LOPOMOpranzo

Oreste Lo Pomo, oltre a essere un volto molto noto del giornalismo, ha anche l’indubbio vantaggio di poter contare su una “sagoma” immediatamente riconoscibile. Tutti lo vedono arrivare. Alto, ha sempre quella postura leggermente ingobbita, i capelli capricciosi, il sorriso bonario e gli occhietti intelligenti come due fessure. Non lo ammetterà mai, ma anche per lui (come per molti altri cronistiscrittori) la narrativa “pura” è un “lusso” che gli consente di raccontare -con libertà creativa e di pensiero- ciò che quegli stressi occhietti hanno visto chissà dove. Lui –che è un noto cultore e autore di poesia- lo chiama “frullatore descrittivo”, ed è l’espediente col quale ha scritto il suo nuovo romanzo, “Malanni di Stagione”, uscito per Cairo.


Come giustifica la sua esistenza?
Sostanzialmente credo in una vita all’insegna della famiglia, della modestia e della tranquillità, ma anche della Cultura e della possibilità di esprimersi in un modo personale.


Quando ha capito che il giornalismo sarebbe stata la sua vita?
Beh, nel cortile di Palazzo Luongo (in corso Garibaldi a Potenza), io ero quello che, mentre giocava a pallone con gli amici, faceva anche la “radiocronaca” della partita. Mia madre sul comodino ha una foto del piccolo Oreste –a tre o quattro anni- con un fascio di giornali sotto il braccio. Fu scattata nella casa di mia nonna a Tito.


La sua prima rassegna stampa.
Probabilmente sì (ride). Io ho sempre scritto, ma guardi, specie per quanto attiene al concetto di “descrizione”, devo moltissimo alla professoressa Lauria Nenni (preside della scuola media che frequentavo), che ci faceva fare dei temi molto particolari e stimolanti. Prima ancora, alla scuola elementare avevo avuto un insegnante-poeta, il celebre maestro Scarano, che già mi aveva portato verso la poesia.


Ma chi è nato prima? Il giornalista, il poeta o lo scrittore?
Non lo so. Posso dire che –contrariamente a quanto spesso si pensa- il giornalista non deve essere o fare per forza lo scrittore o il poeta.


Mario Trufelli una volta mi ha detto che il giornalista un po’ poeta lo deve essere.
Io dico solo che saper scrivere dal punto di vista giornalistico, non comporta saperlo fare anche nella poesia o nella narrativa. E’ un assunto sfatato anche da una poetessa come Patrizia Valduga, che ha scritto dei versi contro i giornalisti che «sono ovunque, anche nella letteratura».


E allora perché lei, giornalista, fa il poeta?
Non è una cosa consequenziale, ma l’esatto opposto. Mi spiego: per me scrivere poesie signifi - ca ritrovare me stesso, a fronte dell’incedere pesante della cronaca giornalistica, che ti prende tutta una vita.


Ma adesso ha scritto un romanzo.
Sì, il discorso è identico e preciso per la narrativa. Nella poesia, in particolare, ho attraversato stagioni diverse. Ho avuto una fase lirica all’inizio degli anni Ottanta che faceva già presupporre uno stile ermetico (meramente di forma e non già di sostanza); successivamente, la mia frequentazione col maestro Vito Riviello mi ha condotto verso la poesia “giocosa”, minimalista, animata da vis comica. Una poesia, mi sia consentito, che nell’immaginario –a volte retorico- lucano, è considerata di “secondo piano”. Ma non è affatto così. Anche nella narrativa, come nel caso del mio ultimo libro, cerco di applicare l’insegnamento di Auden: senza un qualche sottofondo comico, non si possono scrivere genuini versi seri. Tra l’altro, anche il poeta inglese, nei suoi aforismi, a volte se la prendeva coi giornalisti: «Il problema oggi è che il giornalismo è illeggibile, e la letteratura non è letta».


Questo Auden lo scriveva molto tempo fa?
Sì, esatto.


Ma sembra scritta oggi.
Sì, è vero.


Oggi ce l’hanno tutti coi giornalisti. Per alcuni movimenti politici, addirittura, il termine è ormai sinonimo di “cazzari”.
Noi non siamo affatto dei “cazzari”. Tuttavia, la libertà di stampa –che è una cosa da salvaguardare- è ben diversa dal “libertinaggio” di stampa. La libertà di stampa vuol dire coraggio, uscire fuori dalla sudditanza, ma anche responsabilità nell’uso della stessa. Guardi, io credo molto nel giornalismo d’inchiesta, ma bisogna farne buon uso, senza mai bypassare la verifi ca e il confronto di tutte le fonti; il giornalista, se ne è capace, può arrivare al punto di fornire una “notizia criminis” alla Giustizia, ma è cosa ben diversa dal ridursi a portavoce di un magistrato o di un avvocato.


Torniamo alla narrativa e alla poesia: in Basilicata scrivono praticamente tutti, ma è la regione in cui si legge di meno.
Chi ama (e studia) la poesia, spesso dice: «I poeti non leggono i poeti». Verissimo.


Quindi sono tutti poeti?
Assolutamente no. Il contrario. Voglio dire che si fa un errore storico. Uno che vuole fare poesia deve anche conoscerla, leggerla, amarla. Ma questo spesso non accade: primo errore. Secondo errore: in giro c’è chi considera la poesia alla stregua del “pensierino nel cassetto”. Io ho sempre qualche “paura” a credere a chi dice: ho scritto una poesia di getto e non l’ho toccata. Non esiste. La poesia vera (ma anche la narrativa), oltre che ispirazione, è anche cesellamento, smussamento. In poche parole: “lavoro” poetico. Invece accade che “siamo tutti i poeti” e poiché “siamo tutti poeti”, la poesia va bene così come l’abbiamo scritta.


…e poi forse ci sono anche alcune eredità culturali e di “immaginario” che a volte pesano più del dovuto.

Ci sono luoghi comuni che sono diventati elementi di lucro culturale: il Levismo e lo Scotellarismo. Le loro sono cose bellissime, ma che valgono per QUEL tempo. Quella NON è la Basilicata di oggi.


Il Marchese del Grillo nel suo film si rivolge ai pittori e ai poeti romani della sua epoca e dice: «Dove andate se vi tolgono il pastorello che suona il piffero al tramonto, fra i bovi e l’acquedotto romano?».
Perfetto. Il tutto accade sempre nell’ottica di lucrare: se non facciamo i “nipotini” di Levi e Scotellaro allora non siamo veri scrittori. E invece mi vengono in mente tanti giovani poeti di valore: Andrea Galgano, Francesco Cosenza… che fanno una LORO poesia. L’imbuto del provincialismo, infatti, è che ci sia una “poesia lucana”. Invece io penso che ci siano Lucani che fanno poesia.


Lei cita dei giovani meritevoli: ma siamo sicuri che qui in Basilicata, ove esistono contesti e consessi culturali spesso smaccatamente “blindati”, abbiano la effettiva possibilità di essere notati, valorizzati e “premiati” al pari dei soliti noti?
Questo è un problema serio. Tuttavia, quando venti-trent’anni fa noi andavamo per librerie a fare letture “Fluxus” o “slam poetry”, eravamo considerati dei pazzi. Però lo facevamo. Allora io dico ai giovani: non abbiate paure di fare le vostre cose, anche in una regione dove -in effetti- c’è la concezione un po’ “da belletto” della cultura. E poi, secondo me, le possibilità ci sono. E se hai talento prima o poi ti imponi.


Maurizio Costanzo diceva: «Non esistono capolavori nel cassetto».
Già. Secondo me esistono i “capolavori in bottiglia”.


Cioè?
I libri spediti a un editore (come il messaggio nella bottiglia) e poi pubblicati. Questo vale anche per me: il mio ultimo romanzo l’ho mandato “in bottiglia”. Alla fi ne è stato pubblicato da un editore importante come Cairo.


Cioè lei ha agito come un esordiente qualunque? Non ha fatto presente di essere un giornalista abbastanza noto?
Non ha senso. Quel modo di fare ha una sua logica commerciale (utile, ad esempio, coi libri di cucina o con quelli scritti dagli sportivi famosi), ma che non ha necessariamente una logica letteraria. Chi vuol fare poesia o narrativa, invece, deve anche scontrarsi con la possibilità di fare flop.


Il suo ultimo libro è un romanzo, ambientato a …Potenza…?
No, in una città di provincia come tante. Anche se, ovviamente, il mio metodo è quello del “frullatore descrittivo”. Nessuno può dire di prescindere dal tutto da spezzoni di realtà, ma questi vanno “frullati” insieme nell’ottica della narrazione. Per cui, in questo caso, non ci può essere un gioco degli “abbinamenti” di persone o luoghi.


Ma lei cosa ha voluto raccontare?
Sicuramente una storia di malagiustizia, che tuttavia è solo lo spunto per dissertare dei pregi e difetti del vero “protagonista” del racconto, cioè la provincia, con tutte le sue ipocrisie E’un libro che in sostanza vuole dire: attenzione, i casi eclatanti sono una cosa, ma il rispetto delle “piccole regole” è il vero problema della Giustizia. Ecco perché il libro si chiama “Malanni di Stagione”: i malanni di una stagione troppo giustizialista, ma anche i malanni di una comunità che si rispecchia nell’opportunismo. C’è tuttavia molta ironia, una leggerezza che serve a raccontare fatti seri. Perché i “malanni di stagione”, in quanto tali, fanno pensare anche a un futuro. A un dopo. Se c’è davvero? Non lo so.


Che “stagione” vivono Potenza e la sua provincia?
Io ho scritto un racconto che s’intitola “Midnight in Potenza”, che se vogliamo richiama un po’ il fi lm “Midnight in Paris” di Woody Allen. In una calda notte, lì dove c’era la libreria “Riviello”, mi imbatto in un cenacolo che comprende Tuccino Riviello, Tommaso Pedio e altri poeti e scrittori. Loro a un certo punto scompaiono nella notte, ma mi dicono «Se tu vuoi, dopo Mezzanotte, ci troverai sempre qui, perché non la vogliamo abbandonare questa città». Ecco, non si tratta di nostalgia, ma della capacità di ricostruire tante librerie Riviello, ovvero spazi di dialogo e confronto. Ricostruire, dunque, ma senza retorica…


… né pruriti di “primogeniture”. A Potenza spesso si fa la pipì per “marcare il territorio”.
Anche questo è un problema serio. Non bisogna fare le cose per fini strumentali.


Ma anche le librerie lucane dovrebbero contribuire. Spesso gli autori locali vengono ghettizzati nello scomparto “Basilicata” (che di solito al piano di sotto o nei pressi dello sgabuzzino).
Non faccio il libraio e quindi non posso rispondere, ma in generale la provincia ha i suoi vizi. Per esempio: l’altro giorno è uscito un articolo sul mio libro, sul Corriere della Sera. E –anche se non è così- sicuramente qualcuno avrà detto o pensato che ciò accade perché io sono un giornalista. Per me invece è stata una sorpresa totale.


Le faccio fare il critico: mi dica un personaggio letterario, lucano, sopravvalutato.
Non glielo dico. Mi tengo sul generale: ripeto, non mi piacciono i nipotini di Levi, Scotellaro e De Martino.


Un personaggio lucano, invece, da rivalutare.
Gliene dico tre: Petruccelli Della Gattina (e non in una logica meramente “moliternese”: ai suoi tempi aveva capito prima di altri lo sconquasso della politica nazionale); Carlo Alianello (tacciato ingiustamente di “neoborbonismo”, ma che a tratti ricorda un Balzac); Tuccino Riviello (che secondo Ferroni è forse uno dei maggiori poeti del secondo Novecento, ma la cui poesia minimalista è stata a lungo “snobbata” da quei nipotini di Levi e Scotellaro).


Il film che la rappresenta?
“Midnight in Paris”. Invece, quello che mi è piaciuto come il libro che l’ha originato, è “Pastorale Americana” (da un romanzo di Philip Roth).


La canzone?
“Piazza Grande” di Dalla. Un cantautore che mi piace, secondo me da rivalutare, è Pippo Pollina.


Il Libro?
“Il Falò delle Vanità” di Tom Wolfe.


Quali versi le piacerebbe ci fossero sulla sua lapide?

Sempre le parole di Auden: «Senza un qualche sottofondo comico, non si possono scrivere genuini versi seri».