editoriale1603

Cari Contro-Lettori,

per chi non lo sapesse, Alan Lomax era un etnomusicologo americano, uno di quei curiosi tizi, cioè, che -armati di registratore- girano per il Globo, attraverso villaggi, paesini, campagne e quant’altro, alla ricerca dei suoni e dei canti della tradizione orale di quei popoli. Lomax, che insieme al padre aveva già “regalato” al mondo il Blues del Delta del Mississipi, a metà anni Cinquanta del Ventesimo Secolo venne anche dalle nostre parti per mettere su nastro i nostri canti popolari, che altrimenti sarebbero andati perduti (per la precisione, in Basilicata si fermò solo a Muro Lucano, ma fece un’ampia ricognizione nella “Lucania Storica” del Vallo di Diano). All’esito della sua ricerca nel Mezzogiorno d’Italia (Lomax era stato anche al Nord), rilevò che le ninne nanne che si cantavano ai neonati avevano lo stesso tenore “disperato” dei lamenti funebri, quasi a preparare il piccolo a una vita di sofferenze. Ciò derivava, a suo dire, dall’atteggiamento di “sottomissione” col quale la nostra gente (le donne in particolare) affrontava le asperità dell’esistenza. Chi scrive è da tempo seguace dei lavori di Lomax, ma gli è capitato casualmente di rileggere questo passaggio su di lui soltanto qualche giorno fa (in uno scritto di Pino Aprile); curiosamente, ciò avveniva subito dopo aver realizzato un’intervista col cabarettista satirico potentino Antonio Sabia (del Trio “La Faina”, ma conosciuto in solitaria come “Gianluca U’ Sfi ammat”: la trovate a pagina 5), che –manco a farlo appostaaveva usato la stessa identica parola: “sottomissione”. Il comico, attento osservatore della realtà potentina, interrogato sul rapporto fra i Lucani e la Politica aveva infatti spiegato che «Noi non andiamo mai contro i poteri forti, ci “costruiamo” dei giganti e ci vediamo sempre più piccoli di loro, ma non immaginiamo mai che magari possa essere l’esatto contrario». Una sorta di atteggiamento rinunciatario, insomma, una qualche forma di atavica rassegnazione a un ruolo da “comprimari” della vita sociale (di cui la Politica fa parte) che ci avrebbe affi dato quello stesso destino avaro e crudele che spingeva le mamme o le vedove degli anni Cinquanta a intonare comunque note di sofferenza, tanto ai loro nuovi nati quanto ai loro morti. E’ innegabile, infatti, che nelle piccole realtà come la nostra, dove c’è il mercato di Rione Verderuolo e non già Sunset Boulevard, in assenza di “vip” patinati (del cinema o del calcio, ad esempio) ci costruiamo dei surrogati/simulacri con quel che passa il convento: i nostri politici, o aspiranti tali. E’ viepiù innegabile che –sotto tanti punti di vista- sono loro i nostri “divi”. Da sempre. Anche se gli attori protagonisti dovremmo essere noi; ma ci piace troppo lamentarci, cantando o no, del nostro “Fato”.

Walter De Stradis