pranzoFABBRIS

E’ piccolo, dai modi spicci (ma cortesi) e non ha nemmeno la voce tonante che ti aspetteresti da un sindacalista tosto come lui: uno che, per un’azione sindacale (a tutela di un’azienda agricola del metapontino, indebitata e venduta all’asta), si è visto processare con l’accusa di reati gravissimi (addirittura rapina aggravata, violenza privata ed estorsione), poi puntualmente rivelatisi inesistenti in tribunale. Gianni Fabbris, nativo di Sant’Arcangelo, ma residente a Policoro, è coordinatore nazionale di Altragricoltura, nonché componente del comitato Terre Joniche.


Come giustifica la sua esistenza?
Io cammino domandando, sono uno Zapatista, non so bene dove vado, ma mi affascina l’idea della rivoluzione e mi motiva l’idea del cambiamento dello stato di cose che ho di fronte. Non so dove andrò, so che dentro questo passaggio, ci sono tanti motivi per dare senso alla mia vita, che già mi soddisfano.


Dopo essere stato processato per un’azione sindacale, e poi assolto, ritiene ancora che il sistema politico sia in grado di occuparsi di agricoltura e di agricoltori, quindi capace di affrontare il problema dei debiti di questi ultimi?
No, e non lo ritengo da moltissimo tempo, semplicemente perché non è un problema della politica. La questione agroalimentare, agraria e agricola è un grande rimorso di questa società, che negli anni ’70 ha scelto la via dell’idea dello sviluppo, della competizione, mettendo nel dimenticatoio e archiviando completamente la “vecchia e obsoleta” questione contadina.


Come se si fosse risolta ai tempi di Scotellaro?
Si, la Sinistra ha la colpa di aver rimosso questa grande questione, guardando altrove (operai, sviluppo, modernità), e intanto nell’agroalimentare c’erano i processi speculativi più avanzati della società. Quando arrivi a sfondare le frontiere, imponendo un modello che produce lo stesso cibo ovunque nel mondo, considerandolo materia prima al prezzo più basso possibile per chi gestisce il mercato, si chiude un cerchio che ha prodotto danni drammatici.


Lei che gira l’Italia e ha visto realtà diverse da quella lucana, come giudica l’efficacia della politica nostrana in materia di agricoltura?
La politica regionale lucana è in media con ciò che accade dappertutto. Quella locale, tuttavia, è passata adesso dalla “sottovalutazione”, all’idea dell’ “efficienza” del sistema. Ho avuto più volte modo di dire all’assessore regionale, Luca Braia, che il tema non è “efficientare” il sistema, ma riformarlo ex novo. Per riformarlo, bisogna avere un’idea di futuro, ma loro insistono su questa sfi da dell’efficienza. Efficienza vuole dire mettere a sistema le regole, ma in queste regole che si sono costruite negli ultimi 20-30 anni, c’è scritta la morte della nostra agricoltura. Abbiamo assistito alla politica europea che ha puntato a spostare l’agricoltura produttiva dal Sud dell’Europa verso il Nord dell’Africa. Tutta questa roba, se tu la vuoi portare a “efficienza”, implica andare fino in fondo al processo che scarnifica e svuota la nostre campagne del lavoro agricolo. Questa è la verità. Nel nostro Made in Italy ormai, non c’è più il prodotto dei nostri produttori, bensì un prodotto amorfo, svuotato del rapporto con il nostro lavoro. Le marche del Made in Italy sono spesso nella mani di speculatori, neanche italiani, tra le altre cose.


Sta dicendo cose molto precise, molto circostanziate e molto tecniche, ma con Braia parlate la stessa lingua?
Non parliamo assolutamente la stessa lingua, anche se gli devo riconoscere che nel panorama degli assessori che io ho conosciuto, non solo in Lucania, è uno che sa di cosa parla. Ma fa una scelta sbagliata. Quando lui punta sul tecnicismo e sull’effi cientare il sistema, per me commette un errore.


Spieghiamo al cittadino concretamente cosa significa questo “efficientare”.
Faccio un esempio. La meravigliosa fragola Candonga, che si produce nel metapontino: il brevetto registrato e il marchio sono spagnoli! Noi abbiamo l’AgroBios, istituto di ricerca costato ai cittadini migliaia di euro, che non è riuscito a produrre alcuna varietà di fragola locale. Risultato: noi gestiamo, per conto degli spagnoli, una fragola per la quale paghiamo le royalties, a loro. Seconda cosa: chi gestisce il brevetto di questa fragola in Italia è anche chi ha i semenzai con le piantine. Primo conflitto d’interessi: io ti pago la royalty e poi sono costretto a comprarmi le piantine che hai prodotto tu. Dopodiché, per un perverso modello di sistema che si è determinato, per commerciare il prodotto, devo accedere allo strumento del marchio, del consorzio, perché, altrimenti quella roba (di cui ho già pagato il brevetto, e comprato le piantine), mi rimane sul groppone. Quindi, cosa significa “efficientare” il sistema? Significa far fare più soldi a chi già gestisce il mercato, consegnando agli agricoltori lucani il dato di una fragola che è sempre meno competitiva sullo scenario internazionale. La realtà è che la maggior parte degli agricoltori che ha fatto fragole in questi anni è piena di debiti, perché questo è un modello costruito, imposto, che lascia la ricchezza in mano a pochi, e al territorio lascia i danni, perché la fragola è un prodotto “pompato”.


Ma i politici queste cose le capiscono, non le vogliono capire o fanno finta di non capire?
Generalmente non le capiscono perché hanno smesso di misurarsi coi bisogni del territorio. La questione è ormai tutta arroccata su chi gestisce meglio il disastro. Braia, come dicevo, di queste cose ha una sufficiente consapevolezza, ma io dico che a questa politica mancano le palle per misurarsi con il futuro: oggi dobbiamo tornare a parlare di RIFORMA del modello e del sistema agroalimentare e rurale, altrimenti siamo morti.


L’indicazione dei luoghi di produzione e trasformazione dei prodotti agricoli, che pare salterà con il nuovo regolamento europeo in via di rilascio, potrebbe essere una soluzione funzionale a dare certezza di cosa si mangia e si beve? Se sì, perché i politici italiani tollerano la sua eliminazione, operata di fatto dall’UE?
L’Unione Europea è un terreno di scontro degli interessi, come lo è la politica agricola europea. Devo dire che, francamente, la classe dirigente italiana degli ultimi 25-30 anni è stata quella più inadeguata a rappresentarci, e parlo generalmente e non di un solo colore politico. Per il lavoro che faccio, non conosco solo l’Italia, ho girato, in Europa come fuori, e ho visto in paesi come Francia, Spagna e altre realtà, classi dirigenti anche di colore politico diverso, lavorare in mezzo a mille contraddittori per difendere davvero quella che ritenevano una risorsa. Per dire, se vai in Francia, il ruolo degli agricoltori è molto importante, socialmente riconosciuto. Questa cosa non si è determinata per caso, bensì per mille ragioni storiche, ma anche per il ruolo della politica. Ripeto: per noi il punto vero è stabilire chi è il protagonista di questi processi, se questi processi devono essere sotto lo schiaffo di questa speculazione finanziaria e della commercializzazione, oppure se devono tornare a essere protagonisti quelli che lavorano e producono e chi consuma il cibo.


Questione grano Cappelli: lei da tempo sta denunciando che lo si vorrebbe far diventare un affare privato. Ritiene che sia invece qualcosa da difendere come un fatto di libertà e di fatica per chi ha speso del tempo per rilanciarlo?
Questo grano è un incidente, un prodotto persino di nicchia: dal punto di vista dei valori che esprime, è una piccola cosa rispetto alle grandi questioni. Perché noi la stiamo affrontando come se fosse una questione centrale? Non perché sia una questione strategica sul piano economico, ma è strategica sul piano sociale, del metodo e del modello che porta con sé. Il grano Cappelli è stato il prodotto di una lunga fase di sperimentazioni sul campo; quando fu depositato il brevetto, chi lo ha fatto, non ha mai chiesto una lira di royalty. (stiamo parlando del 1917, se non ricordo male). Quella cosa poi è diventata patrimonio di tanti e di tutti, fi no a quando improvvisamente, due anni fa, chi ha la responsabilità di gestire la ricerca e la sperimentazione, il CRA di Foggia, decide di rimetterne in discussione l’affidamento. Il contratto di affidamento se lo aggiudica allora una società il cui presidente è vicepresidente nazionale della Coldiretti. Dopo esserselo aggiudicato per quattro soldi –e ribadisco per quattro soldi- questi fanno un disciplinare che norma in che modo si può accedere a quei semi, imponendo una serie di clausole da ritenersi vessatorie, fi no al punto di riservarsi il diritto di scegliere a chi vendere e a chi no. E qui c’è un ”salto” epocale: in pratica, io ti pago il brevetto, ma se non rivendo a te il grano, prodotto del mio lavoro, tu sei libero di scegliere di non vendermi più il seme. Questa è un’operazione per controllare completamente le filiere e il mercato. Già, le “filiere”, all’assessore piace molto il termine, ma se io sono costretto a rivendere a chi ha il brevetto, io non la chiamo più “filiera”, ma la chiamo in tutt’altro modo. E questo modello malato sta diventando il modello dominante.


Il meccanismo descritto mi pare quindi simile a quello della fragola Candonga.
Si uguale, ma c’è una piccola differenza. Quegli imprenditori che oggi hanno l’esclusiva del brevetto della fragola Candonga, hanno pagato con i propri soldi, inventandosi uno splendido prodotto nuovo che prima non c’era. Nel caso del grano, siamo di fronte a un’operazione in cui hanno messo le mani sul patrimonio di generazioni di lavoratori, non inventandosi nulla, e sono sostenuti dal marchio di un sindacato. Vorrei dire all’assessore all’agricoltura a cui piace questa idea della competizione e dell’efficienza: dove sta la competizione con queste regole che ho descritto? Come si fa a parlare di libero mercato, quando ci sono regole di questa natura?


Il libro che la rappresenta?
“Vangelo a Solentiname”, un libro praticamente sconosciuto, scritto da un prete in Nicaragua che si chiama Ernesto Cardenal. Era un prete della teologia della liberazione che è diventato un punto chiave della rivoluzione nicaraguense. Sono un non credente, ma sono abituato a dividere le persone sulla base del loro valore morale, e sulla base delle scelte di vita che fanno. Devo riconoscere che la religione sa essere un grande cemento per le comunità, e ogni volta che queste comunità si mettono insieme per marciare su questioni di giustizia, sono di una potenza straordinaria. Sono un nemico pazzesco.


Il film?
“Mediterraneo”. Sono affascinato dai film di Salvatores e dal loro spessore.


La canzone?
“Aicha” di Khaled. Sono un amante della musica africana, di Fela Kuti, dell’afro-reggae, anche. Mi piace il ritmo, lì dove c’è la Madre Terra.


Tra cent’anni, cosa vorrebbe fosse scritto sulla sua lapide?
«Ha vissuto degnamente».