GiuseppePierluigi

Un’esperienza di volontariato è sicuramente un occasione di crescita personale.

Svolgerla in un paese povero, con bambini e ragazzi a cui viene negato anche un bicchiere d’acqua, fortifica e ti apre gli occhi, su quanto siamo fortunati, noi, a poter frequentare Scuole e Università, avere famiglie che ci supportano (e sopportano!), ma anche permetterci cose superflue. È proprio questo che ci hanno raccontato Giuseppe Berillo e Pierluigi Santoro, due giovani potentini, dopo le tre settimane trascorse ad Haiti, con il progetto di volontariato sportivo del CSI PER IL MONDO. È il racconto di uno spaccato di vita, che vuole essere di sprono per tutti i ragazzi, a provare un’esperienza del genere, per se stessi ma soprattutto per aiutare gli altri. Che sono ragazzi con un grande cuore, lo si capisce dallo voglia di raccontarci la loro esperienza, e coinvolgere quanti più ragazzi possibile, invogliandoli a partire.
Era un mio sogno partire per fare volontariato”, dice Pierluigi. “In questi anni non sono mai riuscito a trovare nessuno che mi volesse accompagnare, io ho bisogno di farmi trascinare da qualcuno, sono fatto così”. Mentre Giuseppe, che è anche uno dei consiglieri del CSI di Potenza, ci ha detto che da anni era in contatto con diverse associazioni di volontariato: “Per soldi e tempo, non sono mai riuscito a partire prima. Un’esperienza del genere costa un po’, non solo per il viaggio in sé, prima c’è tutta una parte relativa alla formazione per il quale stato necessario salire più volte a Milano”.


In che cosa consiste la formazione?
Ci spiegano come fare gruppo, che giochi fare, ma non si tratta di una selezione perché tutti quelli che fanno il corso poi partono. Nessuno pretende che tu sia allenatore o professionista. E non pretendono neanche che tu faccia già parte del CSI. È un’associazione di volontariato aperta a tutti. Nei primi incontri ci hanno spiegato anche cosa accade nei vari paesi di destinazione. Haiti è la missione principale del progetto. Tutto è cominciato dopo il terremoto, è sicuramente una tappa impegnativa, ci sono tantissimi bambini da seguire, alcuni giorni erano oltre 300.


Alla partenza, qual è stato il vostro pensiero?
Siamo stati felici di partire insieme, ci accomuna anche l’amicizia per un ragazzo africano che vive a Potenza dall’età di sette anni, che abbiamo sempre trattato come un fratello. La frase più ricorrente era «Ti rendi conto dove siamo? ». Il mondo in aereo sembra molto piccolo , non ti accorgi quanti km fai.
Giuseppe: Ogni volta che pensavo di essere dall’altra parte dell’oceano mi emozionavo e non riuscivo a capire se fosse vero. Ero carico, tanta adrenalina e non vedevo l’ora di fare questa esperienza, solo sensazioni positive.
Pierluigi: Mentre ci recavamo a Milano ancora non realizzavo, tutto mi sembrava normale, anche dormire in aeroporto. È stato durante il viaggio da New York ad Haiti che ho iniziato a capire le differenze, a partire dai vestiti, fino all’arrivo quando ci hanno accolti con musica e balli. Ci hanno fatto di entrare in un camioncino vecchissimo stile anni ‘80, eravamo 14 ragazzi +20 borse e abbiamo capito che già quello era un lusso.


Cosa avete potuto portare con voi?
Un bagaglio a mano di massimo 7 kg a testa con i vestiti, praticamente due maglie, due pantaloni e l’intimo, a Milano ci hanno caricato di materiale sportivo che poi abbiamo lasciato lì. Al ritorno eravamo più leggeri, abbiamo lasciato tutto lì anche i nostri vestiti, ogni cosa che lasci può essere utile, anche un paio di infradito.


Come eravate sistemati ad Haiti?
In un villaggio, un insieme di case all’interno di alcune mura con dei cancelli in cui potevano passare solo le persone autorizzate. Parlavamo francese, qualche ragazzo più grande conosceva un minimo di inglese, e alcuni considerando che era la settima missione italiana, avevano imparato qualcosa in italiano. Quando hai a che fare con lo sport servono pochissime parole, con i gesti si può far capire tanto.


Che percezione avete avuto dei bambini haitiani?
I bambini hanno molto bisogno di una guida educativa, lì purtroppo si vive senza regole, per loro anche fare una linea è un miracolo. Hanno bisogno soprattutto di affetto, hanno le famiglie ma è un concetto di famiglia diverso rispetto al nostro. Vengono lasciati più liberi, a 4-5 anni sono molto più grandi e maturi; non hanno nulla e devono trovare qualcosa per sopravvivere. Limitare ad un bambino il cibo o sapere di averlo una volta al giorno, quando qui si piange perché si cerca la decima caramella o la terza brioche, ti fa capire che quei bambini crescono in un altro modo, come se fossero già adulti. Di certo i genitori non si mettono a cullarli, hanno altre preoccupazioni. Quello che manca poi, sono le scuole perché penso che la scuola sia formativa, nei paesi occidentali oltretutto è anche obbligatoria.


Come si svolgeva la giornata tipo?
Giuseppe: Facevamo attività dal lunedì al venerdì, il sabato la domenica eravamo più liberi. La cosa bella è che ogni mattina si cantava l’inno haitiano e l’inno italiano. Subito dopo la preghiera, si facevano i balli di gruppo e c’era un casino allucinante. Personalmente non ho mai cantato l’inno di Mameli così tante volte in 23 anni.
Pierluigi: Mi manca svegliarmi così. Si sentiva il senso di unione e soprattutto si avvertiva il grande senso patriottico. L’ultimo giorno quando abbiamo fatto la festa i bambini avevano imparato a memoria l’inno di Mameli ed è stata un’emozione unica. Questi bambini ci ammiravano, ci prendevano come un modello di riferimento. Noi qui, nel mio caso per esempio Michael Jordan, ci ispiriamo a personaggi di cui abbiamo visto video, letto libri, mentre loro non guardano tv, non sentono radio e non leggono giornali, per cui eravamo noi il loro modello di riferimento, e per noi insegnargli anche le cose più banali, come raccogliere un fazzoletto da terra, era importante.


Nella vostra valigia del ritorno non c’erano più i vestiti, cosa avete portato a Potenza?
Giuseppe: Fisicamente sono a Potenza, ma il mio cuore è lì, già so che prima o poi tornerò. Haiti mi lascia molta speranza, anche quella dei miei compagni, sapere che ci sono tante persone che ancora ci credono che il mondo possa migliorare.
Pierluigi: Anche io con il corpo sono a Potenza, mentre la mia mente spesso ripensa a quello che ho vissuto. Io oggi sto cercando di fare le cose in maniera più semplice. Nella mia valigia del ritorno ho messo l’intenzione di vivere con l’essenziale, senza la necessità di esagerare. Ad Haiti mi hanno insegnato anche pur non avendo nulla, molto spesso erano loro ad offrire le cose a noi, che fosse una coca-cola o una birra. Siamo sopravvissuti anche con poca corrente, la mattina invece che accendere la luce ci alzavamo ad alzare la tapparella. E poi l’acqua, a volte finiva, la si usava solo per necessità mentre qui lucidiamo i piatti o ci facciamo docce lunghissime. Tutto questo ci ha fatto capire che possiamo ridimensionare qualsiasi cosa, ci vuole poco per cambiare gli atteggiamenti.


Perché un ragazzo dovrebbe provare un’esperienza di volontariato del genere?
Pierluigi: Nessuno deve partire se non sente di farlo, se non sente la necessità di volersi mettere a disposizione di qualcun altro. Io avevo questo sogno da sempre, anche a Potenza mi sono sempre dedicato al volontariato, ma la povertà qui da noi è diversa da quella di Haiti. Il 64% della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. Sicuramente è un po’ costoso, ma mi piacerebbe molto tornare. Se non riuscissi, mi piacerebbe che un’altra persona di Potenza potesse farlo, dopo aver sentito la mia storia, magari con qualche mio consiglio. È difficile raccontare quello che ho visto ad Haiti, ma è ancora più difficile spiegare quello che provavo.
Giuseppe: Noi siamo stati anche fortunati a poterci permettere un viaggio così, questa cosa sinceramente mi fa arrabbiare perché il volontariato dovrebbe essere accessibile a tutti. Chi ha fede, dovrebbe partire, solo per vedere in che condizioni si vive in alcune parti del mondo, bisogna vederla la povertà e poi ringraziare ogni giorno per quello che abbiamo. Devi partire perché credi che veramente il mondo possa cambiare. In 14 non possono farlo, ma tornare e raccontarlo ad altri, è già una sorta di cambiamento. Vorremmo essere un esempio per altri ragazzi.


Le vostre famiglie come hanno preso la partenza?
Giuseppe: Mio padre mi ha detto «Sei sicuro? Dove te ne vai?». E poi le mamme, sono sempre ansiose e preoccupata anche se sei a Metaponto, figurati dall’altro lato del mondo. Era una cosa che sentivo dentro, la doveva fare, e gli ho detto solamente «Fidatevi di vostro figlio».
Pierluigi: Mio fratello mi ha supportato da subito. I miei genitori si sono posti mille interrogativi, ma poi se pur preoccupati, hanno capito che ero convinto di quello che facevo. In futuro se avrò un fi glio lo spingerei a partire come fosse una tappo obbligatoria della vita. E poi quando sono tornato ho visto mio padre commuoversi per me, come pochissime altre volte nella vita, mia madre mi avrà detto «Bentornato» forse 10 volte.


Cosa è per te Haiti oggi?
Pierluigi: “Impossibile da raccontare, difficile da comprendere, unicamente da vivere”. Non è semplice spiegare ai ragazzi di qui cosa significa doversi fare la doccia con l’acqua sporca, non avere soldi per mangiare e che magari quel paio di scarpe in più è superfluo. È anche vero che noi in quel modo non possiamo vivere.
Giuseppe: Tante cose prima potevamo solamente immaginarle, oggi le abbiamo viste con i nostri occhi. Ho provato sensazioni particolari. C’è tanta speranza dietro i sorrisi dei bambini in orfanotrofio: nonostante tutto, ed essendo loro ancora più sfortunati degli altri, stavano sempre a ridere, non si stancavano mai e ti regalavano una forza unica. Durante i momenti di sport, spesso mi fermavo e mi guardavo intorno. Vedevo oltre 300 bambini che correvano tutti dietro un pallone, la sensazione che ho provato era quella di stare in paradiso. Così lo immagino, un caos in cui c’è una fratellanza unica. Bambini che corrono, tante cadute ma poi subito in piedi per continuare a correre e giocare insieme.


Un sogno?
Vorremmo cercare di fare una raccolta di indumenti da poter mandare ai bambini haitiani. Anzi invitiamo chiunque volesse, a contattarci tramite Facebook, Instagram, noi ci stiamo informando su come mandare quanta più roba possibile perché vedere un bambino giocare scalzo o con ciabatte rotte, mentre noi facciamo a gara per comprarci il decimo paio di scarpe è inconcepibile. Abbiamo preso molto a cuore questa situazione.


Dopo questa esperienza, descrivete l’altro.
Pierluigi: Giuseppe è un ragazzo coraggioso, energico e premuroso. Energico perché era sempre il primo, quando c’era da dire o da fare qualcosa. Coraggioso perché ha fatto questa scelta di partire, e mi ha sopportato. Premuroso perché le cose che ho visto fare a te non le ho viste fare nessun altro dei ragazzi lì con noi. È stato fondamentale, c’erano alcuni momenti in cui avevo bisogno di un abbraccio e lui c’era. L’amicizia che c’era prima si è assolutamente rafforzata.
Giuseppe: Dopo questa missione per me è diventato ufficialmente un fratello. Pierluigi è un ragazzo buono d’animo, è disposto a dedicare il suo tempo per gli altri in un modo che va al di là dell’immaginazione.