeggiamenti del Santo Patrono. A un certo punto, però ci rendemmo conto che, rispetto all’organizzare eventi, supportare gli enti caritatevoli già esistenti o stimolare la comunità alla partecipazione alla donazione, poteva dare risultati molto più concreti. Da lì è nata l’idea di un progetto, dedicato ed esclusivo, per la nostra associazione, che è quello dei “Magazzini Sociali”.

d - C’è stato un particolare episodio che vi ha fatto scattare quella molla?

r - Facemmo una prima raccolta fondi attraverso una maglietta, caratterizzata da un messaggio di appartenenza (veniva distribuita nel periodo di San Gerardo), e il tutto era legato all’acquisto -tramite ogni singolo capo venduto- di un tot di cibo. L’iniziativa ebbe grande successo e ci rendemmo conto che, mettendo “a sistema” un’idea del genere, si potevano ottenere risultati notevoli. Ci siamo dunque auto-formati e auto-dotati di un applicativo per avere informazioni puntuali sul cibo donato, e questo ha contribuito a creare un clima positivo, unito a una sempre crescente attenzione sul tema.

d - Dare del cibo è l’intervento più diretto che esiste, se si vuole aiutare una persona in difficoltà.

r - Siamo nati in un momento storico, quello dell’Expo, in cui c’era anche molta attenzione allo spreco alimentare. Pertanto siamo partiti subito da quello, lavorando su due fronti: con le collette alimentari “classiche” (davanti ai supermercati, durante gli eventi, raccolta di cibo a lunga conversazione, donandola a una platea condivisa con Caritas) e parallelamente con il progetto, mai affrontato sino a quel momento in Basilicata, della raccolta delle eccedenze alimentari (tutto ciò che, derivando dalla produzione agricola, dai forni, dalla distruzione nei supermercati, dalla ristorazione organizzata, è vicino alla scadenza e non viene somministrato).

d - In pratica cosa accade?

r - Esiste una platea di trentacinque/quaranta volontari (e anche di persone, un’altra decina, che affrontano percorsi d’inclusione col Comune, il servizio civile etc.), che -quotidianamente- si recano presso i donatori con cui abbiamo stipolato accordi, che ci donano tutto il cibo in prossimità di scadenza. Se necessario, questo cibo viene poi porzionato nel nostro hub (la ex mensa universitaria in via Racioppi - ndr), ma vi è anche una fase di completa ri-tracciatura del prodotto, che viene di nuovo etichettato (per una questione di tracciabilità), e poi infine consegnato ai nostri partner, i cosiddetti “distributori di secondo livello” (una rete composta da oltre trenta realtà, fra parrocchie, cittadine e non, amministrazioni comunali etc.) che, a rotazione, ricevono questi prodotti. Non abbiamo dunque rapporti diretti con le famiglie.

d - Il cittadino bisognoso non viene quindi direttamente da voi?

r - No, anche se è chiaro che facciamo un primo ascolto, quando ci viene chiesto un primo aiuto; cosa che forniamo, indirizzando poi però la persona agli enti che se ne occupano. Oltre alle eccedenze alimentari, che noi raccogliamo e distribuiamo, ci sono infatti gli enti caritatevoli “classici” che raccolgono e distribuiscono gli aiuti FEAD (prodotti acquistati coi fondi nazionali ed europei).

d - Si è parlato molto di povertà in aumento nel Capoluogo, ma anche di povertà “cambiata”, aggravata da situazioni di abbandono e di indigenza anche “sociale”.

r - Sono tantissimi anni che la povertà ha una costante di crescita progressiva. Nell’arco degli anni il contesto di riferimento è cambiato, specie nella post-Pandemia, quando anche persone in possesso di un reddito, a differenza di quanto accadeva prima, per la prima volta hanno necessitato di aiuti alimentari. Così come ci sono persone che hanno patologie, o sono affette da ludopatia, e che pur potendo contare su redditi corposi, non possono garantirsi il sostentamento.

d - Dietro la povertà, insomma, spesso c’è tutta un’altra serie di problemi.

r - Sì. Prima della Pandemia la situazione era più “strutturata”, mentre adesso è più “dinamica”: ci sono persone che hanno difficoltà momentanee, legate all’emergenza, al caro-bollette. Però il numero generale è sempre in costante aumento.

d - E questa situazione cosa ci dice delle dinamiche della nostra città?

r - Rispetto a un quadro nazionale, non ci sono sostanziali differenze, a parte un grande problema, che abbiamo più volte evidenziato, ma che è rimasto tale: una rilevazione del bisogno che non è condiviso tra i vari soggetti. Mi spiego: “Magazzini Sociali” parla molto bene con Caritas e col Comune di Potenza, e riesce ad analizzare un fenomeno. Tuttavia molto spesso, all’interno della città, si avviano iniziative di solidarietà che non fanno confluire le loro informazioni in un unico calderone.

d - Cioè ogni realtà ha i propri, di numeri?

r - E quindi non riusciamo a dare un quadro esaustivo. Se uno dice che ha mille famiglie, non sappiamo se sono le stesse riferibili ad altre organizzazioni.

d - Perchè accade questo?

r - Non ce lo riusciamo a spiegare.

d - Non ci sarà anche una certa voglia di “protagonismo”?

r - E’ chiaro che questa può essere la peggiore delle ipotesi. Quella alla quale voglio pensare io è una certa reticenza, un po’ di pudore, a diffondere i dati su una determinata platea; ma bisogna comunque capire che di fronte alle risorse a cui si va ad attingere (il cittadino-donatore che fa la spesa per conto terzi o i fondi statali), è meglio andarci con un dato che sia univoco.

d - Il messaggio dunque è...?

r - Quello di fare rete e di essere particolarmente trasparenti da questo punto di vista. Ovviamente occorre anche formare il personale all’interno di tutte queste organizzazioni che gestiscono la privacy dei soggetti bisognosi. Nella nostra organizzazione c’è una professionalità specifica che si occupa, solo ed esclusivamente, di quello. Io stesso non sono a conoscenza dei nomi dei beneficiari (anche se è ovvio che, affiliandoci a una parrocchia, sappiamo di avere una platea, anche per avere certezza che alcuni soggetti non facciano riferimento contemporaneamente anche a un’altra parrocchia).

d - Che tipo di sostegno pubblico ricevete?

r - Abbiamo contribuito a far scrivere e finanziare una legge regionale: come accennavo, nel nostro territorio era assente un sistema organizzato di raccolta delle eccedenze alimentari. Abbiamo fatto dunque un progetto che ci vede in rete con ventisei partner (Comune di Potenza, Caritas, Università etc.), e, a fronte di un investimento di circa 200mila euro, noi ne abbiamo misurati già oltre 650mila, in controvalore, di cibo recuperato e donato ai bisognosi. Abbiamo dimostrato, e questo era il nostro intento, che in questo settore c’è molto da investire, perché si ottengono risorse. In alternativa, infatti, quei 650mila euro di cibo, qualcuno avrebbe dovuto comprarli. 

d - Qual è, secondo lei, un aspetto della povertà lucana che non si è ancora capito?

r - Il tasso di assistenzialismo. Qui da noi, è ancora forte. Da un lato bisogna dunque lavorare sicuramente sugli strumenti di supporto al reddito, di supporto alimentare, ma dall’altro bisogna separare l’aspetto clientelare dell’aiuto alla povertà, dall’effettiva necessità dell’intervento. Pensiamo alla questione Bucaletto: c’è chi, di fatto, fa il povero di professione.

d - Quindi i falsi poveri esistono.

r - I falsi poveri non lo so, ma magari c’è chi si sa barcamenare bene tra tutti i “benefit” che ci sono in città, giocando proprio sul fatto che non tutti gli enti riescono a comunicare bene tra di loro.

d - Il “furbetto” dell’assistenza c’è, diciamo, allora.

r - Sicuramente sì, e questo si supera soltanto con un sistema di controllo molto forte.

d - Le è mai capitato di incontrane qualcuno?

r - Mi è stato raccontato e Potenza è piccola e certe cose si vengono a sapere. Chi attua queste cose non si preoccupa molto delle conseguenze, e anche durante alla Pandemia certe cose si sono viste.

d - C’è una cosa che avreste voluto, ma non siete riusciti a fare?

r - Al momento, mettere a regime questo progetto dal punto di vista infrastrutturale. Si potrebbero utilizzare meglio i contenitori pubblici, in questo caso la nostra mensa (collocata ancora nell’asset dell’Università e che necessita di importanti finanziamenti per la ristrutturazione etc.). Occorre quindi una maggiore e condivisa ottimizzazione degli spazi pubblici e un maggiore protagonismo degli enti preposti.

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