di Walter De Stradis

 

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Pastore (ancora per qualche tempo) del gregge del suo paese natio, ma anche studioso, saggista, antropologo ed etnomusicologo: nei settantacinque anni splendidamente portati di don Giuseppe Filardi, c’è tutto questo e anche di più. Figura rispettata e conosciuta tanto nell’ambiente ecclesiastico quanto in quello accademico (è autore di diversi, preziosi volumi di carattere storico e religioso), Don Peppino è universalmente conosciuto come colui che –col sostegno delle istituzioni, di giovani appassionati delle tradizioni, nonché di studiosi di livello internazionale- ha consolidato il Maggio accetturese (quello del celeberrimo rito arboreo) come un evento socio-religioso-antropologico di caratura mondiale. Lo abbiamo incontrato nel suo piccolo studio di Accettura (Mt), in cui conserva ancora il mobilio di quando era giovane parroco di Capomaggiore (Pz), comune che recentemente gli ha tributato la cittadinanza onoraria.

D: Come giustifica la sua esistenza?

R: Innanzitutto col mio Credo, quello di un essere umano che è immagine di Dio. E questa mia accettazione di Fede, avvenuta con gioia, è ancora presente, nonostante i cinquant’anni di messa che mi accingo a celebrare. E questa gioia l’ho cercata di trasmettere nell’attività, anch’essa cinquantennale, di parroco.

D: Perché dice “nonostante cinquant’anni di messa”…?

R: (Sorride) Purtroppo è capitato che alcuni miei compagni di studi abbiano poi manifestato difficoltà di fede e soprattutto il venire meno dell’entusiasmo nel fare il prete. Vede, nella società attuale, anche il prete che si impegna al massimo, si rende conto che la sua figura non è più quella di una volta, dal punto di vista sociologico. Non è più una “forza” della comunità, ma il suo ruolo se lo deve conquistare piano piano.

D: Da studioso e storico, ritiene ci sia una figura ecclesiastica lucana più rimarchevole di altre?

R: Beh, fra quelli del passato mi vengono in mente il Vescovo Delle Nocche, Monsignor Bertazzoni (che ho conosciuto da giovane). Per me erano esempi da imitare. Ho trovato una bella figura di vescovo anche in Monsignor Vairo.

D: Venendo dalla città, mi viene da pensare che da quelle parti forse non abbiamo una cognizione realistica di come possa essere vissuta la Pandemia nei piccoli centri come questo, paesi ove anche un solo decesso può rivelarsi una tragedia immane.

R: In proporzione è così. Allo stesso modo, c’è una grande preoccupazione di uscire, di avere rapporti con altri. E questo si è percepito anche nelle nostre chiese, che comuqnue sono ampie: in ogni caso la frequenza è molto limitata. Il timore più grande si riversa sui ragazzi. L’attività liturgica ne ha molto risentito.

D: Qual è l’insegnamento che un cattolico può trarre da tutto questo?

R: Capire che questo può essere un momento di riflessione, mondiale…non siamo soli e quindi dobbiamo “uscire dai confini” e abbracciarci e prendere coscienza di questa realtà e del modo in cui trattiamo la Terra. Se il Covid, come dicono alcuni, è stato frutto di una “scappata” dai laboratori, occorre riflettere anche sulla Scienza, che deve badare al “bene” concreto, cercando di limitare i rischi. Innanzitutto, come dicevo, occorrerà comprendere la limitatezza dell’essere umano, il nostro non essere eterni, perché, guardi, a volte anche nei piccoli paesi ci si crede chissà chi in virtù di piccole comodità che magari si hanno.

D: Se lei potesse prendere il Presidente Bardi sottobraccio, cosa gli direbbe?

R: Bisognerebbe innanzitutto conoscerlo (ride), perché i mezzi di comunicazione possono anche essere fuorvianti. Beh, gli direi –così come a livello nazionale- di aprire tutti i cantieri, di rimpolpare la pubblica amministrazione (è molto limitata), rinforzare le scuole e gli ospedali (anch’essi molto limitati). Mio fratello mi riferisce che al San Carlo c’è carenza di personale nei vari reparti…

D: Qual è lo scotto, il disservizio più grande che paga Accettura? I collegamenti…

R: Beh, Accettura non paga grandi traumi in questo senso. Il problema è il lavoro, per i giovani, le nuove attività che non ci sono…

D: Siamo alla vigilia della Pasqua, ma di solito in questa fase dell’anno ad Accettura si era anche alla “vigilia” del “Maggio”, un evento importantissimo di caratura internazionale. Quest’anno sarà la seconda volta che salterà. Ma, a quanto mi risulta, vi siete “attrezzati” dal punto di vista digitale.

R: Tutta la comunità ha richiesto che questo “Maggio Assente” si possa tramutare in un momento di riflessione, in un’ottica futura, sulla sua reale portata. Le iniziative sono state poche: nel bosco celebrammo solo la messa del martedì di Pentecoste, così come, quest’anno, il 27 gennaio abbiamo celebrato solo in chiesa. Per quanto riguarda “il rito arboreo”, beh, ho consultato tutti gli archivi comunali e ho notato che persino nel periodo pandemico della “Spagnola”, nonché nei periodi bellici, a partire dal 1776-77 non c’è stato mai l’annullamento totale del “Maggio”. Si desume dagli atti consiliari che disponevano i finanziamenti. Pertanto, affinché questo “annullamento” dei giorni nostri possa rappresentare comunque un’occasione, si è deciso di “rivivere” tutte le ricchezze delle nostra comunità. Da qui nasce l’idea dell’ “Archivio Multimediale di Accettura”, in collegamento con la LEAV di Milano (Laboratorio Etnomusicologico e Antropologico dell’Università di Milano - ndr) . Grazie all’intervento di Nicola Scaldaferri, responsabile di quell’archivio, insieme a due nostri giovani studiosi, Biagio Abbate e Valentina Trivigno, abbiamo deciso di dar vita a questo progetto.

D: Già l’anno scorso c’era stata l’iniziativa del “Maggio del Silenzio”.

R: Andammo nelle case a intervistare le persone di Accettura, chiedendo loro una testimonianza, e il video risultante è disponibile online (all’indirizzo http://leavlab.com/portfolio/accettura-2020-il-maggio-del-silenzio/). Successivamente, tramite Skype, ci siamo messi in contatto con antropologi e studiosi di fuori (Spera, Mirizzi) e le interviste sono state incluse nel progetto. Questo lavoro lo stiamo proseguendo, perché Accettura ha molte altre ricchezze. A cominciare dai canti popolari…

D: E infatti lei stesso, nel 1990, da etnomusicologo, realizzò un documento tuttora unico e preziosissimo, l’audiocassetta “Canti Popolari Accetturesi”.

R: Quei canti non furono affatto elaborati –a eccezione dell’ultimo- e furono cantati da gente del popolo, alla maniera tradizionale, nella sala di registrazione “Little Italy” a Campomaggiore. Si trattava di canti alla zampogna, all’organetto, quelli della pulizia del grano nelle campagne…Più recentemente, nel settembre 2019, Accettura è stata tra i protagonisti di un grande evento sulla musica tradizionale con ben tre gruppi (bassa musica, cantori e suonatori), senza contare che il tutto si è concluso con la piantumazione del nostro “Maggio” in piazza San Pietro Caveoso.

D: E per quest’anno, di nuovo in assenza del “Maggio”, cosa bolle in pentola?

R: Il progetto di recupero di cui abbiamo parlato procederà –oltre che con le interviste- concentrandoci sui canti popolari (con la trascrizione di musica e testi, in italiano e in dialetto); aggiungeremo dei video, quelli storici di Folco Quilici (siamo in attesa dell’autorizzazione), nonché le foto dei dipinti di Gerricchio che abbiamo al Comune. Recupereremo tutto il materiale del concorso poetico “L’albero delle rose” –che abbiamo fatto per cinque anni- e scannerizzeremo le foto più belle del Maggio, nonché tutti i ventinove numeri del periodico locale “Il Paese”. E cercheremo almeno di fare l’”abstract” e l’indice delle tesi di laurea sul Maggio e su Accettura.

D: Metaforicamente parlando, se un “Zizilone” moderno potesse arrampicarsi su un virtuale albero del Maggio, cosa gli augurerebbe di trovare? Lui così come tutti gli accetturesi…

R: Un po’ di fiducia, un po’ di speranza, in se stessi e nel futuro. Vivendo la Pasqua, non possiamo fermarci alla morte, ma dobbiamo vivere la Resurrezione.

D: E che Pasqua sarà quest’anno?

R: C’è il desiderio di identificarsi con Cristo sofferente sulla croce senza perdere di vista il Cristo Risorto.

D: A proposito di “rinascita”… come sa, a Potenza c’è una polemica in atto sull’annunciata riapertura al culto della Trinità. C’è chi ritiene che essendo stata in qualche modo teatro di un delitto efferato –quello di Elisa Claps- la chiesa non andrebbe riaperta, ma magari destinata ad altro (considerate anche le ben note e annose polemiche in città sui presunti silenzi e/o mancanze della Chiesa). Lei cosa ne pensa?

R: Secondo gli antichi canoni, quando in un edificio sacro avveniva un delitto, si faceva passare un po’ di tempo e poi si purificava, si consacrava di nuovo e successivamente lo si riammetteva al culto. Questo è il nostro diritto canonico. A Potenza, beh, c’è stata responsabilità, ma non “della Chiesa”, bensì di uomini di Chiesa. Non bisogna mai confondere le due cose: i papi, i vescovi, i preti possono sbagliare o commettere addirittura gravi delitti, ma questo non annulla la presenza della Chiesa stessa. Per me la Trinità andrebbe riaperta al culto, ma magari creando anche attività e iniziative speciali nella parrocchia…

D: Contro la violenza sulle donne, per esempio…

R: Assolutamente sì. Andrebbe riaperta al culto, ma collegata a questo tipo di iniziative.

D: Chiudiamo. La canzone che la rappresenta?

R: Boh!? Beh, posso dire che quando lavoravo ai miei volumi su Campomaggiore Vecchio, nel mentre trascrivevo gli antichi manoscritti, ascoltavo in sottofondo i canti della tradizione napoletana.

D: Il film?

R: A me piace molto tutto il filone del Neorealismo italiano.

D: Fra cent’anni scoprono una targa a suo nome qui ad Accettura…

R: Non ce n’è bisogno.

D: Ma se lo facessero, cosa le piacerebbe ci fosse scritto?

R: Niente. “Prete”.