pranzoMARENGO

In questi casi, a proposito di personaggi come lui, si usano locuzioni del tipo “è un pezzo di storia della musica italiana”; ma al giornalista e produttore Renato Marengo si deve più di qualche “mattone” del muro di sostegno di suddetta Storia. In qualità di inventore e teorico del Napule’s Power (o Neapolitan Power), ovvero di quel movimento dei cosiddetti Negri del Vesuvio che da fine anni Sessanta ha rivoluzionato la scena musicale del sonnacchioso Belpaese, Marengo ha lanciato o prodotto (fra gli altri) personaggi del calibro di Nuova Compagnia di Canto Popolare, Edoardo ed Eugenio Bennato, Tony Esposito, Roberto De Simone e Teresa De Sio, senza contare la “scoperta” di Pino Daniele e “l’avventura” brasiliana col nostro (e mai troppo compianto) Antonio Infantino, al quale produsse un disco sfortunato, ma poi divenuto leggendario. Renato Marengo lo abbiamo incontrato a Roma, in un caldissimo pomeriggio di inizio giugno.


Come giustifica la sua esistenza?
Bellissima domanda. Anche nel mondo della musica esistono i destini, dunque è come se io fossi nato predestinato. Mio padre, infatti, era prima viola al San Carlo di Napoli e faceva parte di un quartetto d’archi. Ho iniziato a scrivere da giovanissimo e scrivevo di tutto, come le storie dei posteggiatori che suonavano nelle pizzerie. Incontrando la musica contemporanea e scoprendo tutti gli altri generi che le gravitavano intorno, come la musica napoletana dei guappi -che io ho sempre considerato invasiva in virtù del profondo legame tra canzoni sentimentalistiche, camorra e malavita- ho imparato da subito a tenermene distante.


...e quindi lei ha inventato un vero e proprio nuovo genere.
Sì, perché da qualche tempo c’era un mondo di musicisti che proprio da Napoli cercava di uscire fuori. Con Raffaele Cascone e Michelangelo Romano, due carissimi amici nonché personaggi della Rai, cominciammo a scrivere a proposito di qualcosa di insolito, a metà tra il jazz e la musica leggera. Ebbene, tra i Napoletani che iniziarono a frequentare i primi localetti di jazz e rock c’erano Roberto De Simone, che suonava il piano, Tullio De Piscopo, che suonava jazz-rock, e poi c’era un Pino Daniele giovanissimo con i calzoncini corti, Enzo Avitabile, Lino Vairetti con gli Osanna, Tony Esposito e, primi tra tutti, perché mi avevano colpito particolarmente, c’erano gli Showmen di Mario Musella, James Senese e Franco Del Prete. Diventai, involontariamente, l’ufficio stampa di un loro manager. Gli Showmen sono stati il primo gruppo napoletano davvero potente. Fierro, che aveva la sua etichetta, gli Esposito e Rondinella parlavano di nuova musica napoletana, ma non avevano la più pallida idea di quale fosse e, quando provavo a proporre gli artisti della Nuova Compagnia di Canto Popolare ai discografici locali, mi rispondevano con il solito refrain: “magari metto il loro disco in libreria, ma chi se li compra?”.


I “Negri del Vesuvio” furono innanzitutto figli della contaminazione culturale?
La vera nuova musica napoletana nasceva nei localetti del porto, perché i nostri alleati, gli Americani, anziché fare la guerra si appassionavano un po’ alle signorine del posto, un po’ alla musica. I più grossi jazzisti americani facevano il militare e stavano proprio a Napoli, ove suonavano insieme ai ragazzini del posto. Grazie agli Americani, infatti, i nostri musicisti poterono imparare un modo di suonare insolito, insomma un qualcosa sia dal sapore napoletano sia mondiale.


Ma perché “Napule’s Power”?
All’epoca ero particolarmente impegnato anche dal punto di vista politico, tant’ è vero che per noi la sinistra significava pura avanguardia. Mi appassionai al Black Power, che in America erano un gruppo di rivoluzionari non violenti e fieri della loro negritudine, che dimostravano con costanza i brillanti risultati raggiunti dal loro nello sport e nella musica. La musica era nera. Il Napule’s Power dunque è proprio questo, tant’è vero che il sottotitolo era “I negri del Vesuvio”. La parola negri fu scelta per due motivi: il primo è perché erano fieri della loro napoletana negritudine; il secondo deriva dal fatto che i Milanesi ci trattavano come se fossimo negri, visto che proprio a Milano le industrie discografiche non ci curavano per niente.


Quando si è verificato il passaggio da giornalista a produttore?
Scrivendo di rock, fra le altre cose, mi avvicinai anche a Ciao 2001, una vera e propria Bibbia quando si parla di questo genere musicale, al punto che se i cantanti non venivano menzionati dalla rivista, certo non li avrebbe comprati nessuno in Italia. I discografici cercavano in tutti i modi di corromperci, ma noi eravamo assolutamente rigorosi. Quegli stessi discografici, dopo critiche e critiche, iniziarono a chiederci quale fosse la musica che noi giornalisti avremmo proposto e io feci subito il nome della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Iniziarono a pensarci su fino a quando decisero di investire due soldi nel progetto. Il salto da giornalista a produttore avvenne in maniera del tutto automatica, quando mi fu chiesto semplicemente di occuparmi del gruppo, visto che già ne ero il mediatore. Ero, tuttavia, ancora un critico di rock, dunque sono riuscito con i miei mezzi a fare organizzare un loro concerto prima dell’esibizione della PFM a Milano, al Teatro Verdi. L’acronimo NCCP è frutto proprio di quell’evento e venne pubblicizzato proprio come se fosse un gruppo rock. Io producevo Tony Esposito e la Nuova Compagnia di Canto Popolare, ma contemporaneamente c’erano gli Showmen, dei quali ero amico, e gli Osanna che presero coraggio e fecero il loro secondo disco in napoletano. Si iniziò a creare un vero e proprio movimento che chiamai Napule’s Power.


Lei inserisce in questo movimento anche il lucano Antonio Infantino.
Come no! Mi ero già occupato dei Tarantolati di Tricarico, perché collaboravo in Rai con Giancarlo Governi, che era il direttore della collana “Folk” della Fonit Cetra. Dopodiché nacque un’amicizia, fortissima, con Antonio Infantino, che ormai suonava perlopiù da solista, e apriva i concerti di Eugenio Bennato, Teresa De Sio e Nuova Compagnia di Canto Popolare. Entrò quindi nella “famiglia”: io infatti l’ho sempre considerato come membro del Napule’s Power, nella sua accezione comprensiva di tutta l’area mediterranea. In questo senso successivamente fui confortato dallo stesso Pino Daniele, che chiamava “Rock Arabe” lo stile dei musicisti africani attivi sulle coste francesi. Raffaele Cascone lo chiamava “Rock Mediterraneo”, da qui poi “Blues Mediterraneo”, “Nero a Metà” e così via. E Infantino era dentrissimo a questo: innanzitutto per questo suo battere il piede, seduto su una sedia, al seguito di un ritmo incalzante (personalissimo, quasi inventato).


E fu la volta del disco “brasiliano” di Infantino.
Sì, lui viveva lì e per la verità non ci frequentavamo da un po’. D’un tratto mi telefonò e mi disse: «Renato, ho scoperto che qui in Brasile, su 730 ritmi di samba, ce n’è uno identico a quello che facevo io con i Tarantolati. L’ho fatto ascoltare, e la Escuela de Samba di Ubatuba mi ha fatto membro onorario e adesso lo eseguono quando partecipano al Carnevale. Facciamo un disco? Ho chiamato tutti e nessuno è interessato, solo tu puoi fare le cose impossibili!». Visto che i miei gruppi andavano bene, ne potei parlare col direttore generale della Polygram (che ne era anche comproprietario): conquistato dal mio entusiasmo (oltretutto lui, belga, aveva una moglie brasiliana), ci disse “Ok” e ci diede i cento milioni necessari per fare il disco (non molto, uno di Tony Esposito poteva costarne anche 200), e alla fine volai in Brasile alla volta di Infantino, per registrare il tutto. Il disco risultante è “La Tarantola va in Brasile”, del 1979.


Immagino sia stata una vera “avventura”.
Sì, “alla Infantino”! Fra una cosa e l’altra si fece mezzanotte e arrivammo a San Paolo, sede dello studio di registrazione, dove si aprì una saracinesca e comparve una serie pressoché infinita di famosi performer del luogo (c’erano Papete, Dudu, Fafà De Belem): alla fine lavorammo per un mese. Non solo, a Ubatuba, dove lo stesso Antonio era stato “adottato”, filmai un’intera Escuela De Samba, ovvero una specie di paranza di 400 percussionisti, con Infantino in testa con pennacchio e bastone. E suonavano, fra le loro cose, una sua “taranta”.


C’è da non crederci.
Se fosse nato in America, Antonio sarebbe stato Springsteen o Zappa, ma essendo nato in un’Italia molto cieca e molto poco attenta, le cose sono andate assai diversamente: quel disco era straordinario, in anticipo sui tempi, ma “qualcuno” ai piani alti (c’era stato un cambio alla direzione artistica) ritenne che era “registrato male” e non gli fece ottenere il successo che meritava. E pensare che il brano “Carnaval” poi fu scelto dalla Rai come sigla per un programma sui campionati mondiali di calcio! Va detto, però, che lo stesso Antonio era molto schivo di suo, non è voluto mai entrare nei discorsi della promozione; politicamente e culturalmente esigeva che la gente lo capisse così com’era, tutti gli altri ciccia. E così è stato. Lui aveva 200 vite, anche quando era un Andy Wharol e vendeva quadri a prezzi importanti... Ha avuto più vite, e non si è mai soffermato su quella più comoda. Frank Zappa faceva della “pop art” con la sua faccia, i suoi baffi e il suo pizzetto; Infantino faceva la stessa cosa quando indossava il cappello nero e la barba lunga (e tutti pensavano fosse un fondamentalista ebraico), così come quando, negli ultimi tempi, si acconciava come un arabo e indossava sul capo quella specie di kefiah: per lui le religioni dovevano accomunare e non dividere. E usava il suo corpo come un tramite.


E’ possibile scorgere oggi un suo erede?
Forse Vinicio Capossela. Anche se non ha la stessa identità o vita privata, è un avventuriero/pirata/ chansonnier, anch’egli un artista di strada.


Quando lo conobbe che impressione le fece, invece, Pino Daniele?
Venne a casa mia a Napoli che aveva sedici anni e i calzoni corti: me lo portò Claudio Poggi che era un mio amico e collaboratore. Pino, un fenomeno, suonò la chitarra acustica in un modo… che non capivo dove mettesse le mani!!! E cantò con questo falsetto, tant’è che io gli chiesi se impostasse la voce, e lui: «No, chella è ‘a voce mia!» (imitandolo – ndr). Indimenticabile: aveva la voce proprio “rock arabe” come Youssou ‘N Dour, ma con una musicalità internazionale.


Ha un qualche rammarico su di lui?
In generale, il rammarico è che ci ha fatto lo scherzetto di morire anzitempo. E poi…sì, ce n’è uno personale. Quando tornai a Roma, riunii i miei musicisti di allora e raccontai di aver scoperto un ragazzo eccezionale. Erano contenti tutti (Jenny Sorrenti, Eugenio Bennato, Patrizio Trampetti, Fausta Vetere), tranne uno, che commentò (imita la voce – ndr): «Adesso a Napoli tutti quelli che cantano con una chitarra in mano si sentono Edoardo Bennato!».


A parlare era lui?
Esatto. Era proprio Edoardo Bennato, che io producevo e che non si mostrò entusiasta della notizia. Non avendo comunque intenzione di andare “contro” i miei artisti (anche se non avevo l’esclusiva con loro), presi e alzai il telefono, e chiamai il discografico Bruno Tibaldi. Gli dissi: «Ti mando Claudio Poggi con un ragazzo fenomenale». Andarono a Milano e –forse per la prima volta nella storia della discografia italianase ne tornarono con il contratto! Ecco, il mio rammarico è non aver prodotto Pino Daniele, ma –pur non guadagnandoci nulla- mi sono comportato come se l’avessi fatto. E lui –a differenza di tanti altri artisti che invece ho prodotto e che mi devono letteralmente la loro carriera- mi è stato riconoscente. Sei anni fa, in occasione di quel megaconcerto al Palapartenope in cui raccolse tutto il Napule’s Power, Ernesto Assante su Repubblica gli chiese: «Pino, mi spieghi come diavolo avete fatto a uscire fuori negli anni Settanta, nonostante la camorra, i neomelodici etc.?». E lui rispose: «Dobbiamo TUTTO a un giornalista intraprendente e dinamico che ci ha portato alle case discografiche di Milano, Renato Marengo. E a Renzo Arbore che ci ha portato in televisione».