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di Walter De Stradis

 

 

Il “gender gap”, divario di genere, in questo Paese non ne vuole sapere di fare passi indietro. E’ quanto si evince a chiare lettere dalla fotografia, ruvida e impietosa, scattata dalla relazione sul Bilancio di genere del ministero dell’Economia, che è stato presentato in audizione alle commissioni congiunte di Camera e Senato qualche giorno fa.

Ne abbiamo discusso con la Consigliera regionale di Parità, avv. Ivana Pipponzi, che da sempre monitora le articolate evoluzioni del discorso.

D: Qual è, e per quali motivi, la situazione che persiste nel nostro Paese?

R: La situazione è semplice: le donne guadagnano in media il 60% rispetto ai colleghi uomini. La motivazione principale è che spesso si accettano retribuzioni più basse, “in cambio” di vantaggi in termini di flessibilità e orari. La cosa drammatica è che una dipendente su quattro è pure sovra-istruita rispetto alla posizione che occupa, e una su tre deve accontentarsi di un part-time, quasi sempre "involontario", per così dire, per poter conciliare carichi di cura e di famiglia con il lavoro. Personalmente ritengo che il part time sia una del cause efficienti del divario di genere (in Europa ne ricorre il 33% della popolazione femminile a fronte del 9% di quella maschile): è evidente che minori ore lavorate equivalgono a una busta paga inferiore, a minori scatti di carriera e, certamente, ad una pensione più bassa.

Il dato più allarmante tuttavia è che solo una su due un lavoro ce l’ha.

D: E l’altra metà?

R: Si trova in una situazione che rischia di ampliarsi a causa della crisi economica e occupazionale che il nostro Paese sta affrontando in questo momento: si trova in un “limbo”, una terra di nessuno, tra la disoccupazione e l’inattività. In Basilicata, purtroppo, solo il 32% delle donne lavora (nel Sud Italia, il dato medio è pari al 36%).

D: In questi giorni si parla molto anche di “aiuti”. Una mano potrebbe arrivare dal Recovery Fund?

R: In effetti il discorso potrebbe essere aumentare i servizi per l’infanzia a partire dagli asili nido. La percentuale di bambini con meno di tre anni presi in carico da parte di asili nido pubblici raggiunge il 12,5 % nel 2017 e ancora più bassa è quella relativa ai servizi integrativi per la prima infanzia (1%). Ergo, conciliare lavoro e vita familiare sembra un’impresa. Come emerso dal rapporto, l’Italia è il Paese che ha registrato complessivamente i maggiori progressi nel periodo 2005-2017 per contrastare il divario di genere, ma resta ancora fanalino di coda sulla base dell’ “Eu Gender Equality Index”. Secondo i dati raccolti nella Relazione, che utilizza 128 diversi indicatori dei divari di genere nell’economia e nella società, elaborati da istituzioni Italiane (Istat ed Inps, in primo luogo) ed europee, il tasso di occupazione delle donne nel nostro Paese nel 2019 è ancora molto basso (50,1%) e segna un gap di 17, 9 punti percentuali da quello maschile, con divari territoriali molto ampi, con un tasso di occupazione delle donne pari al 60,4% al Nord e al 33,2% nel Mezzogiorno.

D: Qui al Mezzogiorno, pertanto, siamo ancor di più in alto mare?

R: In Italia il tasso di disoccupazione raggiunge livelli più elevati (33%) per le donne più giovani e livelli più bassi per la classe di età 45-54 anni (19,2%), con notevoli divari territoriali e di genere: dal 41,5% per le donne nel Mezzogiorno (contro 28,8% per gli uomini), si passa al 17,6% per le donne al Centro (contro 12,3% per gli uomini) e al 12,7% per le donne al Nord (contro 7,9% per gli uomini). Sul fronte della qualità del lavoro, inoltre, appare in crescita la percentuale di donne che lavorano in part-time (32,9% nel 2019), involontario nel 60,8% dei casi.

D: Diceva anche che una dipendente su quattro è “sovra-istruita” rispetto alla posizione che occupa.

R: In effetti le donne si laureano in percentuale decisamente superiore rispetto agli uomini (con un divario a loro favore di 12,2 punti percentuali) e più di una donna su quattro (26,5%), sì, è sovra-istruita rispetto al proprio impiego. Al contrario, proprio tra le donne è particolarmente alta l’incidenza di lavori dipendenti con bassa paga (11,5%, contro 7,9% per gli uomini). Ciò che noi Consigliere di parità riscontriamo è il fenomeno (accanto al “famoso “tetto di cristallo”), del c.d. laeky pipeline, ovvero della difficoltà di arrivare ai ruoli apicali per la dispersione di capitale umano femminile durante i percorsi di carriera, bloccati proprio dalla corsa/rincorsa alla conciliazione tra lavoro e maternità.

D: Alla base, abbiamo accennato, c’è la diffusa difficoltà di conciliare vita lavorativa e vita professionale.

R: Sì, analizzando nello specifico la partecipazione al mercato del lavoro delle donne nella fascia di età 25-49 anni si rileva un forte gap occupazionale (74,3%) tra le donne con figli in età prescolare e le donne senza figli, uno dei sintomi più evidenti di quanto stiamo dicendo.

D: Ci sono poi i dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro sulle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri…

Ogni anno l’Ispettorato Nazionale del Lavoro redige, assieme alla Consigliera Nazionale di parità, un rapporto sulle convalide delle dimissioni, obbligatorie per le madri ed i padri con figli fino a 3 anni di età. La stessa relazione è stata stilata a livello regionale dall’ITL di Potenza e Matera, in collaborazione con il mio Ufficio. Dai detti rapporti (nazionale e regionale) è emerso che la causa principale che induce la lavoratrice a dimettersi dal lavoro è la difficoltà di conciliare vita/lavoro (ad es. per i costi degli asili nido, ovvero per mancata concessione di flessibilità oraria, etc.). Peraltro, emerge fortissimo il divario di genere: le dimissioni volontarie coinvolgono le madri nel 73% dei casi. Stiamo parlando in maggioranza di donne giovani, con poca anzianità di lavoro, occupate prevalentemente nel terziario, con qualifiche basse. La motivazione più ricorrente (almeno un terzo dei casi) riguarda ancora l’assenza di reti familiari di supporto, che rende assai difficoltoso conciliare l’occupazione con il lavoro di cura.

D: Quali possono essere, aiuti economici a parte, i sentieri da percorrere?

R: A questo punto è chiaro che sono le donne a pagare lo scotto più caro di tutte le patologie del sistema, vale a dire lavoro irregolare, sfruttamento e precarietà. Occorre ripartire un coinvolgimento veramente “alla pari” delle donne nel mondo del lavoro. Un coinvolgimento che sia concreto, duraturo e permanente, mediante misure strutturate nel tempo.

D: Tra l’altro recentemente ha avuto molto successo il convegno dal titolo “Le discriminazioni di genere sul luogo di lavoro: fenomenologia e connesse tutele”, organizzato dal suo Ufficio in concerto con l'Ordine degli Avvocati di Potenza.

R: Ritengo che anche e soprattutto nei periodi emergenziali, quale quello che stiamo vivendo, si debba sempre mantenere alta la guardia della formazione ed informazione sui diritti di cui si è portatore o portatrice e delle connesse azioni rimediali. Proprio nei periodi emergenziali a pagare lo scotto sono sempre le fasce più deboli, segnatamente le donne, cui tutti il carico di lavoro viene trasferito (non solo di cura e familiare, ma anche dell’istruzione, con la didattica a distanza, come abbiamo verificato nel corso del lockdown, con l’applicazione dello smart working semplificato). Pertanto, anche con modalità webinar ho voluto fortemente il Convegno in parola che ha avuto un importante riconoscimento anche dall’Ispettorato nazionale del Lavoro. Nel corso del convegno ho presentato il Vademecum sulle discriminazioni di genere, un agile strumento per tutti gli attori del mondo del lavoro. Volume che è prenotabile via mail (mail istituzionale) e che può essere ritirato presso la portineria del mio ufficio, gratuitamente.