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di Walter De Stradis

 

Compie sessantaquattro anni oggi, quattro aprile (per voi che leggete).

Monsignor Antonio Giuseppe Caiazzo, calabrese nativo di Isola di Capo Rizzuto, dal 12 febbraio 2016 è arcivescovo della diocesi di Matera-Irsina. Negli ultimi giorni si è ritrovato pastore di un gregge particolarmente disorientato e sconvolto, a seguito sia della chiusura di Irsina (per le ben note vicende relative al dilagare del Coronaviurus), sia per la scomparsa -iniqua, atroce e straziante- del piccolo Diego, trovato morto nei pressi del fiume Bradano, a Metaponto.

L’intervista che segue è stata realizzata in videochat lunedì 30 marzo scorso.

D: Quando ha capito che nella sua vita sarebbe stato un sacerdote?

R: Per la verità da ragazzo ho sempre scartato a priori l’idea (ride). Pensi che una volta, quando ero alle medie, il parroco mi chiese se per caso volevo entrare in seminario… e io da quel momento in poi non misi più piede in chiesa! In realtà io volevo fare il medico, curare i corpi…

D: …e invece poi ha curato le anime.

R: Infatti. Il Signore mi ha indicato altre cose e mi ha fatto capire nel tempo. Ricordo il giorno che lo dissi a mio padre, dopo il diploma: sa, io ero l’unico maschio di quattro figli e lui agricoltore analfabeta… insomma, gli comunicai l’intenzione di diventare prete e lui mi guardò negli occhi e disse: «Ma figlio mio, così perdiamo la razza!». Poi ci pensò un po’ su e continuò: «…ma se tu sei felice, lo sono anch’io». Solo dopo scoprii che mia mamma mi aveva promesso in sogno al Signore quando era in attesa e rischiava di morire per il parto.

D: Immagino che questo possa essere il momento più difficile della sua carriera…

R: …missione.

D: Missione.

R: Essendo stato parroco per trent’anni, mi manca moltissimo la possibilità di stare in mezzo alla gente. Sto cercando di sopperire con i mezzi che la tecnologia ci mette nelle mani. Me la cavo: faccio dei videomessaggi, omelie della messa e altro. Cerco anche di sostenere moralmente i confratelli sacerdoti.

D: Com’è il morale della truppa?

R: Stanno soffrendo molto anche loro: la cosa più triste che stiamo vivendo è non poter celebrare l’eucarestia … o i funerali. E’ veramente INUMANO. E’ inumano non poter celebrare le esequie e dare una parola di conforto, accogliere il pianto delle persone, che viene strozzato interiormente. Penso, ad esempio, anche alla morte del piccolo Diego di Metaponto: proprio ieri ho avuto modo di parlare al telefono, a lungo, col papà. Domani ci sarà questa piccolissima cerimonia nel cimitero di Bernalda, ma questi sono i momenti in cui noi come Chiesa dovremmo essere particolarmente vicini… e non possiamo esserlo.

D: Lo dice senza polemica o con un pizzico di rammarico?

R: Guardi…il rammarico c’è, perché è giusto che si osservi tutto quanto ci viene prescritto, ma in certe situazioni almeno un momento di preghiera, con i soli familiari, e distanziati, forse si poteva fare…

D: Cioè lei dice: un funerale in chiesa, con i soli familiari, posti alla giusta distanza, sarebbe anche giusto poterlo fare…

R: Sì, anche se il no ai funerali è stata una delle condizioni poste da subito. E si capisce anche il motivo: in queste occasioni ci si riversa in massa per manifestare il proprio affetto e ci sono anche i curiosi. Pertanto, capisco e osservo rigorosamente quanto ci viene detto e invito i confratelli sacerdoti a fare lo stesso.

D: Immagino che non sia facile fare una telefonata come quella col padre di Diego.

R: Non ci sono parole da dire, si tratta di entrare nel dolore dell’altro. Mi creda, è stato più lui a dire delle cose a me, che non il contrario. Sono rimasto davvero confortato, io, nel mio spirito. Non appena ci sarà l’opportunità, mi recherò dalla famiglia.

D: I segnali che le arrivano dal territorio quali sono, ora che alcuni comuni del Materano sono chiusi?

R: Col vescovo di Tricarico mi sono sentito, ma soprattutto con i parroci di Irsina e col sindaco. Nella lettera di Pasqua ho scritto loro che saranno anche isolati, ma che non devono sentirsi soli. Il morale fra i fedeli non è certo dei migliori, col sospetto, i dubbi e la paura del contagio, e per questo io telefono spesso ai sacerdoti agli “arresti domiciliari” di Salandra, Montescaglioso… e appunto Irsina, per sapere come stanno e quali progressi ci sono.

D: Arresti domiciliari?

R: (sorride) Sa perché ho usato quelle parole? Perché in un messaggio ai detenuti di Matera ho detto «In questo momento noi ci sentiamo come voi».

D: Man mano che passano i giorni, cresce il problema della povertà.

R: Noi ci siamo organizzati da subito. Solo su Matera abbiamo due mense, a Piccianello e nella parrocchia di San Rocco. Ogni giorno, fra pranzo e cena, distribuiamo circa 150/160 pasti da asporto. Le Caritas sul territorio sono tutte mobilitate: nel corso dell’anno veniamo in aiuto di oltre quattrocento famiglie. Attualmente, a causa dell’epidemia, l’esigenza sta crescendo e noi abbiamo siglato una convenzione col comune di Matera. Abbiamo individuato tre supermercati in città, in cui i più bisognosi potranno andare a fare la spesa con un buono. Ancora: ospitiamo già 120 persone (comprensive di immigrati) nelle case della diocesi, fra Matera e i diversi paesi. Alla Caritas centrale ne ospitiamo 31; alla casa don Tonino Bello abbiamo 15 posti, nella casa canonica di Metaponto attualmente ci sono 20 persone… e così via. Ovviamente, in questi luoghi vengono rispettate tutte le prescrizioni e le indicazioni relative all’emergenza Coronavirus, a cominciare dalla distribuzione delle persone ospitate.

D: Altro tema del giorno è il susseguirsi dei reclami circa il ritardo con cui sarebbero somministrati i tamponi ai cittadini che denunciano di mostrare dei sintomi di contagio. Se potesse prendere Bardi sottobraccio, cosa gli direbbe?

R: Guardi, io mi rendo conto delle difficoltà di certi momenti, e di come sia anche facile andare in confusione in determinate condizioni e in presenza anche di alcuni consiglieri che si hanno attorno. In questo momento però, come ci ha detto Papa Francesco, siamo tutti sulla stessa barca e dobbiamo remare tutti verso la stessa destinazione.

D: Al bando quindi le polemiche?

R: Dobbiamo smetterla con l’atteggiamento tipico del Sud, che è quello di tagliarsi le gambe; occorre mettere da parte la propaganda politica e darci una mano l’un l’altro. Detto questo, delle criticità e delle mancanze CI SONO STATE. Proprio sui tamponi, io sono stato testimone di situazioni incresciose, e l’ho fatto presente ai rispettivi sindaci. «Io non posso nulla –ho detto loro- ma voi che rappresentate le istituzioni vi dovete far sentire».

D: Quindi, lei mi dice, un problema sulla somministrazione dei tamponi forse in effetti c’è.

R: Il problema c’è. Io mi sono interessato personalmente su Salandra, Montescaglioso,

Tinchi e Pisticci affinché si intervenisse in alcune situazioni: sono stato infatti in contatto con alcune famiglie che chiedevano aiuto e che attendevano risposte.

D: E lei, collegamenti virtuali a parte, adesso come passa le sue giornate?

R: Il da fare non mi manca. (ride) Il 2 aprile, giorno di San Francesco di Paola, andrò a celebrare qui in ospedale per tutti i malati. Abbiamo anche devoluto 35mila euro per comprare dei ventilatori polmonari e altri presidi. In città forse siamo stati i primi a dare un segnale, da questo punto di vista.

D: La canzone che la rappresenta?

R: Adoro Renato Zero e Baglioni, ma sin da piccolo ho sempre cantato “Io vagabondo” dei Nomadi.

D: Il film?

R: “Morire d’Amore”… sarà che l’ho visto tante volte da ragazzo…

D: Il libro?

R: Amo la poesia e Alda Merini, e quindi uno qualsiasi dei suoi libri. Pochi come lei hanno saputo raccontare la sofferenza, ma anche la speranza.